Vite minuscole
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”XXIV EDIZIONE - Milano, 12 Gennaio 2019
Premio speciale
"Rosa d'Argento" Alpino Carlo Tognarelli
Vite minuscole
di Paola d'Agaro - Pordenone
Io mi chiamo Acquistapace Luigia e sono nata a Pescegallo. A Pescegallo ci si arriva passando da Gerola Alta: si fa il ponte all'altezza della chiesa di S. Bartolomeo e poi si prende la mulattiera per Fenile. Una volta imboccata quella, si sale tra prati e muretti a secco fino alle Cassinelle. Al secondo ponte sul Bitto ci si porta dall'altro lato della valle e si sale ancora fino a che non si arriva ad un mucchietto di case di pietra. Quella è Pescegallo. C'è un tratto della mulattiera che passa vicino a ul Bit del Fenìl. E' un torrente che corre gorgogliando tra le pietre della Volta di Cavài, dove si dice si nascondano gli “striamenc'”, quegli esseri orrendi, metà uomo e metà bestia, che spaventano i viandanti. Si chiama così perché alle volte i cavalli, arrivati lì, si rifiutano di andare avanti. Fanno dietro-front e tornano indietro. È successo che, nel secolo scorso, i cavalli che scendevano con un carico di calce per costruire la chiesetta di Gerola, arrivati alla Volta dei Cavai non hanno più voluto proseguire. La gente di Gerola, stanca di tutto quel carosello, ha chiamato un pittore da Lecco e ha fatto dipingere su un grande masso una Madonna che aveva tutto quello che ci vuole: aureola dorata, mantello turchino, bambino Gesù in petto, rosa nella mano destra, falce di luna e serpente sotto i piedi. Poi ha fatto salire il pievano per benedirla. E niente, tutta quella devozione non è servita. Il masso dopo un po' è andato in mille pezzi e tutti hanno capito che ci aveva messo lo zampino il Maligno. Ma gli abitanti della valle non si sono scoraggiati e hanno fatto costruire due santelle, i gisöi. Nella prima si vedono ancora oggi la Madonna col Bambino fra i santi Bartolomeo, Giuseppe, Sebastiano e Rocco. Nella seconda, sempre la Madonna col Bambino ma i santi sono Giuseppe e Antonio. A Pescegallo ci sono nove case, sei stalle e un forno e siccome fa sempre freddo, d'estate e d'inverno, capita che con la scusa di fare quattro chiacchiere con il fornaio ci si vada a scaldare la schiena contro le mattonelle del grande forno a legna. Ma ci si va anche per sentire il profumo del pane. Più in alto, sotto la montagna, la miniera del ferro dove lavorano operai che vengono da tutta la pieve e anche oltre.
Io mi chiamo Acquistapace Luigia e sono morta. A dire il vero di preciso non ancora, ma lo sarò a breve quando avrò finito di dettare la mia storia. La mia storia comincia dove ho detto, nel 1901, e finisce a Castellazzo di Bollate il 7 di giugno del 1918.
A me da grande sarebbe piaciuto fare la sarta, magari a Lecco, magari in uno degli atelier sul lungolago, oppure in piazza XX settembre. Invece, quando ho fatto i 14 anni dovevo scegliere se andare a servizio a Milano o lavorare a Vigevano nella monda del riso. Io ho scelto di fare la mondariso perché non avevo mai preso un treno e, dai racconti di mia sorella grande, doveva essere una cosa bellissima. Lei tornava a casa nel pieno dell'estate, con 400 lire e 40 chili di riso in un sacco e mi raccontava la vita favolosa che faceva là. Certo, lei non te la faceva sembrare tanto favolosa, a via di storcere la bocca e lagnarsi delle zanzare, dei sorveglianti, del materasso duro e della polenta terragna, ma io pensavo solo a quando avrei preso il treno e avrei dormito nel camerone con le compagne.
In treno non era come pensavo, anche se in stazione mi sentivo come se tutti schiattassero d'invidia: io con il mio saccone sulla spalla e il cappello di paglia in testa. I sedili erano duri e c'era talmente tanto caldo che la gonna mi si appiccicava al legno della seduta e la camicetta a quello dello schienale. Il fumo della motrice tirava dalla nostra parte sicché non potevamo neanche aprire i finestrini. Ma nelle gallerie riusciva ad entrare comunque dalle cerniere delle porte e tutti, anche quelli che erano saliti dopo ed erano dovuti rimanere in piedi nel corridoio, cominciavano a tossire. Avevamo la faccia così nera che di bianco c'era solo la sclera degli occhi arrossati e pieni di cispa. Tre ore è durato il viaggio e io ho pensato che tante volte a noi sembra che casa nostra sia il posto più brutto del mondo, ma è perché non sappiamo cosa c'è fuori.
Alla stazione di Vigevano abbiamo aspettato fino a sera - sedute sul marciapiede perché in sala d'aspetto non ci facevano stare - che venisse a prenderci il carro del padrone che così faceva un carico solo con tutte quelle che scendevano dai vari treni. Io, in tanti giorni, del padrone non ho visto altro che il carro perché a noi ci dicevano che c'era, ma gli ordini li dava sempre il fattore e a lui bisognava riferire se si stava male o se qualcosa non andava. A me la pianura faceva impressione. Mentre il carro attraversava le risaie con sopra quindici di noi, io con il mento sulle ginocchia cercavo tra gli alberi la sagoma delle montagne. Era troppo buio per capire se non c'erano o erano solo nascoste, eppure io sentivo come un peso nel petto, una specie di smarrimento, perché era come se mi mancasse il nord e fossi condannata a girare in tondo tutta la vita. Quella sensazione di dondolare appesa a un filo mi è ritornata tutte le volte che ho lasciato la montagna per la pianura. La sera, sfinite, siamo andate a letto con in pancia un piatto di riso e fagioli che traboccava ed eravamo felici perché a casa non ce ne toccava mai tanto, anche se ancora non sapevamo che lo avremmo mangiato uguale per tutti i quaranta giorni a venire: riso e fagioli a pranzo, fagioli e riso a cena, magari con un po' di formaggio da raspa o di polenta. Eppure, adesso non so cosa darei per poter ancora infilare il cucchiaio di rame nella scodella e masticarlo veloce quel riso, come facevo prima, ché io sono sempre stata un fulmine nel mangiare e mia madre mi diceva che la polenta la mandavo giù viva.
I primi tempi sono stati un inferno. Piangevo tutte le notti per i morsi delle zanzare, con tutto che tenevo le calze di cotone addosso e non le toglievo anche se marcivano a stare tutto il giorno dentro l'acqua. Mi grattavo fino a farmi venire la crosta, e ancora di più per le sfuriate che mi facevano i sorveglianti quando invece di strappare l'erba strappavo le piantine del riso. Nel camerone avevamo diritto a un saccone di foglie di pannocchia, una mensola e una sedia. Si mangiava tutte assieme nell'enorme cortile del cascinale, o nel magazzino, quando pioveva, ed era il momento più bello. Soprattutto la sera, quando arrivavi stanca e sudata dalla risaia e c'era tutta la notte davanti prima di ricominciare a lavorare. Aspra e serena fatica, dicevano quelli che il riso l'aveva visto solo a tavola. La mattina arrivavamo in risaia con in tasca una fetta di polenta avanzata e nient'altro. Le ragazze del posto avevano infilata nella cintura mezza pagnotta lunga lunga che piluccavano piano senza farsi vedere e che a mezzogiorno era già finita. A volte le madri l'avevano sporcata con un po' di gorgonzola così che l'odore attirava bestie di ogni tipo. Alle ragazze del posto non faceva paura niente: né le rane – che infilavano nel manegotto per cucinarle la sera - né i ratti grossi come gatti, né le bisce d'acqua, nere come tralci di vite. Dopo una settimana le bisce non facevano più paura neanche a me e quando ne trovavo una la lanciavo dietro le spalle senza guardare, finché una non è finita addosso a un sorvegliante. Quella volta le compagne mi hanno coperto e hanno chiuso la bocca fino a quando quello non si è stancato di minacciare e di far fischiare la canna per aria: “Voglio sapere chi è stato!”. Fu il giorno in cui ci vennero a dire che l'Italia era entrata in guerra e menomale che eravamo tutte femmine e non dovevamo andare al fronte. Poco dopo il sorvegliante sparì e ci dissero che si era imbarcato come volontario. Ma noi eravamo lontane dal fronte e troppo eccitate all'idea della partenza vicina, e della gasaiga, la festa che chiude la monda, che chi l'aveva già fatta diceva che si balla tutta la notte e ti portano piattoni di pesci-gatto, lumache e rane fritte.
“Voglio sapere chi è stato!” urlava mio padre e tutta l'aria attorno sembrava gelare da tanto cattive erano quelle parole. Ero appena scesa dal carretto che era venuto a prendermi in stazione, con i miei quaranta chili di riso e le quattrocento lire in tasca, che non mi faceva paura niente e nessuno e sentivo che avrei potuto saltare i fossi per lungo da tanto ero felice. Felice di avere fatto il mio dovere e di essere finalmente a casa, con quella cornice di pascoli, crepacci e ghiaioni tutto attorno. Mia sorella quell'anno non l'avevano mandata alla monda perché non era dell'umore giusto. Diceva che le mancava l'aria e frignava di continuo. Quando le chiedevi cosa aveva di preciso le scendevano le lacrime e faceva segno con le mani di avere una cosa in gola che non andava né su né giù. A volte andava a nascondersi nel fienile e scendeva solo dopo che mio padre minacciava di andare a prenderla con il forcone. Mia madre diceva che poteva essere che stava ammalandosi di pellagra e cercava di calmare il marito che aveva preso a lavorare alla costruzione di alcuni depositi in pianura e quando la domenica tornava a casa, stanco e affamato, non aveva nessuna voglia di sentir commedie. “Bisogna che non lo vendiamo tutto, che ci teniamo un po' di latte da intingerci la polenta, se le viene la pellagra non la vorrà più nessuno”, piagnucolava mia madre. Così ero partita da sola, in una delle prime mattine di sole e senza brina, dopo essermi bevuta tutto il latte nel bricco perché pareva che mia sorella non volesse più saperne né di mangiare né di bere.
Sono scesa di corsa, e dopo di me dal carro è rotolato anche il sacco di iuta pieno di riso. “Voglio sapere chi è stato!” e la voce non sembrava neppure quella di mio padre, tanto era cattiva. L'aveva buttata a terra e le aveva afferrato la treccia sbattendola di qua e di là mentre mia madre cercava di tirargliela via dalle mani. Nessuno badava a me, ma io guardavo il corpo di mia sorella trascinato nella polvere del cortile: le gambe bianche e magre che si agitavano sotto la gonna, le mani che tentavano di aggrapparsi al grembiule della madre e allora ho visto, con orrore, il motivo di tanto strazio.
Il mio nipotino è nato in ottobre qualche giorno prima che la guerra si portasse via mio padre sull'Adamello. Io pensavo che sarei tornata a lavorare in risaia, ma la morte di mio padre e una bocca in più in casa (senza contare che mia sorella mangiava per due e non poteva cercar lavoro per via dell'allattamento) voleva dire trovare un posto dove mi pagassero tutto l'anno. A Castellazzo di Bollate avevano aperto una fabbrica che produceva per il fronte bombe a mano, granate e il famoso petardo di Thevenot, un'arma micidiale anche per chi la lanciava. Fui assunta. Eravamo in più di mille, distribuite in vari stabilimenti, e tutte ragazze. Questo pareva strano, tanto che un giorno venne un fotografo, uno che aveva fatto la guerra di Libia come inviato, a scattarci foto in tutte le pose, con il cavalletto e il lampeggiatore al magnesio. Si lavorava duro. Stavamo al forno di fusione, al tornio, e poi nelle tavolate a riempire le ogive con polvere da sparo. Forse non era un lavoro per donne, ma gli uomini l'avevano molto più dura di noi. Scriveva sul “Corriere della Sera” Ugo Ojetti: «La fiumana di donne penetra, gorgogliando e frusciando, nei luoghi degli uomini: campi, fabbriche...Talune, è vero, assomigliano ai bambini, specie quando ancora non ne hanno di propri: si stancano, si distraggono, sospirano, litigano, s’impuntano, scioperano, minacciano, strillano. Ma le più, insomma, lavorano e sono preziose, e s’ha bisogno di loro...La donna è prima di tutto un essere pratico il cui lavoro sociale è utilissimo…».
Quando la mia vita si è fermata di colpo erano le 13.30. Un attimo, ed è stato come se fosse arrivata la fine del mondo. Una fiammata e poi lo scoppio: le orecchie devastate dallo schianto e assordate da un sibilo acuto, i corpi che volavano per aria e quelli che andavano a fuoco. L’onda che dilagava per le campagne sventrò l’azienda e sollevò le verghe del treno che tutti i giorni si portava via pesanti carichi di morte. E, dopo il primo, un altro scoppio e un altro ancora. Era giorno di paga e la cassaforte era gonfia di banconote. La terza esplosione la squarciò e le lire bruciacchiate si sparsero per la fabbrica. Alcune operaie, invece di scappare, si sono fermate a raccoglierle, perché erano più di quanto avrebbero guadagnato in un'intera vita. Le hanno trovate dilaniate e mutilate con i biglietti ancora in mano. Poche righe su "L'avanti": E' avvenuta ieri una esplosione nel polverificio di Castellazzo-Bollate. I danni, dal punto di vista militare possono ritenersi pressoché insignificanti, essendo rimasto distrutto soltanto il capannone dove si esegue la spedizione delle bombe a mano. Anche alcuni capannoni adiacenti non subirono che lievi danni. Si debbono invece lamentare 35 morti e circa un centinaio di feriti. Il lavoro, interrotto per sole 24 ore, è già stato ripreso. Dall'inchiesta in corso sembra sia escluso che il fatto debba attribuirsi a dolo.
Io fui una delle ultime a salire sull'ambulanza militare dove un giovane infermiere americano mi diceva parole che non capivo. Non sento più nulla perché la mia pelle è bruciata a lungo e le fiamme si sono portate via la sensibilità. Non provo dolore, ma so che non guarirò, che non potrò più muovermi né scendere da questo letto. Il mio corpo è morto, anche se la mia testa è ancora viva e pensante. E pensa che il mondo sia ingiusto e che qualsiasi cosa diranno di noi sarà niente perché tutto questo dolore non può essere detto. Il dolore delle madri che non vedranno più le loro bambine; il dolore di fratelli, mariti e figli rimasti mutilati anch'essi, anche se di una mutilazione che non si vede. Quarantanove donne sventrate, tra i 13 e i 29 anni, centinaia quelle ustionate, mutilate, lese. L'ultima a morire sarò io. E' come se la prima linea si fosse spostata e avesse deciso di accanirsi sulle donne. E allora io la mia storia voglio raccontarla a chi la vuole ascoltare, anche se i miei polmoni sono pieni di fumo e la voce è poco più di un sospiro. Voglio che sappiate, perché ciò che è stato resti e perché nessuno si dimentichi che sono stata.