Venuta
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”XVIII EDIZIONE - Arcade, 5 gennaio 2013
Premio speciale
"Rosa d'Argento Manilla Bosi"
Venuta
di Paolo Volpato - Roma
La chiamavano Venuta, e non abbiamo mai saputo se fosse il suo vero nome. Ci piaceva pensare, però, che quel nome recasse con sé una storia di vita misteriosa, di passaggi nel tempo, di mondi lontani, per noi irraggiungibili.
Era piccola, sempre vestita di nero, con un perenne sorriso sulle rughe che solcavano il volto senza età. L'aurea di stravaganza che la circondava, portava le nostre menti di bambini a vagheggiare storie di streghe e di gnomi del bosco. E lei, inconsapevolmente, le alimentava con il suo singolare modo di vivere quotidiano.
Già il fatto di abitare poco fuori al paese, al limitare del bosco che saliva verso l'alpeggio, era un chiaro segnale di voler nascondere alla comunità la propria vita, la propria storia. Una casa che non doveva avere comodità moderne, se Venuta si recava ad attingere l'acqua alla fontana, riempiendo secchi di rame che poi trascinava con un vecchio carretto di legno sul sentiero di sassi.
E i grandi non dissipavano le nubi di mistero che circondavano la sua figura. O non sapevano, o non ci volevano far sapere, nessuno rispondeva alle nostre richieste di chiarimenti. Venuta era come se fosse là da sempre, meglio era però evitarla, poteva gettare un'ombra maligna sulle nostre giovani esistenze, ancora acerbe di vita e di dolore.
D'altronde, lei stessa non si faceva vedere spesso in paese, si potevano contare sulla punta delle dita le volte in cui la sua piccola figura attraversava velocemente la piazza della chiesa.
Quanti schiamazzi quando raramente l'incontravamo, e lei ci urlava dietro parole incomprensibili, sempre però con quello strano sorriso, quasi una smorfia dovuta a qualche ferita o malattia sconosciuta. Qualcuno, l'immancabile Franti delle bande maschili, le lanciava sassi da lontano, ed io provavo pena e disappunto, non avendo mai creduto fino in fondo alle storie di malocchio e stregoneria.
Un'estate, seguendo un capriolo impaurito dalle nostre velleitarie sembianze di antichi cacciatori, ci ritrovammo di fronte all'uscio della sua casa.
Era aperto, scoprimmo poi che lo era sempre. Intorno e dentro l'abitazione, silenzio. La forza della curiosità di noi ragazzi ebbe il sopravvento sulla paura dei misteri, e varcammo la soglia.
La piccola torcia illuminava uno stretto corridoio dai soffitti molto bassi, le pareti inaspettatamente dipinte di rosso, appesi al muro vecchi strumenti di lavoro contadino e un paio di coltelli dall'aspetto guerriero. Su uno scaffale di legno grezzo erano allineati vecchi libri di scuola. L'ennesima stranezza. Delle scale portavano al piano superiore, ma a quel punto rumori esterni non ben definiti ci convinsero a scappare fuori. La luce del sole fu quasi un segno di liberazione e il premio al nostro coraggio.
Era con noi il matto del paese, Pesavento lo chiamavamo. Dicevano avesse una forza che poteva spezzare le dita delle mani, si divertiva a cacciare le lucertole stese al sole delle masiere. Correndo verso l'abitato, lo sentimmo urlare contro Venuta, quasi uno sfogo per esorcizzare la paura, ma altre urla si sovrapposero, più stridule e incomprensibili. Sorta di maledizioni che credemmo avverarsi quando Pesavento morì pochi mesi dopo, travolto da un furgone.
Venuta vangava il piccolo orto di montagna vicino alla sua casa. Qualche patata, pallidi pomodori, baccelli di fagioli, erano il frutto di quell'arida terra. Non custodiva animali, neanche un piccolo cane.
Quando ci recavamo nel bosco, a volte ci fermavamo ad osservare la sua vita da lontano, magari buttando un'occhiata distratta durante l'immancabile corsa, ma non perdendo nessun particolare, che poi commentavamo assieme al buio delle sere d'estate, o al riparo nella stalla durante le tormente invernali.
Ed era proprio la neve a rendere irrequieta Venuta. Con la prima nevicata sembrava quasi rinvigorire. Camminava svelta e solitaria lungo la strada asfaltata, a volte deviava sui sentieri di montagna e saliva calpestando la bianca coltre con una particolare rabbia che la rendevano ancora più ostile verso gli altri, ma nello stesso tempo fragile contro il destino.
Negli ultimi tempi si perdeva nel bosco, seguendo le orme degli scarponi dei legnaioli e dei cacciatori. Allora qualche anima caritatevole, ma per noi coraggiosa al limite della sfida contro il destino, andava a recuperarla per riportarla dentro il buio androne della sua casa. Noi assistevamo da lontano alla scena, e potevamo solo sentire la sua flebile e vecchia voce chiedere: "L'è tornà Mario?".
Un giorno di fine inverno morì. O meglio, per noi scomparve, perché anche la sua dipartita fu quasi tenuta nascosta dagli abitanti del paese. Semplicemente non si vide più, tenendo fede ancora una volta al nome che portava, inghiottita dalle spire del tempo.
E arrivò velocemente anche per noi il tempo di diventare adulti. Un'estate, tornando dalla città dove da tempo avevo trovato lavoro, mi incamminai verso quella casa ancora nei pressi del bosco. Volevo entrare per capire finalmente quali segreti celasse la sua antica vita.
La porta era come sempre aperta. Salii le scale e calpestando le vecchie tavole di legno del granaio, scricchiolanti ma ormai incapaci di trasmettere timore, mi introdussi per una piccola apertura in quella che doveva essere la sua camera da letto. Fu un tuffo nel passato, non inaspettato. Pochi mobili vecchi, alcuni coperti da teli, molte ragnatele e un velo di polvere di bosco. In evidenza sul comò, una vecchia scatola di biscotti di latta, che qualcuno aveva deciso di lasciare in vista, come se contenesse ancora l'anima della vecchia proprietaria.
Mi sedetti sul letto per aprirla, intuendo che potevo avere tra le mani un tesoro. Non so perché, ma è come se da sempre avessi atteso di vivere quel momento. Non ero per nulla stupito del mio comportamento, dell'oggetto che avevo tra le mani. Come se qualcuno avesse voluto passarmi un testimone, un'eredità lontana da custodire, una memoria da preservare, forse da tramandare.
Lettere e fotografie. Questo conteneva la scatola. E subito una prima importante scoperta: Venuta sapeva leggere e scrivere.
Aprendo il foglio scritto con larga calligrafia, mi immersi in quel mondo lontano, il mondo di una donna di nome Rosa, una maestra elementare che avrebbe avuto la vita sconvolta per sempre.
"Mia cara Rosa, spero che Gianni tornato in licenza ti abbia portato questa mia lettera. La Russia non è come ce la descrivevano i comandanti, o come te l'ho scritta nelle cartoline vistate dalla censura. La neve ha ricoperto tutta la pianura, il gelo è sceso sul nostro mondo, dai tetti delle poche capanne pendono coni di ghiaccio.
Donne, vecchi e bambini abitano in povere case, non hanno tanto da mangiare, gli abbiamo costruito un ospedale. Cerchiamo di ripararci come possibile dal freddo, ma dobbiamo continuare a compiere il nostro dovere di soldati italiani. Di giorno siamo di guardia nelle trincee sul Don, cercando di non infastidire i russi. Di notte invece stiamo all'erta, è sempre possibile un attacco di una pattuglia, per questo stiamo di guardia anche a 40 gradi sotto zero. Un paio di volte ho dovuto sparare su di loro, per fortuna non mi hanno colpito. Siamo vestiti con quello che ci passano, ma spesso non basta. La roba non c'è per tutti e anche le armi non riescono con questo freddo a funzionare come si deve. Qualcuno parla di attacchi dei russi con giganteschi carri armati, di tanti alpini morti più a sud, della possibilità di abbandonare tutto. Non so se questa volta riuscirò a tornare a casa, come dalla Grecia. Ti penso sempre, ricordo nei sogni il nostro matrimonio e la bella festa con i paesani, la nostra nuova casa che sto costruendo vicino al bosco, e tutto mi sembra troppo lontano. Se torno non voglio più andare a lavorare in fabbrica, giù in pianura, voglio starti sempre vicino. Tu continuerai a fare la maestra del paese, io alleverò qualche bestia e curerò l'orto. Pensami quanto ti penso io, mi aiuterà a sopravvivere. Sono sempre il tuo amato Mario".
Una foto sbiancata dal tempo, fra le pieghe della lettera, raffigurava un alpino grande e grosso, stretto nel pastrano con il collo di pelliccia. Intorno neve, neve e ancora neve. Un berretto con le orecchie è calcato su un volto triste, la barba lunga, lo sguardo con un piccolo barlume di luce.
Apro un'altra lettera, la grafia minuta, precisa.
"Caro Mario, ho ricevuto la tua lettera da Gianni. Non so dirti la preoccupazione, ma sappi che io ti aspetterò sempre. Anch'io sogno il tuo ritorno, la porta che si apre e tu che entri e mi abbracci. E lascerò la porta sempre aperta, solo per te, amore mio ….".
La scrittura era interrotta. Nella busta un altro biglietto, e sullo sfondo bianco incise poche parole: "Ciao Rosa, sono Gianni. Devo dirti purtroppo che Mario è rimasto in Russia. L'ho lasciato sulla neve di Opyt, ferito, ma spero che i russi l'abbiano preso prigioniero e che magari un giorno possa tornare guarito e forte come sempre. Fatti coraggio, e prega per lui".
Sentii il bisogno di alzarmi dal letto e recarmi alla piccola finestra, quasi aspettandomi di veder uscire dal bosco i fantasmi di quel lontano passato.
Ora avevo scoperto il segreto di Venuta.
La sua lucida follia era solo il perduto amore.