Tutto il fiato che resta
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”XXII EDIZIONE - Treviso, 8 Gennaio 2017
Segnalato
Tutto il fiato che resta
di Jacopo Azzimondi - Sant'Ilario d'Enza (RE)
Fuori pioveva a dirotto. Sentivo le gocce flagellare i vetri sottili delle finestre e martellare incessantemente il tetto di ardesia sopra la mia testa.
Di tanto in tanto, il bagliore abbacinante di un lampo illuminava la stanza. In quel breve attimo di luce cruda potevo scorgere le sagome dei miei compagni, alcuni sdraiati sui materassi, altri avvolti in panni di lana sul pavimento.
Ben pochi di noi riuscivano a dormire, quella notte.
Angelo era in piedi accanto alla finestra e tentava di guardare fuori, oltre il buio e l’impenetrabile cortina d’acqua.
Era nervoso, come tutti noi, senza sapere perché.
Accarezzai lentamente i capelli ondulati di Margherita, che dormiva con la testa appoggiata sul mio petto e le labbra socchiuse. Era stremata dalla fuga, ma ora sembrava serena.
Dio, quanto era bella.
L’avevo conosciuta poche settimane prima, durante uno dei nostri sopralluoghi a Folgaria.
Prima di entrare in città io e gli altri avevamo stabilito l’ora e il luogo del ritrovo, poi come sempre ci eravamo divisi per dare meno nell’occhio. Ero con Domenico.
Una piazzetta deserta e una fontana. Lei era lì, i capelli stretti da un foulard, la fronte aggrottata, intenta a lavare via alcune macchie da un vestito a fiori. Mi aveva guardato per un istante, l’avevo vista arrossire al mio saluto. Domenico, che mi conosceva ormai da anni, aveva trovato una scusa per allontanarsi e lasciarci soli.
Ero rientrato solo a tarda sera, ben oltre l’orario stabilito, euforico come non mai, esibendo l’indirizzo di Margherita scarabocchiato a carboncino sulla manica della giacca. E da allora ci eravamo visti ogni volta che lasciavo i rifugi sulle montagne per scendere in città…
E’ nuda, coperta fino alla vita da un lenzuolo sottile. Mi guarda e si infila vanitosamente un fiore di ciliegio tra i capelli castani. Un sorriso le fa nascere due fossette ai lati delle labbra. La attiro verso di me con delicatezza, inizio a baciarla piano.
Bussano alla porta.
“Marinaio, sbrigati: quelli della Val Posina hanno detto alla radio di muovere il culo e di portarlo al sicuro su nei boschi.”
Impreco tra i denti. Non voglio alzarmi, non voglio staccarmi dal corpo sottile di Margherita. Ma devo, sono il Marinaio.
Mi alzo svogliatamente dal letto e vado ad aprire. E’ Domenico.
“Che significa?”
“Hanno una paura fottuta che i nazisti rastrellino la nostra zona, dobbiamo andare.”
Stringo i pugni.
“Fanculo. Loro e questa guerra di merda: raduna gli altri.”
Usciamo dal paese dopo nemmeno mezz’ora, attraverso strade deserte e case dalle porte sbarrate, avvolti dalla foschia del mattino. Fa freddo, nonostante sia l’undici agosto. Il sole sta germogliando dietro le cime dei monti ma non è ancora abbastanza caldo.
“Ci siamo tutti?” chiedo, mentre lasciamo la cittadina e ci inoltriamo fra l’erba umida dei campi. Ci contiamo rapidamente, in silenzio: quattordici.
“Brigata Freccia al completo, Marinaio” dice Romeo, stopposi capelli rossicci e mezzo naso portato via dalla scheggia di una granata.
Lancio un’ultima occhiata in direzione di Folgaria, sperando invano di scorgere la casa di Margherita. Aveva gli occhi lucidi, quando mi ha visto partire. Come ogni volta, non capisce perché io me ne vada. Ma non sa chi sono, non conosce il genere di cose che fanno quelli come me. E io non voglio che lo sappia. Mai.
“Muoviamoci. Acciaio, fai strada. Neta, tu e Angelo chiudete.”
Un tuono ruggì talmente forte da far tremare i vetri. Margherita mormorò qualcosa nel sonno e si raggomitolò contro di me. Qualcuno nell’ombra, probabilmente Carogna, bestemmiò ad alta voce, maledicendo la tempesta che lo aveva svegliato.
Non sapevo che ore fossero, ma nonostante le coperte e il calore che pulsava sotto gli abiti di Margherita avevo freddo.
“Angelo” chiamai sommessamente, “vedi qualcosa?”
“Un cazzo di niente, Marinaio” rispose lui, “Soltanto la lampada di Neta fra i castagni. Sta gelando, secondo me.”
Sospirai, lo sguardo perso tra le assi scure del soffitto.
“Vado a darle il cambio tra poco.”
Silenzio. La pioggia scrosciava più forte di prima.
“Penso che non devi lasciare la tua fèmena tutta sola in una notte come questa, Marinaio. Se io fossi te, ci farei l’amore fino a domattina.”
Sorrisi al buio: non era una cattiva idea.
“Sei mai stato innamorato, Angelo?”
Sentii un suono aspirato, quasi raschiante, e capii che stava ridacchiando tra i denti storti.
“Una volta, sì. Prima della guerra. Ci avevo forse la tua età, Marinaio…quanto è passato.”
Vidi la sua sagoma in controluce contro la finestra, sentii un fruscio. Una fiammella arancione illuminò per un attimo il suo volto scavato mentre si accendeva una sigaretta.
Tirò una lunga boccata.
“Lei era come la tua Margherita. Piccola sai, ma sotto le lenzuola era…ecco sì, un angelo. Come me.”
Attesi che continuasse, invano. Continuò a fumare senza aggiungere altro, poi spense la sigaretta e restò lì, con lo sguardo perso chissà dove.
Verso mezzogiorno ci fermiamo in un boschetto di faggi, per poter riposare e mangiare qualcosa al riparo da occhi indiscreti. Il cielo promette pioggia: gigantesche nubi di piombo gravano sulla vallata, e il vento taglia come la lama di un coltello. Neta e Angelo sono rimasti indietro, a coprirci la fuga e a controllare che nessuno ci segua.
Improvvisamente, la radio di Donnola inizia a ronzare. Il ragazzo l’afferra e si mette in ascolto.
“Ragazzi, sono Neta. Ci siete?”
“Ci siamo, che succede?”
“Siamo nella merda. I nazisti… stanno bruciando Folgaria!”
Corro a perdifiato giù dalla scarpata schivando buche e macigni, il vento che mi fischia nelle orecchie. Non so quanti dei miei compagni mi stiano seguendo, forse nessuno. Qualcuno alle mie spalle urla, forse Domenico. Penso mi stia avvertendo di non fare una delle mie solite cazzate, ma sai com’è.
Davanti a me nella vallata si erge una colonna di fumo. Alla base di essa, la città è avvolta dal fuoco. Sembra così lontana…
Margherita è in mezzo a quell’inferno. Non permetterò ai nazisti di prenderla.
Sto mettendo a repentaglio la vita dei miei compagni di brigata, lo so, ma non gli ho chiesto di seguirmi. E poi, è così che va la guerra: siamo continuamente costretti a scegliere chi sacrificare. E io non intendo sacrificare lei. I miei compagni sono partigiani, soldati, guerriglieri. Scegliendo di unirsi a me hanno inevitabilmente scelto di morire falciati da una mitragliatrice o sventrati da una granata. Margherita no, lei è la mia speranza in questa guerra. E non lascerò che muoia. No, non lascerò che muoia.
Neta era seduta sulla grossa radice di un castagno, accanto al barlume tremolante della lanterna. Le fronde dell’albero erano così intricate che la pioggia filtrava a stento. La ragazza aveva il suo fucile di precisione di traverso sulle ginocchia, lo accarezzava distrattamente, lo sguardo da cerbiatta vivido alla luce della fiamma.
I capelli ramati le scendevano lungo l’impermeabile. Non ho mai capito come facesse a tenerli così lunghi senza prendere mai nemmeno un pidocchio.
Quando sentì i miei passi sul suolo fradicio, istintivamente mise un dito sul grilletto.
“Rilassati Neta, sono io.”
“Ciao, come mai qui?” mi chiese.
Alzai le spalle. “Sei stata fuori abbastanza, credo. Vai dentro. Qui ci resto io.”
“Sei gentile, Marinaio” ribatté lei, stiracchiando i muscoli indolenziti.
Mi sedetti accanto a lei sulla corteccia ruvida della radice e per un po’ nessuno dei due parlò. La pioggia sembrava essere diminuita d’intensità, ma non accennava a smettere.
“E’ come se decine di persone invisibili camminassero sulla nostra testa, vero?” disse Neta, guardando verso la volta di rami gocciolanti.
“Antonio direbbe che è davvero così. Direbbe che sono quelli uccisi dai nazisti e tutto il resto.”
La ragazza sorrise. “E’ uno strano. Ma è molto dolce.”
“Sono tutti dolci con te, Neta” commentai, “Soprattutto quando ti infili nuda nei loro letti per scaldarli e scacciare gli incubi.”
“Sai bene che mi piace. Lo facevo per soldi prima della guerra, ma ora che nessuno ha più una lira mi accontento di farlo e basta. E’ sbagliato?”
“Riesci a fare quello che nessuno fa, Neta. Dimentichiamo la guerra, la fame, le urla delle persone che abbiamo visto morire, e anche se solo per poco fai nascere in noi il desiderio di essere felici. Non c’è niente di più prezioso di questo.”
La vidi sorridere di nuovo. Si protese verso di me e mi sfiorò la guancia con un bacio.
“Tornerei da te, Marinaio. Mille volte” sussurrò, “La tua Margherita è fortunata ad averti.”
Non risposi, ma la seguii con lo sguardo mentre si allontanava sotto la pioggia.
La parte ovest della città è un inferno. Edifici avvolti da sudari di fiamme, persone in fuga, aria soffocata da fiocchi di cenere e nazisti ovunque. Sento raffiche di mitragliatrice, bambini che piangono in mezzo alla strada e gli ordini sbraitati dai soldati.
Rastrellamento un cazzo, questo è un massacro.
Al diavolo la prudenza.
Lascio la protezione di un edificio abbandonato e attraverso la strada. Per terra in mezzo al sangue ci sono dei corpi, molti hanno gli occhi vitrei, qualcuno respira ancora. Non posso fermarmi adesso, casa di Margherita è dalla parte opposta della città, a est. Non manca molto.
Mentre corro, i muscoli urlano per il dolore e ho il fiato corto. Una donna scalza mi oltrepassa correndo, un uomo mi spinge di lato per passare. Proiettate dalle vampe dei roghi, le nostre ombre sembrano mostri.
Controllo di aver portato con me almeno la rivoltella. Sento la sua rassicurante presenza nella tasca della giacca. Svolto in un vicolo, attraverso la piazzetta con la fontana.
Due uomini, teschi scintillanti alla luce delle fiamme appuntati sulle divise militari, fucili d’assalto. “Alt! Stopp!”
Sparo due colpi alla cieca e sento un urlo di dolore. Mi tuffo in un vicolo mentre una scarica di proiettili crivella il muro alle mie spalle. Inciampo, rotolo sul selciato e mi rialzo sanguinando.
Un esplosione troppo vicina fa tremare i muri degli edifici, sento altre urla in mezzo al fumo. Vado a destra e corro lungo un viale completamente deserto che fiancheggia il torrente. Sono vicino: la prima volta l’ho baciata qui, alla luce di un lampione. La via era deserta anche allora.
Supero una svolta e vedo la sua casa, il fuoco non l’ha ancora raggiunta.
Urlo il suo nome con tutto il fiato che mi resta.
Ci sdraiamo ansanti e sudati in un canale ricoperto di erbacce, lontano dalle grida e dagli spari. Mi abbraccia. Sa di fuliggine e lacrime salate, ma i suoi capelli profumano ancora come le ciliegie. Mi stringe il viso tra le mani, ci baciamo in fretta.
“Credevo non tornassi più” mi dice, contro le labbra.
Trema, ha paura. Vorrei stare lì a baciarla per sempre.
“Non siamo al sicuro, Mita. Dobbiamo andarcene.”
“E dove? I tedeschi sono dappertutto, ammazzano le persone.”
“Non possiamo restare nella vallata, devi venire con me.”
“Ma tu hai detto che io non sarei mai…”
“Lo so. Ma se resti qui, ti prenderanno, ti obbligheranno a fare il mio nome. Non posso rischiare che tu venga uccisa per colpa mia.”
“Dove mi vuoi portare?”
“A Malga Zonta, Mita. Lì saremo al sicuro.”
Qualcosa non andava, me ne accorsi quando smise di piovere.
Il buio che mi circondava all’improvviso si era fatto più oscuro. Il cielo era ancora coperto da una coltre di nubi. L’acqua gocciolava ritmicamente dagli alberi e le foglie umide frusciavano agitate dalla brezza della notte.
I due edifici alle mie spalle, la porcilaia e la malga, erano immersi nel silenzio. Nonostante la distanza, potevo quasi percepire i respiri dei miei compagni addormentati all’interno.
L’olio della lanterna si era esaurito mezz’ora prima e stava salendo la nebbia.
Mi accovacciai contro il tronco del castagno e controllai il caricatore del fucile.
Poi tesi le orecchie.
Ero nato vicino al mare, e prima della guerra ero stato mozzo su una nave dall’età di dieci anni. Ora ero partigiano e di anni ne avevo ventidue, ma le lezioni imparate su quella nave non me le ero certo dimenticate.
L’aria parlava, aveva un sapore, un odore. Sulla nave raccontava storie di tesori e sirene, era azzurra e sapeva di sale. Qui era diversa, grigia e verde scuro. Muschio, cortecce fradice, terra friabile.
Acciaio. Polvere da sparo. Morte.
Inizio a correre tra gli alberi verso la malga, mentre tutto intorno a me il bosco si riempie di schiamazzi, di fari abbaglianti, dei latrati feroci dei cani e degli umani.
Ci hanno trovato, e sono troppi. Forse mi seguono da quando ho lasciato Folgaria.
La pioggia e il buio li hanno protetti fino ad ora, sono tutto intorno a noi, in agguato fra i tronchi. Iniziano a sparare.
Raggiungo la malga, mi lancio a peso morto contro la porta e la spalanco urlando l’allarme.
Non serve.
Domenico ha già la sua mitragliatrice in mano, Neta sta caricando il fucile mezza nuda ma per una volta nessuno ci bada, Angelo butta l’ennesima sigaretta fumante, Carogna è in mutande, Bètina, Romeo detto Rosso, il Biondo, Lupo, Acciaio, Donnola, Antonio, Nero e Mago sono svegli da pochi istanti ma stanno già imbracciano le armi e organizzando la resistenza. I miei soldati. La mia Brigata Freccia.
Io non ho che un pensiero. Margherita.
La donna appoggiata al davanzale sospirò, lo sguardo perso fra le stelle che adornavano il cielo sopra Folgaria. Chissà, il giorno prima avevano festeggiato San Lorenzo, forse sarebbe riuscita a vedere una stella cadente. Faceva freddo, proprio come quell’undici agosto di tanti anni prima.
Ricordava tutto come se fosse ieri.
Gli spari la strappano dal sonno. I partigiani mezzi svestiti gridano, caricano i fucili e si posizionano alle entrate e alle finestre. Poi tutto è caos. Raffiche violente, imprecazioni, granate, “Libertà!”
Vede lui, seduto sotto la finestra dentro la stanza piena di fumo, quando ormai non ci sono più cartucce da sparare o compagni da soccorrere, ferito, le dita strette intorno al calcio della pistola.
Sorge l’alba, sentono i tedeschi correre attraverso il prato zuppo di pioggia verso Malga Zonta. Ma lui è calmo, con quei suoi capelli neri spettinati e gli occhi azzurri da tedesco. Dice il suo nome con un sorriso debole, le fa cenno di avvicinarsi.
E lei si avvicina a carponi, in mezzo a tutto quel sangue, ai cadaveri, ai vetri rotti.
“Non devono trovarti” le dice, con gli ultimi residui di fiato.
“Sotto il nostro letto c’è una botola, aprila…ti porterà sull’altro versante della montagna. Mettiti in salvo, vai.”
Si stringono l’uno all’altra per l’ultima volta.
“Ti amo.”
“Ti amo.”
Sentì un rumore e si voltò. Il piccolo Bruno la guardava.
“Mamma, pensi a papà?”
Margherita sorrise.