Un'alba di seta
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”XI EDIZIONE - Arcade, 5 gennaio 2006
Secondo classificato
Un'alba di seta
di Donatella Tenderini Anastasi - Venezia
Un lago di seta, appena increspata, a tratti abbagliante.
Riflessi d’acqua e di cielo.
Suo figlio stava morendo, nascosto in un’anonima baita, giù all’Olgiasca.
La Ven non smetteva di pregare. Un borbottio leggero, uguale e cadenzato insieme, una teoria di bisbigli che sembravano privi di cuore; ma il cuore c’era tutto, invece, solo straziato.
“Il figlio della Ven” si diceva in paese da qualche giorno “dopo un’azione. Ce l’avevano fatta, quasi. Un tedesco maledetto, più morto che vivo. L’ha colpito prima, poi se n’è andato lui, a preparargli il posto.”
Veneranda l’aveva saputo all’alba, una catena di tam-tam partita dal rifugio dell’Olgiasca, breve corrente di lago e poi su, tra i boschi, dalla parte di Vendrogno, per la mulattiera fino al paese.
La campana che suona e denuncia. Questa volta suona per suo figlio, il figlio della Ven.
Le avevano portato su la sciarpa, quella di seta grigio-celeste come il cielo di perla a primavera, come il lago che lei non aveva mai visto.
Era una sciarpa che veniva da lontano, appartenuta ad antenati stranamente approdati al paese in un tempo troppo remoto per non essere ormai avvolto nel mistero. Gliel’aveva consegnata suo padre, reliquia o amuleto non era chiaro, oppure entrambe le cose. Tessuta con quel filo prezioso, resistente e fragile al tempo stesso, scivoloso e cangiante e un poco traditore, come il lago, come quell’alba in cui aveva saputo.
Lei l’aveva messa al collo di quel suo unico figlio quando era stato evidente che non avrebbe rinunciato mai a farsi partigiano.
La campana che suona e consola. Perchè promette un mondo dove non c’è la guerra, dove non va a morire chi ha sete di giustizia e di libertà.
Lo sguardo fisso oltre il Giumello, oltre la curva dolce della montagna che le nascondeva il luogo dove stava suo figlio. Glielo avrebbero riportato, in un lento e rischioso pellegrinaggio, perchè potesse, lei che era rimasta completamente sola, trovare conforto sulla sua tomba, nel piccolo camposanto immerso nel verde e nella pace.
Ed era la pace che le mancava adesso.
Ed era per la pace che lui se n’era andato.
Dietro al carro stavano i suoi compagni, col fazzoletto al collo e il mitra in spalla.
Dietro al carro stava una donna, giovane e bionda, i sottili lineamenti tesi e uno sguardo duro e vuoto.
Nessuna voce, nessuna preghiera.
Su per la “Bissaghe” si snodava il corteo funebre col cappellano in testa, Il chiarore del mattino sbiancava appena le sagome della breve processione.
Veneranda era scesa presto al cimitero, si era posta in attesa davanti alla croce di legno scuro con su la foto sciupata del marito, a chiedergli la forza di non avere più sogni, di sopportare anche questo senza voler morire.
Il rosario scivolava tra le sue mani rotte dalle fatica, stanche di essere sempre senza futuro.
Anche lei era stata bambina, anche suo figlio lo era stato. E sembrava che niente avrebbe mai potuto intaccare quel tempo dell’innocenza e della fede.
Gli arbusti sotto ai piedi scalzi, in estate, i frutti di bosco freschi e dolci, la cantilena del fiume a valle del piccolo paese, la magia della neve che incanta nel rigore dell’inverno, e nessun tormento, nessuna ansia dolorosa; solo la certezza di abitare un’oasi dove ci si accontenta di poco, senza conoscere il molto che sta al di là delle montagne.
E lo scorrere semplice del tempo e degli eventi, il naturale avvicendarsi delle stagioni della vita, nascere, crescere, sposarsi o prendere i voti, fare figli o consacrarsi a Dio, lavorare sempre e poi andarsene all’Eterno, nella Sua Grazia con l’anima “sporca”, tuttalpiù, di qualche peccato veniale del tutto riscattabile.
E la Ven non avrebbe chiesto nient’altro che questo alla vita, pur sapendo che oltre il confine azzurro del cielo poggiato lievemente sulle cime, stavano città piene di gente e rumori, stavano fabbriche e automobili e strade e persino aerei, come mostruosi uccelli, e tutto quanto ancora non aveva contaminato il suo minimo mondo.
Non avrebbe chiesto nient’altro che la sua vita semplice, con il marito che l’aveva scelta, con il figlio che lui le aveva dato prima che la montagna lo inghiottisse, nelle miniere, alle sorgenti del Varrone.
L’alba si trasformava in giorno.
Mentre il carro saliva lento, la Ven pregava.
Da quando aveva saputo pregava sempre, più di prima. Pregava quel Dio misericordioso in cui credeva perchè le desse il coraggio di fissare lo sguardo un’ultima volta sulle palpebre abbassate, sulla bocca un tempo sorridente e ironica, sui capelli scuri e morbidi di suo figlio, immobile e pallido come non era mai stato.
La Ven stringeva tra le mani il suo rosario e quella sciarpa di seta grigio-celeste, simbolo di una continuità che lei credeva spezzata per sempre.
Per accogliere suo figlio aveva indossato il costume tradizionale di sposa, con le maniche candide chiuse ai polsi, il corsetto ricamato, la gonna lunga e il grembiule di seta lilla; nella tasca aveva riposto le sole immagini che le restavano di quei due uomini che avevano segnato la sua vita, due istantanee un po’ sbiadite scattate dal fotografo ambulante, una del suo uomo il giorno delle nozze, l’altra di suo figlio bambino accanto al carrettino di legno che tanto lo aveva affascinato.
Di quei ricordi avrebbe nutrito la sera della vita.
I partigiani sull’attenti, il cappellano benedicente, la Ven in ginocchio sull’orlo della fossa con le braccia tese in avanti, in un insensato, estremo tentativo di trattenerlo.
Non aveva notato, nella sua angoscia muta, l’altra donna, accoccolata accanto a lei, con le ginocchia sulla terra smossa. La giovane bionda fissava gli occhi smarriti sulla voragine che le rapiva senza appello il padre di suo figlio.
Sulle tracce ancora fresche del carro, sul saluto commosso dei partigiani, sulle spalle curve della Ven scendeva il silenzio.
La chiamavano “l’inglesina”. L’avevano raccolta durante un’azione concertata con un gruppo disperso di alleati anglo-americani. Non doveva rimanere per molto con loro, sulle montagne, ma l’aveva incontrato, ma si erano innamorati.
Poche settimane intense, rubate alla paura, promesse più forti della guerra, la scommessa di credere nel domani. E il domani che diventa liquido e sfuggente e si chiude nella sua ultima carezza.
L’inglesina parlava poco l’italiano e la Ven conosceva solo il proprio dialetto tutto spigoli, ma si compresero lo stesso alla perfezione, forse perchè avevano amato e avevano perduto lo stesso uomo. La biondina, pallida e tirata, abbozzava un sorriso e, indicando la propria figura ingrossata, le diceva in un soffio: “Tuo nipote”.
In quel preciso istante Veneranda seppe di non essere morta e di non voler morire.
Francesco nacque in un’alba di seta, un luminoso mattino di giugno, nello stesso letto che era stato di suo padre. Il suo primo, inconsapevole sguardo fu per la spianata verde che si abbracciava dalla finestra aperta della stanza, il primo respiro fu di erba e di sole. Veneranda lo cullò appena un poco, sicura che il destino glielo avrebbe presto sottratto: l’inglesina si sarebbe stancata del quotidiano insulso di un piccolo paese ai confini col cielo. Era giusto, pensava la Ven, che ritornasse a casa e che, poco per volta, scordasse il dolore, la guerra, i luoghi e le persone e lei, la Ven.
Francesco era nato in tempo di pace e aveva i capelli e gli occhi di suo padre.
Ogni estate la Ven si stupiva quando li vedeva tornare per le vacanze, si stupiva anche di essere così incredibilmente felice.
E quando suo nipote ripartiva chiudeva nella mente i suoi sorrisi che le avrebbero addolcito l’inverno e si poneva in attesa, di un’altra estate, di un’altra felicità.
La giovane partigiana ogni anno riportava Francesco alla sua terra, a coltivare un ricordo, a rendere omaggio, a non rinnegare le origini.
Di questo la Ven le era grata, questo le bastava.
Seduta accanto al finestrino di uno di quegli uccelli mostruosi che tanto le incutevano soggezione, le venne fatto di contare i suoi anni. Fu allora che si accorse di non sapere più quanti ne avesse; comunque fosse, erano molti e arrischiarli così, in un viaggio “pericoloso” e inimmaginabile, non le importava granché. Era partita all’alba, con la prima corriera e l’inglesina, meno giovane e meno bionda, appresso: da sola si sarebbe persa già prima di arrivare al lago.
Un cielo di latte e di glicine salutava il suo coraggioso arrivederci alla montagna.
Andava da Francesco, in Cornovaglia, terra aspra e dolce come la sua.
L’incanto e la sorpresa erano quelli di un bambino che scopre piano piano il mondo, la saggezza e la forza erano quelle della sua gente.
Nella borsa da viaggio che le avevano regalato aveva messo proprio poche cose perchè la Ven non aveva mai avuto bisogno di molto ma non aveva mancato di mettere, per consegnano nelle mani di Francesco, il simbolo della sua speranza: una sciarpa di seta con gli stessi colori dell’alba.