Varri lamit
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”XXV EDIZIONE - Arcade, 4 Gennaio 2020
Segnalato
Varri Lamit
di Patrizia Birtola di Giussano (MB)
Le montagne non s’incontrano, le persone sì.
(proverbio albanese)
Partii per l’Albania senza la minima idea della fatica che avrei fatto a trovare la montagna di mio padre.
È una montagna! Mi ripetevo, mica può sparire da un momento all’altro…
Sparire no. Nascondersi però lo faceva perfettamente. Sostenuta dall’interiore certezza che ciò che intendevo fare fosse giusto e bello, avevo messo in secondo piano i dettagli pratici.
Il primo consultato sulla questione Varri Lamit fu il gestore del negozio di souvenir e articoli per la spiaggia in cui eravamo entrati a Velipoje. Ci aiutò col suo buon italiano. Accennai a un paese di nome Leskovicu, lo ricordavo citato insieme al mio Varri Lamit. E lui:
“Oh sì. È molto più a sud, 5 o 6 ore di autostrada, 2 o 3 di 4X4 e mezza giornata di cammino a piedi. Ma non è un viaggio da fare con dei ragazzi - disse guardando i miei due figli, di 11 e 12 anni - le strade sono molto brutte da quelle parti. La gente non è abituata ai turisti: non vi aiuterà. Non parlano con gli stranieri.”
Andiamo bene, pensai. Ma la mia cocciutaggine è leggendaria: così mi convinsi che il gestore di un negozio di salvagenti, ciabatte e teli mare di montagna non dovesse capirne un accidente.
Sbagliavo in pieno a sottovalutarlo: mi diede informazioni fra le più accurate che ebbi in quel viaggio. Più si avvicinava la zona del Varri Lamit, meno sembrava che la gente conoscesse la montagna. A Korce feci amicizia con Isiona, una ragazza che aveva studiato italiano, la sorella si era laureata a Urbino. Si attivò molto per me, e di lì a poco riuscii a mettere a segno il punto decisivo: grazie a mappe con tutta l’orografia palmo a palmo di Korce, Elbasan e Berat, contattai via mail il geologo che ne aveva curato la stampa. Il Prof. Kujtim Onuzi mi aiutò immensamente, inviandomi i riferimenti, la collocazione con le coordinate satellitari, piante dettagliate, ogni informazione.
Imparai a mie spese che i massicci occupano il 70% del territorio nazionale: l’Albania è grande come Piemonte e Val d’Aosta messi insieme, quindi non tanto grande, ma tutta ben coperta di rilievi.
È un aquilone di roccia incastrato sulla parete dei Balcani. S’affaccia su un mare che digrada dal verde limpido del nord al cristallo trasparente del sud: sembra che in quel mare l’aquilone voglia tuffarsi a precipizio da un momento all’altro, come un rapace in picchiata. L’Albania prende il nome di Paese delle Aquile, dunque non c’è di che stupirsi.
Prima di partire avevo scartabellato, frenetica, le cronache di guerra del tempo. Il Varri Lamit, talvolta trascritto Varr i Lamit, che in albanese significa La tomba di Lam, per fortuna non fu la tomba di mio padre. Per molti, troppi altri invece sì. Non mi ero mai resa davvero conto di quanto gli fosse capitato, lui della guerra non parlava quasi mai. Ma me lo vedo, a 22 anni, nell’autunno 1940, imbarcarsi verso le coste opposte dell’Adriatico per affrontare l’inverno sul fronte greco-albanese. Un ragazzo di un paesotto del brindisino che sì e no poteva sapere com’era fatto un cappotto, abituato alla riarsa, siccitosa spianata del tavoliere dove il grano si lascia tessere dal pettine invisibile del vento del Salento, in una regione dove una montagna vera neanche c’è: Torre Disperata, l’altura più imponente delle Murge, non arriva nemmeno a 700 metri.
Mio padre Giuseppe si ritrovò sbalzato a oltre 2000 di quota, su questo famigerato Varri Lamit, immerso nella neve fino al collo. Suppongo non l’avesse mai vista in vita sua, la neve: la città più a nord in cui mi disse d’esser stato prima della guerra era Roma.
Il 5 dicembre del ’40, per esigenze derivanti dallo schieramento di altre unità laterali, ci fu un movimento su tutta la linea: Il 5° Reggimento Alpini si dispose nel settore a sud di Devoli: l’Edolo schierato da Varr i Lamit a M. Mietes – Cuka e Liqerit. Sulla sinistra il Tirano, il Morbegno si rafforzò da Gur i Prer al Devoli.
Le cronache dell’inverno del ’40 sono spaventose:
“I primi giorni del dicembre 1940 il freddo è pungente e il termometro scende a 20 gradi sotto zero. Copiose nevicate raggiungono strati di 3-4 metri, tormente travolgenti rendono la vita durissima e di grande sacrificio, tanto che le condizioni atmosferiche sono talvolta più difficili da contrastare in confronto del nemico. (…). I casi di congelamento sono numerosi; i rifornimenti difficili, la neve ed il fango limitano i movimenti di uomini e quadrupedi, ma la forza di volontà, il senso del dovere, l’abnegazione, il coraggio, la resistenza fisica superiore ad ogni previsione sanno vincere ogni causa avversa, sanno trionfare sugli elementi contrari. L’animo dei combattenti fa fronte ai disagi della montagna, lo spirito di adattamento è insuperabile.”
Insomma, mio papà compensò con gli arretrati: gli toccò un inferno gelido come quello descritto dal canto XXXII della Divina Commedia. Prima e seconda zona del IX cerchio: nella ghiaccia del Cocito sono puniti rispettivamente i traditori dei parenti e quelli della patria e del partito. Mio padre però si era ritrovato in quel castigo divino, senza fuoco per scaldarsi, senza cibo o quasi, coperto poco e male e sotto il tiro nemico per il motivo esattamente opposto: ché lui e tutti gli altri insieme a lui dovevano restare fedeli a un impegno preso, alla divisa che indossavano.
Chi decise di sbalzare i nostri ragazzi sul fronte greco-albanese nel peggior momento possibile dell’anno in una guerra poi definita “di ripicca” lo fece per l’orgoglio di mostrare a un alleato di travolgente ferocia che anche in Italia si sapevano prendere decisioni, iniziative, si riusciva a metter tutti di fronte al fatto compiuto.
Ma quanto si paga caro uno scatto d’orgoglio?
La campagna di Grecia costò alle forze italiane 14000 morti, più di 50 000 feriti e almeno altrettanti soldati infermi; oltre 12 000 congelati e 25 000 dispersi; la maggior parte prigionieri di guerra catturati dai Greci e poi liberati nell'aprile ‘41. Tutti gli altri risultano caduti non identificati: le vittime italiane son più di 20 mila soldati.
Dimenticati?
Non da me.
Io chiudevo gli occhi, nell’estate 2018, l’estate in cui mio padre, fosse stato ancora vivo, avrebbe tagliato un traguardo centenario. Chiudevo gli occhi a ogni curva, mentre percorrevamo con un’auto inadatta quei tortuosi, vertiginosi tornanti di sterrato, il ciglio non protetto, strade che ricordano certe cime caricaturali, come si vedono nei cartoni animati in cui un cojote insegue infruttuosamente una sorta di beffardo struzzo corridore, senza acchiapparlo mai. Si sale e si sale e si sale, in mezzo alle nuvole e ai picchi, le ruote esterne al fianco della montagna sembrano corteggiare lo strapiombo, si ha la netta sensazione che la strada possa finire da un momento all’altro nel vuoto.
Se è così in tempo di pace, ora che l’Albania è un paese rifatto a nuovo con le rimesse degli emigranti tornati dalla diaspora degli anni ’90, cos’era allora?
In guerra, 80 anni fa, nel gelo dell’inverno?
Mio padre deve averlo percorso, quel tratto, in non so quali condizioni. Già tenersi sulla strada marciando con gli altri in colonna, senza equipaggiamento adatto, senza scivolare nel baratro, per me ha il sapore di un’impresa.
Tutto il corso del fiume Devoli, bellissimo e terribile, ci tagliava il fiato con i suoi paesaggi spettacolari. Cosa doveva essere aspettare i rifornimenti che arrivavano a dorso di mulo, i sacchi di provviste che a ogni guado si sporcavano di fango?
Beh lui stette là, tutto il tempo che ci doveva stare. Erano pochi gli uomini della Guardia di Finanza, ed erano a complemento di un Battaglione alpino, l’Edolo. L’Edolo era comandato dal tenente colonnello Alfonso Rivoir. Se mio padre portò a casa la pelle è dovuto soprattutto al solido buon senso e al coraggio di questo alpino. Rivoir il 13 dicembre 1940 condusse il proprio reparto nel corso di duri scontri nella valle di Dushar, e, come lessi nelle mie ricerche
ricevuto da parte del comando di teatro l'ordine di resistere ad oltranza a quota 1822, con poco più di un centinaio di effettivi si oppose a tre battaglioni greci, fermandone l'avanzata per tre giorni. Il 15 dicembre (battaglia di Dushar), mentre comandava i suoi uomini nella difesa delle posizioni sul Varri Lamit, con grave rischio personale, Rivoir rimase gravemente ferito al petto. Per il valore dimostrato nell'occasione, gli fu successivamente assegnata la medaglia d'oro al valor militare. I superstiti del battaglione (5 ufficiali e 23 tra alpini e Guardie di Finanza), ripiegarono su altre posizioni.
Il 13 dicembre 1940 mio padre era lì, Dio sa come, insieme a quelli che furono definiti un pugno di eroi.
È proprio così che li chiama la motivazione della medaglia conferita a tutto L’Edolo:
Sul fronte greco in cinquanta giorni di lotta senza tregua contro un nemico più forte di numero, di artiglierie, di armi automatiche, il 5º Reggimento Alpini, (…) Malgrado le fortissime perdite che lo avevano ridotto ad un pugno di eroi, continuava ostinatamente a combattere per l’onore della Patria e perché così vuole la forte tradizione alpina. (…) Magnifico esempio, nei capi e nei gregari, di altissime virtù militari.
(Alture di Morava - Dushar - Varri Lamit - Cuka e Liquerit - Cuka e Greves - Guri i Prer - Bregu i Math - Sqimari, 14 novembre -30 dicembre 1940.)
Non so con quale forza della disperazione a quota 2022 mio padre fece quel che fece, ma è sempre stato un impulsivo, uno che con le mani in mano non ci resisteva due minuti. Forse fu istinto di conservazione, o solo fame di vita, la stessa che ha fatto sì che mettesse al mondo me ormai 50enne, quando aveva già due figlie adolescenti.
Ora che non c’è più, rimane una lastra alla memoria, col suo nome e cognome, e vicino la scritta finanziere, fuori dalla caserma di un paese a pochi chilometri da quello di cui era originario.
I BTG – R.D. 2-4-1943
MEDAGLIA D’ARGENTO VALORE MILITARE
“PORTA FUCILE MITRAGLIATORE, SI SLANCIAVA AL SEGUITO
DEL SUO UFFICIALE SOTTO INTENSO TIRO DI MITRAGLIATRICI E DI
MORTAI NEMICI SU DI UN IMPORTANTE PASSO AVANZATO.
DURANTE PIÙ ORE DI COMBATTIMENTO PERSISTEVA NELLA SUA
AZIONE TENACE ED EROICA, CONTRIBUENDO A RESPINGERE PIÙ
VOLTE IL NEMICO DOTATO DI MEZZI SUPERIORI. FERITO ALLA
TESTA NON ABBANDONAVA IL SUO POSTO. IN SUCCESSIVO
ATTACCO, ESSENDO RIMASTO COLPITO IL CAPO ARMA,
CONTINUAVA IL FUOCO, RESTANDO SULLA POSIZIONE AD
ANIMARE I COMPAGNI, ANCHE DOPO AVER RIPORTATO IL
CONGELAMENTO DEGLI ARTI.”
Q.2022 DI VAR I LAMIT (FRONTE GRECO), 13 DICEMBRE 1940
Dopo le vicende che portarono alla medaglia, per buon peso, sia al suo comandante che a mio padre toccò la stessa sorte. Rivoir si rifiutò di aderire alla Repubblica Sociale Italiana, fu di conseguenza catturato e internato in diversi campi di concentramento tedeschi. Anche mio padre ci finì sotto. Neppure l’Albania col suo inferno bianco, la scheggia che si beccò in testa e il congelamento lo segnarono come la prigionia sotto gli ex alleati. L’unico episodio che mi riportò di quel periodo è un aneddoto che in “giornate sì” riusciva a rievocare in modo tragicomico: da prigioniero riuscì a trovare, buttata vicino a un cumulo di spazzatura, semisepolta dalla neve (la neve, sempre la neve che mio padre detestava) una forchetta con due rebbi spezzati. Mi spiegò che in quelle condizioni una forchetta malconcia era un tesoro, poteva esser scambiata con altro, far la differenza fra la vita e la morte. Un tedesco si accorse di quella sottrazione indebita, gli puntò addosso la mitragliatrice intimandogli di buttarla via. E mio padre, armato di forchetta spuntata, la rivolse contro la mitragliatrice. E si fronteggiarono così. Un nazista con un mitra carico, un pugliese con una forchetta rotta. Beh, eccomi qua, sono la prova vivente che vince il pugliese armato di forchetta. No, seriamente: a mio padre è toccata la fortuna di trovare sulla sua strada un uomo che decise di girare lo sguardo e lasciar perdere, che non gli fece pagare con la vita uno scatto d’orgoglio, che non se la sentì di finire un disgraziato per puntiglio e trovarsi un morto sulla coscienza a quella stregua. Forse, con più humour, potrei dire che si sia salvato per tre ordini di ragioni: una fortuna sfacciata, una costituzione d’acciaio dovuta al meraviglioso cibo davvero biologico che sfornava mia nonna, e una fortuna sfacciata. No, non è una ripetizione, serviva veramente una dose di fortuna doppia rispetto al normale per cavarsela in certe situazioni.
Io nel 2018 di fortuna ne ebbi meno: al mio sogno di trovare il Varri Lamit dovetti momentaneamente rinunciare. A un bel momento ci trovammo la strada sbarrata da un enorme pannello: diceva che i lavori di costruzione di una certa diga avrebbero tagliato quel tratto dalla circolazione per molti mesi. Il tutto dopo aver raggiunto quel punto a seguito di alcune ore tutte percorse in mezzo a una spianata lunare, incontrando solo camion dei lavori in corso, con gli unici cartelli indicatori che intimavano di non uscire dai tracciati principali, perché c’erano tratti minati. Quando lessi che l’ingegnere responsabile dell’opera era italiano, pensai “faccio una foto al pannello, non si sa mai: potrebbe servire per tenersi informati sull’andamento dei lavori”. Insomma, si sarà intuito, non sono una che lascia perder facilmente. Ma una cosa l’ho capita: le montagne non s’incontrano, soprattutto quelle albanesi, le persone sì. A me rimangono Isiona, Kujtim e tanta voglia di tornare in un paese cui debbo molto, visto che, a differenza di quanto scrive il sito Pietre della Memoria il finanziere cui è dedicata la lapide all’entrata della Tenenza di S. Pietro Vernotico non è caduto in guerra, se no non sarei qui. Ho scritto per informarli, ancora non mi hanno risposto. Nell’attesa mi consolo con la mia vita tranquilla, che non necessita di alcun atto d’eroismo.
Potrà sembrare un’eccezionale coincidenza, ma quando comprammo casa, 16 anni fa, prima di tutte le ricerche e le notizie rinvenute in seguito alla collocazione della targa commemorativa, decidemmo di abitare in via Battaglione Morbegno, la traversa a fianco si chiama via Battaglione Edolo.
Non so se c’è lo zampino di mio padre, da lassù, o se è un semplice caso: sta di fatto che io qui mi sento al sicuro, protetta dai due battaglioni fratelli, e che come fu per mio padre ora gli alpini vegliano anche sulla mia famiglia.