Una botte di buon vino
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”XII EDIZIONE - Arcade, 5 gennaio 2007
Segnalato
Una botte di buon vino
di Raoul Romano - Novara
La sera mi arrampicavo sul ciliegio davanti casa per poter guardare oltre la finestra della mia camera. Lei era sempre lì. Mi piaceva osservare le sue labbra mute muoversi alla luce delle candele. Una ciocca di capelli neri, stretti in un fazzoletto rosso, le scivolava fastidiosa sulle guance. Con la mano li riportava veloce dietro l’orecchio. Ma loro caparbi tornavano presto a solleticarla. Avrei voluto essere lì. Accanto a lei per tenerli su. Per impedirgli di cadere, di disturbare la sua lettura.
Spesso il sonno era più forte della mia curiosità e più volte mi ritrovai giù, steso in terra sul prato umido. Rischiando di rompermi qualche osso, oppure di beccarmi una fucilata dal babbo che svegliato dal tonfo usciva di corsa. Mezzo addormentato, con il fucile pronto a sparare a qualche volpe troppo audace. Ma io ero più veloce di lui. Riuscivo a nascondermi nella stalla ancora prima che lui aprisse la porta di casa. La mattina dopo compariva qualche nuovo livido e graffio alla già enorme collezione che mi portavo sulle gambe.
Nella stalla, sulla branda sfondata accanto agli attrezzi, prima di addormentarmi pensavo a lei. Ripensavo a quella sera di primavera che entrò nella mia vita. Ripensavo a quando bussarono alla porta. Il babbo aveva già il fucile in mano.
Don Gino entrò in casa nostra tenendo per mano una bambina alta quasi quanto me. Era avvolta in un grosso cappotto nero sporco di fango. Trascinava una valigia marrone legata stretta con lo spago. Don Gino farfugliò alla mamma e il babbo parole che sembravano da confessionale.
Lei restò sola vicino alla porta, fissando le assi del pavimento. All’improvviso alzò la testa verso di me. Aveva lacrime grosse come castagne che le segnavano il viso. I suoi occhi neri ed enormi mi fissarono. Ebbi paura. Si ebbi paura. E il cuore mi balzò in gola.
La testa di cavallo che stavo tirando fuori da un legno di castagno cadde in terra. E il coltellino dal manico d’osso la seguì subito dopo.
Lasciò il manico della sua valigia marrone e lentamente attraversò tutta la stanza, venendo proprio verso di me. Sul pavimento, le suole di legno delle sue scarpe ad ogni passo ticchettavano sulle assi di castagno. L’aria mi mancò e vampate di calore si susseguirono. Salendo rapide dallo stomaco mi riempirono la testa. Le guance bruciavano. E lei era sempre più vicina.
Raccolse la testa di cavallo da terra. Allungò la sua mano sporca e pulita verso di me. Macchie rosse sul palmo disegnavano contorni incrostati e i trucioli di legno restavano sospesi tra le sue dita.
Non riuscivo a muovermi. Sentivo la gola incandescente. Le parole si scioglievano ancora prima di uscire dalla mia bocca. La mamma la prese in braccio e lei volò via.
Don Gino se ne andò nel buio, lasciando entrare dalla porta l’aria fresca e profumata della primavera.
Da quella sera restò con noi. Io andai a dormire nella stalla in compagnia delle vecchie Leuca e Berna. Delle loro mosche del loro fetore. Dei loro occhioni languidi. Mi addormentavo tra il sibilo delle loro scoregge e mi svegliavo con i loro imploranti muggiti. Mi attaccavo alle loro mammelle, riempivo i secchi e facevo colazione. Un paio di fischi e uscivano lente al pascolo. Rebecca dormiva nel mio letto, sul mio materasso di lana, con il mio cuscino.
Rebecca non parlava. Non diceva una sola parola. Aiutava la mamma nelle faccende di casa e portava i secchi d’acqua nell’orto. Sbatteva la panna e sagomava il burro. Raccoglieva i fiori nel prato dietro casa e poi li intrecciava in cestini e corone che regalava alla mamma. Rebecca non sorrideva mai. La sera si sedeva accanto a me. Vicino al fuoco del camino. Mi guardava mentre con il mio coltellino d’osso tiravo fuori dal legno bestie e forme strane. Mi piaceva sentire i suoi occhi sulle mie mani. Sentivo il suo profumo. E il suo respiro accompagnava il mio coltellino con il manico d’osso. Con sè, dentro la valigia di cartone aveva portato un grosso libro, tutto scritto. Che la sera, tirava fuori e leggeva al lume delle candele. Seduta al tavolaccio che il babbo le aveva portato nella mia camera.
Rebecca veniva spesso con me nel bosco. Raccoglievamo rami e frasche per la stufa. Spesso tornavamo a casa anche con qualche fungo che poi restava a seccare sulle tavolozze di legno accanto a quelli che trovava il babbo.
Quando una mattina arrivò la prima neve, Rebecca corse fuori ancora in camicia da notte. Restò immobile sotto i fiocchi che pesanti cominciavano a restare sospesi tra i fili ingialliti dell’erba. Con le braccia aperte a croce spalancò la bocca al cielo. Cercava di mangiarne il più possibile. Le corsi incontro per riportarla in casa. Quando le presi le mani, sono sicuro che nei suoi occhi c’era un sorriso.
Restava ore con il naso appoggiato al vetro della finestra a fissare il bianco che ci circondava. E spesso i suoi occhi si gonfiavano di lacrime. Si legò la testa di cavallo al collo con uno spago e la portava sempre con lei. Ogni animale che usciva dai legni sotto il mio coltellino finiva sul tavolo della mia stanza. Un bosco incantato di esseri di legno. E tra le sue mani saltavano e si rincorrevano come se fossero vivi.
Una mattina di febbraio il babbo entrò in casa di corsa tutto sudato urlando.
- BOIA FAUS! ARRIVANO I TEDESCHI! È UN RASTRELLAMENTO!
L’aria gelida entrò in casa. Penetrò in ogni fessura e per un attimo eterno restammo immobili fissando il volto terrorizzato di Rebecca.
Dal campanile il suono dei bronzi incalzava disordinato. I tedeschi, con i loro cani risalivano i prati come un’onda sull’erba alta spostata dal vento. I latrati degli animali si confondevano con le urla dei soldati.
Del fumo nero, dal tetto della canonica saliva denso la valle.
Il babbo prese Rebecca come una fascina di rami. Stretta sotto il suo braccio penzolava incapace di urlare la paura che le stava riempiendo gli occhi. Spostò le assi del pavimento vicino al muro e scese i gradini di pietra verso la grotta. La mamma corse su per le scale. Io rimasi immobile al centro della stanza, vedendo dai vetri della finestra le sagome scure dei soldati sempre più vicine. La mamma infilò il cappotto e i pochi vestiti di Rebecca nella bocca della stufa. Li spinse dentro con il ferro e chiuse veloce lo sportello di ghisa. Stringendo sotto il braccio una grossa forma di toma, il babbo risalì dalla grotta proprio quando la porta si spalancò in tonfo sordo. La mamma mi prese in braccio e stringendomi tra le sue braccia mi schiacciò la faccia sulla sua spalla.
Quasi correndo entrarono in casa due enormi cani lupo. E dietro quattro soldati tedeschi. Riempirono la stanza ringhiando parole dure come i latrati dei loro cani. Puntarono su di noi le loro armi. I cani, tesi ai loro guinzagli, si alzavano sulle zampe posteriori verso me e la mamma. Mostravano tutti i loro denti bianchi e la bava gli colava in lunghi fili sulle assi del pavimento.
Un uomo, incastrato in lungo cappotto di pelle nera, attraversò la porta scardinata, fermandosi rigido sull’uscio di casa nostra. Scrutando ogni angolo della stanza restò fisso sul babbo, che teneva ancora un piede sull’ultimo gradino della scala di pietra che porta alla grotta. Poi volse lo sguardo verso me e mia madre, fissandoci con i suoi occhi gelidi. La sua voce restava sospesa nell’aria.
- Tra queste case… si nascondono altri ebrei… io so!
I quattro soldati scattarono all’improvviso verso ogni angolo. Il babbo venne strattonato e spinto in terra. Uno dei cani si allungò feroce verso di lui, azzannando la forma di toma. Un altro soldato scendeva veloce le scale verso la grotta. Solo il ringhio delle bestie e il rumore degli stivali di cuoi sulle assi di legno, riempiva la stanza. Il soldato ritornò dalla grotta tenendo in mano il grosso sacco marrone del carbone. Mostrò il contenuto all’uomo con il cappotto di pelle nera. Il suo volto si riempì di un sorriso stretto in labbra sottili. Si piegò leggermente verso la mamma e sbattendo i tacchi degli stivali uscì seguito, dai quattro soldati e dalle loro bestie.
Le loro voci si allontanavano veloci. La mamma lentamente lasciò la presa, e io scivolai lungo il suo corpo fino a poggiare i piedi sulle assi di castagno. Poi cadde lunga. Distesa interra come un sacco. Il babbo le prese la testa tra le mani, poggiandogliela sulle sue ginocchia. Una riga rossa di sangue gli usciva dalla fronte. La mamma lentamente riaprì gli occhi. Il babbo singhiozzava mentre io tremavo in silenzio. La mamma ci guardò e per un attimo sembrò sorridere. Poi i suoi occhi si strinsero e la fronte si coprì di piccole ma profonde rughe.
- Rebecca? Dove è la tosa? Disse fissando mio padre.
In un attimo ci ritrovammo tutti e tre nella penombra della piccola grotta. I nostri occhi si abituarono lentamente alla fioca luce della candela. La dispensa era vuota. Le ceste di castagne rovesciate in terra e i fili di cuoi, che correvano da una parete all’altra, vuoti.
- Boia dun can! Si son portati via tutto…
Disse mio padre guardando incredulo la baraonda che copriva la terra umida della grotta. Mia madre strattonandogli la giacca urlò il nome di Rebecca.
- Dio bon, la tosa!!!
Colpendosi con il palmo della mano la fronte insanguinata, il babbo incomincio a rovistare tra i cesti di vimini e le bottiglie rotte. Nell’angolo più buio, si inginocchio davanti ad una piccola botte di legno nero. Fece saltare via il coperchio e infilandoci dentro le braccia tirò fuori Rebecca. Stringeva fra le braccia le gambe rannicchiare al petto. Intrisa di vino restava raggomitolata a se stessa. Il babbo la teneva alta, mentre lei sgocciolava vino rosso.
Quando alzò la testa sorrideva. Il sorriso più bello che io abbia mai visto in vita mia. Poi cominciò a ridere. A ridere forte mentre la mamma tra le lacrime l’abbracciava più forte che poteva.
Non riusciva a camminare. Non riusciva nemmeno a stare dritta. Rideva. Rideva e cantava. Cantava con una voce squillante. Era completamente ubriaca. Poi stette male, tutto il giorno e la notte seguente. Sudava fuoco e vomitava vino.
Il nonno cominciò a sorridere piano, mentre con il suo coltellino dal manico d’osso tirava fuori il muso di una lepre da un legno di castagno. Io e mia sorella Giulia ci voltammo contemporaneamente a guardare nonna Rebecca seduta accanto al fuoco. Sorrideva anche lei, mentre silenziosa ricamava stelle alpine su di un fazzoletto nero.