Terzo 30 - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


Vai ai contenuti

Terzo 30

Tutte le edizioni > Edizione30
ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA


"La Montagna:le sue genti , dalla storia all’ attualità"

XXX EDIZIONE Teviso, 11 gennaio 2025
Terzo classificato


LE COSE VERRANNO DA Sé
di Pillon Stefania
Belluno

 
 
 
Friedman. Lo chiamavano tutti così. Da sempre. Non ricordava l’ultima volta che qualcuno lo avesse chiamato per nome. Per tutti, dappertutto, era sempre e solo “Friedman”.
“Friedman, apri la finestra”, “Friedman, lavati le mani”, “Friedman, hai finito con le fatture?”, “Friedman, levati dai piedi!”, Friedman, tu stai in porta”.
Lui era il suo cognome. Anzi, il cognome di suo padre e, prima di lui, quello di suo nonno, e così via, in una lunga catena che si perdeva nelle genealogie e nelle migrazioni della sua famiglia, le cui origini mescolavano un qualche antenato tedesco con una qualche donna italiana di un qualche paese della montagna veneta. Andava bene così. Anche se spesso quel cognome era stato storpiato nei modi più bizzarri (Friman, Ferman, Firdam), complice l’abitare in un piccolo paese di un piccolo comune montano arroccato su pendici franose e dirupanti, condizione morfologica che faceva sembrare quel cognome esotico, fuori dal contesto, ci si era abituato, come nella vita ci si abitua a tante cose. Friedman, punto e pace.
Con quel cognome divenuto nome, era cresciuto, aveva studiato, fino ad arrivare alla soglia dei ventisei anni con un lavoro accettabile, senza doversi spostare dal comune natio se non per qualche modesto svago (una passeggiata attorno al lago o una gita fuori porta con la Parrocchia) o urgenze improrogabili (quella volta al Pronto Soccorso della città per la frattura della gamba), abitando la casa di famiglia, prima con i genitori, poi, dopo la loro morte, solo, essendo le sorelle sposate e accasate in altre valli.
Un giorno poco distante dal suo compleanno, sarà stato per un colpo di aria fredda che lo aveva costretto a ripararsi contro un muro, si era imbattuto in un annuncio, per meglio dire, un foglietto scritto a mano, appeso con una puntina alla bacheca delle comunicazioni diocesane:
Filò di cucito e tessitura
sabato pomeriggio dalle 14:30 alle 17:30
presso località Case sparse
per informazioni recarsi in Parrocchia.
Lo aveva letto una volta, un’altra volta e, in modo del tutto spontaneo, gli era venuto da accennare un sorriso. La bisnonna Cate, tra i ricordi d’infanzia, vestita di nero, con un fazzoletto altrettanto nero a incorniciare un viso duro di rughe, in una stanza del pian terreno della sua casa alta e stretta, quella in cui abitava e aveva sempre abitato, intenta ad armeggiare con fili e nodi e navette di legno. E lui, bambino, appoggiato con la spalla gracile allo stipite della porta, che la osservava e osservava quell’intricato meccanismo di legno dal quale scaturivano sciarpe, lenzuola, tappeti e chissà cos’altro, mentre l’odore dei muri di pietra, di quella pietra di cui erano fatti, portata a valle dal torrente, quell’odore penetrava fresco e affilato nei polmoni. La bisnonna, senza parlare ma solo con un cenno della mano, lo chiamava a sé e con altrettanti cenni della mano, tutti fra loro diversi e chiari, gli comandava di fare questo e quello, e lui eseguiva questo e quello, senza avvedersene imparando.
Passarono giorni prima che si decidesse ad andare in Parrocchia. Per uno come lui le decisioni, anche le più piccole ed insignificanti, richiedevano lunghe riflessioni. E in quel caso si trattava di inanellare innumerevoli questioni da risolvere: l’orario anzitutto, che cozzava con il consueto pisolino delle 14 dopo il lavoro in ufficio. Il luogo, poi, che lo avrebbe costretto ad inerpicarsi con la macchina per strade e stradine, e parcheggiare chissà dove e chissà come, spingendolo giocoforza ad andare a piedi, proprio lui che in fatto di salite e discese non era certo il primo della classe, anzi, l’esatto opposto, come testimoniavano anni di prese in giro e sberleffi di cui, in tutta franchezza, non gli era mai importato un accidente, ma che aleggiavano costantemente nelle conversazioni dei compaesani. C’era da considerare anche l’utenza, pressoché tutta femminile, non c’era da dubitarne, e il conseguente chiasso di chiacchiere e il contenuto dei discorsi nei quali difficilmente avrebbe potuto trovare agganci uno come lui, riservato, solitario e signorino, come tutti lo definivano, per via dei modi e del celibato. La stanza, infine, sarebbe stata sufficientemente grande per concedere a ciascuno il proprio spazio? Insomma, la decisione richiedeva un esame attento. Però… se aveva fatto il ragioniere era stato solo per volere del padre. In famiglia maschi e femmine potevano scegliere - si fa per dire - tra una rosa precisa di mestieri che appartenevano a universi distanti e intangibili. Lui, unico maschio, con le dita delle mani sottiline, l’aspetto gracile ed emaciato, rappresentava quell’eccezione da far rientrare nella norma. Perciò era stato mandato a studiare affinché imparasse, almeno, a fare i conti… il lavoro di impiegato, tutto sommato, poteva essere un buon compromesso. Ma fosse stato per lui, se avesse potuto seguire non si voglia dire un talento bensì una certa predisposizione, ecco, fosse stato per lui, certamente avrebbe scelto di andare a bottega da un qualche sarto, anche in città, lontano da lì se fosse stato necessario.
Dopo lunghe riflessioni, si era deciso infine ad andare in Parrocchia nel primo pomeriggio di un sabato di fine novembre e, certo per una qualche incomprensione, lo avevano spedito direttamente in località Case sparse, come si direbbe, senza nemmeno passare per il via. Raggiunta la sede, dopo aver guidato con il patema d’animo fino a uno spiazzo fortunosamente libero, ricompostosi alla meglio, aveva bussato alla porta di quella che sembrava a tutti gli effetti una casera, piuttosto grande e ben tenuta.
«Buongiorno» aveva detto. «È qui che si tiene il filò di cucito e tessitura?»
«Accompagni qualcuno, Friedman?» Gli avevano chiesto.
«Veramente me stesso» aveva risposto.
«Ah… accomodati» avevano ribattuto non senza un certo stupore.
Era entrato nella stanza con un misto di tensione e adrenalina, sentendosi nel posto giusto e nel posto sbagliato al contempo. Attorno, su tavoli rettangolari, erano ammassati stoffe, stracci, filati, mentre diverse macchine da cucire e telai sostavano da un lato. Come aveva preventivato, la stanza era animata di sole donne, perlopiù anziane, eccezion fatta di qualcheduna più giovane, sulla cinquantina o giù di lì, che all’unisono si erano voltate al suo apparire, pensando si trattasse del prete o di un parente della proprietaria, non certo di un partecipante. Poi, riconosciutolo, per un istante avevano smesso di parlare disegnandosi sui volti un comune interrogativo.
«Friedman, che ci fai qui?» Aveva quindi chiesto la Dora del panificio.
«Mah, una certa curiosità mi ha spinto a… se posso, naturalmente…»
«Certo che può signor… ?»
Ed era arrivata lei. Dal nulla si era fatta largo, prima con la voce poi con il corpo, come un vento deciso, palesandosi di fronte a lui: un casco di capelli rossi e riccioluti, occhi verde lago di montagna e abiti e occhiali alla moda (veniva certamente dalla città, il gusto, i modi, la parlata spigliata, era evidente).
«Signor Friedman».
«E il suo nome?»
«Mi chiami pure Friedman».
«Lo chiamano tutti Friedman, Maria».
«Possiamo darci almeno del tu?»
«Se lo ritiene… »
«Sì, lo ritengo» aveva risposto lei sorridendo. «Prendi pure una sedia. Che dite, iniziamo?»
E come formiche tutte si erano mosse in un ordine sparso e coordinato verso i tavoli, chi prendendo dal borsello aghi e ditale, chi imbracciando il telaio, chi appostandosi alla macchina da cucire.
«Friedman» – gli disse lei – «Hai qualche particolare esperienza?»
«Direi piuttosto una buona memoria».
«Va bene anche quella. Comincia dove vuoi, le cose verranno da sé».
E Friedman, a colpo sicuro, aveva scelto il telaio. Nonostante si sentisse osservato e chiacchierato (lo si capiva dal tono di voce modulato a dovere per essere o non essere sentite), inaspettatamente provava un certo agio, quasi una gioia, nell’esser circondato di tessuti e colori e nel poterlo condividere con chi, evidentemente, tra tessuti e colori trovava lo stesso agio, quell’agio che, al contrario, non era mai riuscito a provare in un campo da calcio o seduto al bar con i coscritti del paese a chiacchierare di motoseghe e pez o spericolati troi.
«Sei di queste parti?» Gli chiese lei.
«Proprio di qui, nato e cresciuto qui».
«E lei?»
«Non dovevamo darci del tu? Nata e cresciuta a Padova, ma mia madre era di qui. Sono la figlia della Lena, questa è la casera di famiglia».
«Capisco».
«Vedo che non te la cavi affatto male… »
«Non esageri! Come dicevo, ho una buona memoria».
«Non solo quella a quanto pare».
Le ore quel pomeriggio passarono in un lampo come mai era successo nella sua vita e, finito il filò di quella giornata, si era lasciato scappare un «Di già?» che aveva strappato le simpatie delle più anziane e qualche occhiolino malizioso delle più giovani.
«Allora, Friedman, ci vediamo la prossima settimana?» L’aveva sorpreso lei di spalle mentre armeggiava per salire in auto, ritrovando il patema d’animo che aveva lasciato all’arrivo.
«Direi di sì, se non le dispiace».
«Ancora con questo lei! Lo sai che sei davvero buffo?»
«Questo non me lo aveva detto ancora nessuno».
Nei mesi successivi l’appuntamento con il filò diventò il pensiero fisso della settimana, l’ancora di salvezza dalle giornate lavorative in ufficio tutte uguali, con le solite scadenze, i soliti imprevisti, le solite conversazioni, ogni cosa lontana dai suoi interessi, statica, prevedibile, immobile. Al filò, invece, c’era l’immaginazione da tradurre in trame di tessuti, c’era l’odore dei filati, c’erano le consistenze, c’era la tradizione che nella comunione di idee diventava innovazione. E, come negarlo? C’era lei. Maria. Con i suoi venticinque anni di energia ed eleganza e gusto e simpatia e intelligenza e bellezza e… Friedman, il caro garbato buffo Friedman, aveva a suo modo perso la testa.
Poi, sarà stato in primavera, complici i malanni di stagione e una qualche fiera dell’artigianato o giù di lì, un sabato si erano ritrovati soli al filò. Loro due. Friedman e Maria.
«Se non sono indiscreto, che ci fa una giovane donna in gamba come lei, per di più ottimamente laureata, quassù in questo luogo di montagna?» Le aveva chiesto a un punto della conversazione.
«Che ci fa… decide cosa fare della propria vita, Friedman. Con la mia laurea potrei lavorare in azienda? Insegnare? La questione non è cosa voglio fare, bensì chi voglio essere».
«Temo sia un bel dilemma».
«Già. E tu, Friedman, non hai mai pensato di mollare il tuo lavoro d’ufficio per fare questo?»
«Questo cosa?»
«Occuparti di tessuti e filati, tessere, insomma fare della tua passione un lavoro».
«Non ne avrei il coraggio, suppongo».
«E se il coraggio ce lo mettessi io?»
«In quale senso?»
«Io ho una casera, che può diventare una sede, e ho una formazione che, diciamo così, mi dà una mano. Tu hai talento e sai fare i conti. Che cosa ci manca?»
«Messa in questi termini… facendo una serie di riflessioni… »
«Friedman…»
«Devo dare subito una risposta?»
«Posso aspettare qualche minuto… »
«Oh di grazia, qualche minuto, non saprei, le chiederei una dilazione… »
«Friedman, sto scherzando, puoi prenderti tutto il tempo che ti serve. Però pensaci!»
«Mi fa tirare un sospiro di sollievo, Maria, capisce che sono argomenti che richiederebbero un attimino, cosa dico, un tempo rilevante per ragionamenti e… »
«Ci sarebbe un’altra questione, però, più… urgente» lo interruppe lei.
«E sarebbe?»
«Il primo bacio, Friedman…»
«In quale senso?»
«Il nostro primo bacio… come la mettiamo?»
«Mi prende in contropiede, troverei davvero poco elegante farmi avanti senza aver prima… »
«Friedman… immagino che lo dovrò fare io il primo passo, giusto?»
E così era stato. Erano i primi anni Settanta e il vento di cambiamento che muoveva il Paese, sospinto dal ’68, era arrivato anche lassù, in quel piccolo comune montano arroccato su pendici franose e dirupanti, portato da una giovane donna che aveva il brio della città e il cuore della montagna. Maria gli aveva letteralmente sconvolto la vita. La casera, da luogo di ritrovo, divenne un laboratorio permanente a tutti gli effetti. Le signore del filò, elettrizzate dalla prospettiva di aiutare la giovane coppia, si erano rese disponibili a dare una mano, chi facendo incetta di abiti vecchi e stracci, chi col passa parola, chi portando una fetta di torta e una pacca sulla spalla. La casa di Friedman divenne la loro casa, con stupore delle sorelle e del parentado e del paese intero che non avrebbero scommesso una lira sul futuro amoroso del signorino. Erano, quindi, nati Tomaso e Cristina e, nel frattempo, Friedman aveva definitivamente lasciato il lavoro d’ufficio per occuparsi, in toto, dell’azienda insieme a Maria. Era così nata la Tessitura Art&Natura Rossi-Friedman, che si era andata a poco a poco affermando, fino a diventare negli anni una delle ditte di tessitura artigianale più rinomate del circondario alpino. Le cose verranno da sé – aveva detto Maria il giorno del loro primo incontro, ma nessuno avrebbe potuto immaginare tanto. Neppure che Friedman, con il suo cognome, diventasse qualcuno.
Cinquant’anni dopo, nella stanza del primo piano della sua casa, quella in cui era nato e sempre aveva vissuto, davanti al telaio della bisnonna Cate, proprio quello che aveva osservato e studiato da bambino, lui, Friedman, i capelli ormai bianchi e radi, cambiato nell’aspetto, ma non nei modi, queste cose raccontava ai nipoti, con la sua incrollabile pazienza.
«E così è andata, su per giù, si intende» aveva concluso.
«Nonno, se vuoi facciamo una stories su Instagram!»
«Dai, figata! Ci mettiamo anche un selfie dei nonni!»  
«E poi uno con i nonni e la mamma, però, perché adesso c'è anche lei in azienda… »
«Scusa, non facciamo prima a farne uno tutti insieme?»
«Ma nonno, alla fine, quando ti sei deciso a dire alla nonna il tuo nome?»
«L’ho dovuto sentire in chiesa dal prete!» Intervenne Maria giunta sulla porta. «Se avessi aspettato nonno Ennio, cari miei, l’avrei chiamato Friedman per tutta la vita!»
Torna ai contenuti