Voci nel vento - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Voci nel vento

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XI EDIZIONE - Arcade, 5 gennaio 2006
Segnalato

Voci nel vento

di Gabriella Brumat Dellasorte - Turriaco (GO)



Premessa
La Carnia racchiude nel verde dei suoi monti e delle sue valli un immenso tesoro di opere d’arte.
Le innumerevoli chiese e chiesette sono ricche di pregevoli ancone lignee, statue, pale, paramenti, suppellettili liturgiche: e le pietre che le pavimentano sono consumate dai passi dei tanti fedeli, povera gente del popolo, che dopo averle edificate a prezzo di sacrifici oggi inimmaginabili, vi trovavano conforto pregando davanti alle sacre immagini.
La totale mancanza di scrupoli dei ladri, che non temono di profanare i luoghi sacri e i sentimenti delle comunità montane, è causa del depauperamento, purtroppo continuo, del patrimonio artistico.
Voci nel vento è ispirato ad un fatto vero: il trafugamento, negli anni Sessanta, delle statue che ornavano la quattrocentesca ancona lignea di Domenico da Tolmezzo nella veneranda pieve di San Floriano di Illegio. Furono rubate tutte, tranne due: non si è mai saputo nulla di esse. Oggi  le due superstiti, raffiguranti i santi Rocco e Sebastiano, sono custodite nel Museo Diocesano di Arte Sacra di Udine. Nella pieve, la cornice antica ospita le copie, eseguite da un artista capace.
All’autrice è d’obbligo la consueta dichiarazione: fatti e personaggi sono inventati, eventuali riferimenti a persone riconoscibili sono puramente casuali.

Voci nel vento
Tutto cominciò a Venezia, una domenica di maggio. Il caldo quasi estivo mi aveva spinta a cercare la frescura sotto i portici della Piazza. Mi lasciai catturare dal passeggio affollato. Sembrava che tutto il mondo si fosse dato convegno sotto il Leone di San Marco. Captavo curiosa quel cicaleccio frenetico in cui si intersecavano lingue diverse, qualcuna la riconoscevo perché la sentivo spesso in albergo. Lavoravo come guardarobiera ormai da un paio d’anni, la domenica era il mio giorno libero, che fortuna! Qualche volta mi concedevo il lusso inaudito di prendere il caffè seduta al tavolino del Florian, mi atteggiavo a turista solitaria e misteriosa. Per l’occasione curavo particolarmente il mio aspetto, Brigitte Bardot era il mio modello: camicetta di bucato e gonna ampia stretta da un’alta cintura, il vitino di vespa metteva in risalto la floridezza tutta friulana del seno; scarpe con tacco a spillo in coordinato con borsetta e guanti, capelli cotonatissimi coperti dal foulard di chiffon, occhialoni scuri, rossetto vivace, un tipo sexy e fatale insomma. Così feci anche quella domenica. Non potevo immaginare che in quel momento decidevo della mia vita.
Mi accorsi subito che l’uomo non mi toglieva gli occhi di dosso. Lo osservai con la coda dell’occhio. Mi piaceva il suo modo di fumare, voluttuoso e annoiato nello stesso tempo. Era bello, di una bellezza fine, mi ricordava Gary Grant, il mio attore preferito. Fu un colpo di fulmine. Almeno per me.
Cominciò una nuova vita: scoprii che cosa significasse essere innamorata, come le giornate divenissero insopportabilmente troppo lunghe o troppo corte, come il suo sguardo potesse sciogliermi il cuore e legarmi i pensieri.
Non so se a tutte le ragazze innamorate capita quel che sperimentai io, di vivere cioè come in trance, di avere occhi, orecchi, cuore solo per lui, tutto il resto era marginale, poteva anche sparire, non me ne sarei accorta. Ero felice. Dopo di allora non lo fui più. Forse la grazia della felicità tocca ad ognuno di noi una sola volta nella vita.
Sapeva ascoltarmi; e a me piaceva raccontargli di me stessa, della mia gente lontana, lassù nel paesetto della Carnia dove non si poteva arrivare per caso, tanto era isolato e nascosto.
Quando la prima volta accennò al matrimonio, mi sembrò di toccare il cielo con un dito. Ho nostalgia struggente dei progetti che facevamo. Lui voleva una casa grande, accogliente, elegante. Giravamo per Venezia, appena ero libera dal servizio, a vedere appartamenti in vendita, negozi di antiquariato, di cristallerie, di argenterie, di biancheria fine. E tutte quelle cose belle mi ubriacavano, mi lasciavano un senso di spossatezza che mi prostrava, allorché sola nella mia stanzetta tentavo di fare qualche conto; e i conti con i miei modesti risparmi.
Un giorno presi il coraggio a due mani e glielo dissi chiaro e tondo che io non potevo permettermi tutti quei lussi; forse lui...
No, lui non era ricco, ma non si sarebbe mai adattato a una vita mediocre, fra cosucce modeste; e poi per me voleva il meglio e avrebbe trovato il modo di offrirmelo su un piatto d’argento, bastava saper cogliere l’occasione giusta.
Forse si stava già presentando, l’occasione. Mi avrebbe fatto conoscere un suo amico, che lavorava per un antiquario straniero, gli aveva accennato ad una proposta interessante, ma dovevo sentire anch’io, il mio parere era importante.
Lo incontrammo qualche giorno dopo, il suo amico. Ci accolse con simpatia nel suo bell’appartamento che guardava la Giudecca, pieno di luce e di aria. E di oggetti di sobria raffinatezza: quadri, tappeti, argenti, cristalli; e fiori freschi in ogni stanza. In una casa così, mi sarebbe piaciuto vivere! Coccolati dall’eleganza non si può non essere felici.
Ci offrì dello spumante, fresco, amabile, in lunghi calici di vetro di Murano sottili come preziosa trina, e parlammo. Parlammo di tante cose, allegramente, e l’ospite affascinante mi domandò del mio paese e io raccontai della riservatezza quasi scontrosa della mia gente, delle case abbandonate dagli emigrati, delle stalle vuote, del mulino muto, delle chiese divenute troppo grandi, di cui si prendeva cura, come poteva, un sacrestano troppo vecchio.
Mi accalorai nel raccontare, perché mi ascoltava gentile con interesse genuino, o forse era lo spumante che mi rendeva ben disposta, e mi sembrava che il mio paese fosse divenuto di colpo più importante anche ai miei occhi. Lui infatti disse di sapere dove si trovava, perché gli avevano detto che nella pieve di San Floriano  c’era un’ancona lignea di maestro Domenico, del 1497: un vero capolavoro, peccato che la chiesa fosse sempre chiusa e malandata,  anche l’ancona aveva bisogno urgente di restauro. Le opere d’arte bisognava saperle conservare e, tutto sommato, stavano certo meglio nella villa di qualche intenditore che sapeva apprezzarle, piuttosto che in chiese abbandonate a se stesse.
Quest’osservazione, lasciata cadere nel discorso con leggera noncuranza, per giorni ronzò  a tratti, traditrice e molesta, nei miei pensieri. Non mi spiegavo perché mi disturbasse tanto. Lo capii quando lui trovò il modo di portare il discorso su quella certa buona occasione per fare i soldi e cambiare vita.
Non mi dilungo con inutili parole sui ragionamenti logici, sulle attestazioni di immenso amore, sulle suppliche per convincermi dell’impresa: non li ricordo, spazzatura.
Ma mi convinse.
Ricordo che il sentiero era scivoloso, quella notte; era piovuto tutto il giorno, una di quelle giornate grigie che rattrappiscono in casa i montanari. La fortuna ci aiutava, dissero.
Avevamo fatto in modo di giungere al paese col buio. Sapevamo che non avremmo incontrato nessuno per strada. Li guidai verso il cimitero, dove parcheggiammo il  furgone senza timore di venire notati.
Cominciammo la salita, ognuno con una torcia schermata puntata davanti ai piedi, meglio non correre rischi, io avanti loro dietro, in silenzio.
Respiravo avida l’odore del bosco inzuppato dalla pioggia, odore di pulito, non di unto stantio come quello che mi si appiccicava addosso nelle calli di Venezia, e che da un po’ di tempo non riuscivo più a lavar via.
Aggredivo il sentiero con falcate lente e sicure, loro sempre dietro, con il fiato corto. Provavo, chissà perché, una maligna soddisfazione nel sentire il loro respiro ansimante.
Giungemmo alla radura, la pieve si stagliava sulla sommità, bianca, solitaria; montava la guardia alla valle sottostante, le teneva compagnia il gorgogliare del torrente Bût fra i massi illuminati dalla luna. Si era alzato il vento, infatti: aveva spazzato il cielo, le ultime nuvole vagavano senza meta.
Mi sedetti sul muretto di cinta, loro armeggiarono con la serratura della porta laterale, l’aprirono senza difficoltà.
Entrammo, togliemmo la schermatura alle torce, lui mi ordinò di tenerle puntate verso l’ancona, furono le uniche parole che mi rivolse.
Lavorarono rapidi, competenti, capii che non era la prima volta.
Osservai il suo sguardo intento, freddo: mi sembrava uno sconosciuto. Riflettei con stupore che in realtà non sapevo nulla di lui, non mi aveva mai portata a casa sua: ogni giorno si era presentato nella mia vita come comparendo dal nulla.
Rabbrividii. I muri avevano inglobato tutto il gelo dell’inverno, l’avevano conservato gelosi, e ora mi avvolgeva le membra, s’insinuava nei pensieri, raffreddava ogni affetto.
Le dorature dell’ancona mandavano tenui bagliori, i colpi rimbombavano secchi sotto le volte di pietra.
Colpi di grazia.
Il vento ora si era fatto gagliardo, gemeva fra le tavielis del tetto malridotto.
Gemiti di un’anima in pena.
Mi tornarono in mente, frammenti di vetro colorato di un vecchio caleidoscopio,  le storie che avevo sentito da bambina, storie di maledizioni che colpivano  i profanatori.
Un disagio sottile mi pervase infido, non avevo più difese.
Mi riscosse la sua voce. Avevano finito. L’ancona era uno scheletro di guglie, le nicchie vuote erano occhi ciechi. Avevano avvolto le statue nei teli di lana, le avevano legate come orribili salami.
Si caricarono in spalla tre fagotti ciascuno, avrebbero fatto il primo viaggio al furgone, io dovevo aspettarli là, poi saremmo scesi tutti insieme portando le altre otto statue.
Non protestai, non mi avrebbero degnata di attenzione, non si attendevano obiezioni da me.
Mi lasciarono sola, mi sedetti rassegnata sulla panca e cominciai l’attesa.
Non avevo mai avuto paura del buio, nemmeno da bambina. Chi ha la coscienza pulita non deve temere nulla, mi aveva insegnato mia madre.
Spensi la torcia, bastava la luce della luna, amica di sempre.
Ma io non avevo più la coscienza pulita.
Era tanto tempo che non guardavo dentro me stessa, avevo smesso quando capii di aver sommerso in laguna il bagaglio di morale che mi ero portata dalla Carnia. L’avevo affondato legandolo al sasso della leggerezza incosciente.
Avevo voglia di pentimento, di lacrime, ora che ero di nuovo fra i miei monti. Ma se cedevo era finita, non si torna indietro senza pagarne lo scotto.
Mi irrigidii, tendendo l’orecchio. Era un lamento, quello che avevo sentito. Non era stato il sibilo del vento. Oppure l’autosuggestione mi stava giocando uno scherzo macabro?
Rimasi immobile, trattenendo il respiro. Guardai  intorno, girando lentamente la testa: la luna disegnava sui muri ombre inquiete, illuminava fredda le sculture dell’altare di pietra dipinta che stava alla mia sinistra.  San Rocco mi guardava con occhi vivi, penetranti; la Madonna stringeva al petto il suo Bambino con infinita tristezza.
Mi alzai di scatto. Ora era una voce umana, quella che sentivo, non mi sbagliavo, una voce supplice, piena di dolore. Veniva dai fagotti? Li fissai, paralizzata. Erano distesi uno accanto all’altro, poveri corpi offesi.
Silenzio. Nelle orecchie solo il martellare impazzito del cuore.
La porta si aprì, la folata gelida mi investì senza riguardo. Erano di ritorno, ansanti, accaldati. In fretta si caricarono di nuovo di tre fagotti ciascuno, mi ordinarono di prendere gli altri due. Ce ne andammo, nessuno di noi chiuse la porta.
Il vento ora frustava gli alberi. Avevo freddo. Anche in fondo all’anima. Loro mi precedevano, ormai pratici del sentiero.
Qualcuno mi chiamò, non erano stati loro. Era una voce angosciata, nel vento. Mi fermai, guardai indietro.
Nessuno. Solo la luna tra i rami gementi.
Ripresi a camminare più veloce, loro erano già distanti. Si erano fermati ad aspettarmi, lui mi rimproverò seccamente, non dovevamo perdere minuti preziosi, prima ce ne andavamo meglio era.
Eravamo quasi a metà strada, quando la udii di nuovo, la voce nel vento, un’invocazione accorata.
Allora decisi. Tornai indietro, non li avvisai, raggiunsi la pieve. Liberai le statue da lacci e panni: erano san Rocco e san Sebastiano. Li ricollocai nelle loro nicchie.
Loro erano  tornati indietro a cercarmi, dopo aver scaricato i fagotti nel furgone; temevano che mi fossi fatta male scivolando sulle pietre viscide. Notarono subito che non avevo più i miei. Dissi che avevo ricollocato le statue al loro posto, lo dissi continuando a camminare, precedendoli.
Lui mi strattonò per il braccio, rabbioso, chiedendo spiegazioni. L’amico gli disse di lasciar perdere, era meglio andar via, tra poco sarebbe spuntata l’alba.
Nessuno dei due mi rivolse più la parola, durante il viaggio fino alla stazione di  Mestre. Là consegnarono il furgone a due uomini, poi insieme prendemmo il treno per Venezia. Io mi sedetti in un altro scompartimento. Non li rividi mai più.

Sono trascorsi più di quarant’anni da allora. Ora sono vecchia, m’affaccio su un altro mare, vivo in Riviera. Tutto sommato ho avuto una buona vita, non mi lamento.
Non ho mai raccontato a nessuno delle voci nel vento. Sono stata perdonata, ne sono certa, perché ho pagato lo scotto: non sono tornata mai più fra i miei monti.
La nostalgia della mia Carnia mi accompagnerà nella tomba.
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