Terzo 29 - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Terzo 29

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna:  le sue genti, le storie di ieri e di oggi”

XXVIII EDIZIONE Arcade, 5 gennaio 2023
Terzo classificato


La Domenica in casera

di Paloschi Francesco
Mestre (VE)





Saliva verso il paese portando lo zainetto con il computer e giusto quattro cose per la notte. L’avesse incrociato qualche compaesano avrebbe riconosciuto in lui il ragazzone di sempre, di quei bei giovani pieni di energia che ogni tanto ancora nascevano lì sopra. A lui però, a Tommaso, l’ormai pressoché dottor Tommaso, l’energia quel mattino faceva difetto e le gambe concedevano chilometri e quota con inopinata fatica. Colpa del solito incubo, ci si doveva rassegnare: veniva a trovarlo e gli sbriciolava il sonno, il nuovo giorno era consegnato alla stanchezza.
Non v’era dubbio che fosse un bel prodigio di costruzioni accastellate, il paesello dov’era nato. A guardarlo da sotto pareva caduto per sbaglio dalle crode e conficcato in bilico sul ciglio del pendio. Un groviglio di nuvole basse e pesanti aveva preso in ostaggio le cime dei monti e tinto il paesaggio di  grigia malinconia, del sole d’inizio estate si intuiva solo l’improbo sforzo. Percorrendo la via deserta comparivano le prime case, per lo più disabitate, finché non ci si infilava nell’imbuto di arcani muri in pietra che risucchiava il visitatore e lo portava a sbucare sullo slargo centrale.
Stamane v’erano parcheggiate tre auto, escursionisti del fine settimana. Pigramente acciambellato sotto il muro, un gatto bianco e nero si godeva la pace della domenica in paese. Rinfrescatosi alla vecchia fontana, Tommaso si diresse alla porta del bar ed entrò.
Lo accolse un brulicare di avventori, come se nel locale, ultimo esercizio ancora aperto tra le case, tutti si fossero dati appuntamento per la colazione.
“Olà, il chirurgo!”.
“Ma guardalo! Chi non muore...”.
In piedi accanto al bancone Tommaso ricambiava i sorrisi. Amici e conoscenti non mancavano, anche dai tavoli seminati di tazze e brioches gli venivano bonari cenni di saluto. Gli escursionisti sedevano in fondo, consumavano la colazione eccitati e ciarlieri, avvolti nel vestiario tecnico, pronti a partire.
“Come va, Betta?” disse Tommaso.
“Va. Cosa prendi, dottore?”.
La Betta armeggiava tra il banco e la macchina del caffè. Bella, decisa e florida com’era soltanto la Betta.
“Calma: ancora qualche esame. E il tuo bar?”.
“Finché non ci rinuncio e chiudo tutto, un krapfen lo trovi ancora”.
“Dammene due, allora. Con un chilo di crema. E il cappuccino”.
“Ci si vizia!” lo squadrò la Betta, seducente e beffarda, lo sguardo celeste e libero come un cielo d’alta quota. Erano amici d’infanzia, nei cortili e nei vicoli del paese avevano condiviso spensierati pomeriggi, e in compagnia degli altri ragazzini avevano esplorato i sentieri, vissuto la magia dei tramonti e quella delle stelle. Con lei c’era stato qualcosa in più dell’amicizia, negli anni della scuola superiore. Voleva bene alla Betta.
“Dai che è ancora buona, la domenica” disse Tommaso facendo scorrere lo sguardo sulla clientela numerosa.
“Eh. Ma non fosse per il weekend…” disse la Betta.
Il giovane mostrò di comprendere.
“Hai visto mio padre?” le chiese.
“Non viene al bar da qualche giorno. Lo si vede alla scuola, piuttosto: ci rimane davanti anche per ore. Ma oggi è domenica, e lo sai dove va lui”.
“Grazie, Betta”.
Non si trattenne a lungo. Lasciati il bar e la piazza, Tommaso si diresse verso le ultime case in salita. Giunse alla sua, sempre in grande spolvero, adornata di gerani freschi, gli infissi tirati a lucido, resa tutta radiosa da una cura sapiente, da una volontà precisa. Controllò il cortile, la tettoia della moto era vuota.
Suonò il campanello. Dopo una breve attesa, aprì da sé.
“Papà?”.
La voce s’infilò tra le stanze perdendosi nell’ombra. Suo padre non c’era. Decise di lasciare sul tavolo gli acquisti che aveva fatto per lui, tenne con sé l’indispensabile e uscì.
Salì per quasi un’ora di buon passo, rinfrancato dalla colazione e dall’incontro con gli amici. Tra i rami rimbalzavano le conversazioni degli uccelli. Una grossa vipera, l’epidermide riccamente screziata, attraversò l’asfalto sicura e tranquilla come si passa nel salotto di casa. L’animale era così smagliante che doveva da poco aver abbandonato l’esuvia, il giovane si chinò per studiarla e senza darle disturbo, come gli avevano insegnato da bambino, la lasciò strisciare finché non la vide dileguarsi nell’erba. La strada si fece sterrata, i boschi si diradarono e si aprirono i pascoli. Persisteva un’atmosfera fosca, più in alto la nuvolaglia continuava a tenere in trappola le crode. Tra le ondulazioni dei prati, come una scialuppa di salvataggio fra i marosi, prese forma la sagoma della casera. L’antica scialuppa di famiglia, il loro privato spazio calmo. Secchi colpi d’ascia facevano eco sulle pareti di calcare.
Raggiunse la baita. La schiena asciutta di suo padre muoveva agile i colpi sul ceppo, a pochi passi dalla catasta di legna da tagliare. Il legno fresco reagiva alle ferite regalando profumo. Senza annunciarsi, il ragazzo andò a raccogliere dal mucchio alcuni pezzi e li pose a sorpresa ai piedi dell’uomo. L’uomo sgranò gli occhi mostrandosi felice. Raccolse un altro tronco e continuò il lavoro, vibrante di muscoli e nervi.
“Papà, anche farmacologia è andata!”.
Il padre s’interruppe e lo cinse di uno sguardo benevolo.
“Trenta, papà!”.
L’uomo ondeggiò il capo e riprese a tagliare.
“Non avevo dubbi” disse.
“Tu come stai, papà?”.
Un altro fendente bene assestato divise il tronchetto in due pezzi simmetrici. L’uomo non parlava. Ma dopo avere pensato, disse:
“Sei il mio orgoglio, Tommaso”.
Tommaso sostava di fronte a suo padre, l’uomo agiva calmo e preciso. Si stanziarono in quell’angolo di mondo per un tempo indefinito, un tempo dal sapore antico, con l’uno che faceva legna e l’altro che assisteva e gli passava i tronchi, come un fanciullo che imparava. Muti e pensosi. Forse solo in quel silenzio riuscivano a intendersi davvero. Il prato della casera mescolava il profumo dell’erba rasata di fresco a quello pastoso del legno. Avvolta in una veste di nubi cineree, la montagna pazientava per l’eternità.
A una certa ora il giovane mostrò d’avere da fare ed entrò nella casera. La cucina gli diede il benvenuto con la mobilia rustica e le pignatte di rame sui muri, le stesse cose delle domeniche trascorse tutti insieme. Sul tavolo papà gli aveva fatto trovare la Sacher, ordinata nella pasticceria di fondovalle. In frigo alloggiava la carne per la brace. Il rosmarino, le verdure, le birre. Il ragazzo prese la griglia in magazzino e tornò all’aperto.
“Preparo il fuoco” comunicò.
Più tardi mangiavano sul tavolaccio, davanti al cielo che tentava di schiarire.
“Mi hanno detto che ci vai ancora, alla scuola” disse Tommaso.
“Com’è giù in città? disse l’uomo senza rispondere.
“In città va benone, papà. Ho trovato una ragazza”.
“Una ragazza?”.
L’uomo lo studiò di sbieco, gli occhi sciupati e severi, e si capiva che la notizia gli faceva piacere.
“C’è un altro modo di vedere, giù in città. E’ tutto diverso. Magari, papà, magari un giorno vieni a farci un giro. Ti farebbe bene”.
Il padre masticava la braciola. Tommaso gli versò da bere. Quando in paese c’era ancora il prete, dopo la messa salivano in casera a passare la domenica, a fare festa. Erano loro tre bambini, suo fratello Carlo, sua sorella Elisa, con mamma e papà. La carne aveva lo stesso profumo, passata con olio d’oliva, limone e rosmarino. Mamma faceva la Sacher.
“E com’è questa ragazza?” disse l’uomo.
“Simpatica! Biondina. Studia geologia” disse Tommaso.
“Geologia. E’ importante la geologia” disse l’uomo.
Nel pomeriggio presero la via delle cime, risalirono il versante sino al filo della cresta che nell’arco di un’ora permetteva di concatenare le tre modeste alture di casa. Il tempo ancora non prometteva bene, perciò si fermarono sulla prima cimetta erbosa, accomodandosi su due rocce affioranti dal prato. Le cose guardate dall’alto davano l’illusione di recuperare un ordine. Vedevano la casera, stagliata sulla vallata, e il truogolo glaciale il cui profilo a U raccontava le vicende preistoriche dei grandi ghiacci e delle immani erosioni. Tommaso aveva imparato a decifrare il paesaggio da bambino, con i giochi istruttivi di sua madre:
“Vediamo chi sa leggere la lettera disegnata dai fianchi della valle…”.
Loro tre bambini facevano a gara. Mamma attendeva le risposte, poi dava la spiegazione, con precisione e dolcezza. Papà se li mangiava tutti e quattro con lo sguardo, a volte lo si scopriva a sorridere da solo.
Ora suo padre era serio e guardava lontano.
“Come va il lavoro, papà?”.
“Bene, il lavoro va bene”.
“E la vita, papà?”.
L’uomo tacque qualche istante.
“La vita è un’esperienza aggrovigliata, Tommaso”.
“Così Dio ha voluto” disse Tommaso.
“Così” disse l’uomo.
“C’è una leggenda indiana,” disse Tommaso fissando il cielo, “racconta che i nostri cari defunti si manifestano nei rapaci”.
L’uomo alzò lo sguardo e arricciò il viso dentro quello che poteva sembrare un saluto. Seguirono rapiti il volo planato della poiana. Il grande rapace, le ali spiegate, era venuto a disegnare ampi e placidi archi sopra le loro teste. La seguirono fino a quando non andò a infilarsi in una gola lontana. L’uomo aveva gli occhi umidi.
“C’è aria di novità per queste montagne,” esclamò il giovane, “in città si sente dire che vogliono rilanciare il turismo. Già viene a girarci gente, qua sopra, le voci corrono, hanno capito che con i turisti si potrebbero aprire nuove possibilità per la valle”.
“Per la valle o per gli speculatori?” disse l’uomo.
“Per il momento,” spiegò il figlio, “ho visto un bel progetto esposto  nell’atrio dell’università, è un piano di recupero delle casere e dei bivacchi, assieme alla ristrutturazione della rete di sentieri. Si parla di trekking, di vacanze responsabili, di cultura della montagna, sanno che non è più il tempo della neve e degli impianti e anche i politici cominciano a parlare di turismo sostenibile. Era ora, no?”.
“Sostenibile. E per chi?”.
Il ragazzo rise. In cuor suo era disarmato.
Il padre perlustrava la valle con lo sguardo freddo. Prese un sasso da terra e lo scagliò lontano, tra i prati.
“Per loro la montagna è questo: un posto di passaggio, una specie di giostra. Vogliono trovarci il ristorante stellato, la sauna, i souvenir. Non pensano sia un posto dove vivere. Dove esistere. E quindi via il panificio, via i medici, via la scuola. Trascurano che ci sia un diritto ad abitare, in un posto come il nostro. Una goccia per volta ci hanno tolto l’ossigeno, e adesso fingono di venire a salvarci”.
Sotto i loro occhi, la grande distesa di larici e abeti dispensava le sue diramazioni tra le alture e le pendici dei monti, insinuando le lunghe dita verdi nelle valli laterali, lungo i declivi e sui costoni, talora fino a lambire la roccia, riversando in cento rivoli la vita, così sterminata e libera che pareva di avvertirne l’immenso respiro. L’uomo e il figlio rimasero a guardare senza dirsi niente, lasciando parlare la montagna, finché, verso sera, non si mossero per rientrare alla casera. Si strinsero in due sulla moto da cross e scesero.
Una volta a casa, Tommaso consegnò gli acquisti al padre, computer e telefono, i nuovi e potenti modelli che l’uomo gli aveva chiesto per potersi connettere all’ufficio.
“Giù dicono che porteranno presto la fibra” provò a dire il giovane.
Il padre montò l’attrezzatura in silenzio. Sembrava tuttavia soddisfatto. Testò il collegamento Hotspot, aprì la rete di lavoro. Di recente gli saltava la linea durante le riunioni.
“Questo dovrebbe tenere” disse.
La sera Tommaso andò al bar con tre amici. C’era la Betta che rideva e  manovrava lo spillatore della birra. Fuori pioveva, la musica ad alto volume usciva dal locale e si mescolava al ticchettio dell’acqua sull’asfalto. In fondo alla sala quattro anziani giocavano a carte. I giovani presidiavano il bancone. Attraverso la vetrata Tommaso colse un’ombra varcare il piazzale. Si scusò in fretta, prese l’ombrello e uscì.
Camminò senza farsi notare al riparo dell’ombrello. Si era vestito poco e si strinse intirizzito nelle braccia nude. Suo padre lo precedeva mani in tasca sulla via poco illuminata, incurante dell’acqua. Nel buio il giovane vide l’uomo fermarsi davanti alla vecchia scuola, dove rimase in piedi a fumare e a guardare l’ingresso. Tommaso aspettò. La luce rossa della sigaretta disegnava piccoli tracciati nel buio come se l’uomo gesticolasse parlando. Passò forse un quarto d’ora, Tommaso saltellava per il freddo. L’acqua aumentava e scorreva veloce sulla strada. Alla fine si decise e raggiunse il padre.
Tornarono a casa senza una parola, raccolti sotto l’ombrello. L’uomo era fradicio e impassibile. Pareva che con quello scroscio il cielo volesse farsi sentire vicino.
La notte il giovane si rivoltò nel letto a causa del solito sogno. Venne ancora una volta ottobre e i boschi avevano messo i colori. La gente del paese si precipitava sulla strada e tutto si svolgeva in assenza di suono, al ralenti, in un silenzio così denso e assurdo da sembrare materia, sostanza, una sostanza collosa nella quale la montagna giaceva. La muta confusione culminava alla scuola: la maestra si era sentita male, e mentre si cercava un medico, un medico in paese non c’era, non c’era più, poiché l’avevano eliminato. Per razionalizzare i servizi, avevano spiegato. Così dopo un po' arrivò l’ambulanza, la solita luce blu girava lenta. Tommaso vide suo padre salire. La porta si chiuse. Nel silenzio assoluto il lampeggiante blu si allontanava, verso la strada troppo lunga, in quella corsa che non sarebbe servita.
Si svegliò di soprassalto credendo fosse notte fonda, e invece questa volta era mattina. Lunedì. La stanchezza aveva prevalso.
Era tardi. In cucina fece a suo padre un saluto svelto e corse via. Scese zaino in spalla tra i vicoli del paese. Passò davanti alla vecchia scuola, mandando un’occhiata alla soglia dove sua madre accoglieva i bambini. Ci aveva fatto anche lui le elementari e le medie ma ora l’avevano chiusa. Come l’ufficio postale, le botteghe, il centro sanitario. Era sicuro che sarebbe tornato in paese da medico, un giorno, che avrebbe riaperto lui l’ambulatorio.
Udì nel telefono una notifica. Era una mail di suo padre, dal nuovo computer.
“Sto lavorando. Linea ottima, tutto perfetto. Buono studio, ti voglio bene. Papà”.
Mise via il telefono e continuò a marciare veloce verso la statale, distante mezz’ora dal paese. Laggiù, per decenza o per pietà, avevano lasciato una fermata del pullman. Tommaso era convinto che anche il pullman, un giorno, sarebbe tornato come un tempo su al paese.
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