Terzo 28
Tutte le edizioni > Edizione28
ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue genti, le storie di ieri e di oggi”XXVIII EDIZIONE Arcade, 5 gennaio 2023
Terzo classificato
IL PRIMO APPUNTAMENTO
di Rossi Alice
Livorno (LI)
Esiste un rapporto ancestrale ed antico tra l’uomo e la montagna. Da millenni esseri umani e monti si conoscono, interagendo silenziosamente sul filo tagliente di un equilibrio sottilissimo.
La montagna ha visto l’uomo nascere, benevola lo lascia da sempre avvicinarsi ai suoi piedi e con un sorriso leggero gli permette di avventurarsi sulle sue pendici, di poggiarle mani e piedi sui fianchi, di sfiorarle con occhi e cuore la cima più alta, velata di nubi come il volto sfuggente di una dama altera. Molto spesso poi ne respinge gli approcci, come una donna volubile sa essere dura e persino crudele con il suo amante umano; con improvvisi scatti d’ira la montagna può scacciarlo dal proprio corpo, spazzandone via i propositi con la rabbia irrefrenabile delle valanghe e la gelida indifferenza delle bufere. E l’uomo, l’uomo coltiva una tempesta di sentimenti nei confronti della montagna. La ama e la teme, le linee che disegnano le sagome delle alture sono per lui le funi che legano il suo cuore alla bellezza statuaria della montagna, le trame sottili che lo portano talvolta a consacrare tutta la propria esistenza a quell’amore rischioso. Quando questo succede, quando un uomo sceglie la montagna, quest’ultima diventa un modo di vivere, il filo conduttore di tutta un’esistenza. Giovanni, questa scelta, l’aveva fatta col cuore, un giorno lontano di primavera.
All’epoca, nella metà esatta degli anni ’50, aveva sette anni. Era un mattino primaverile, in cui la promessa della bella stagione sembrava finalmente vincere l’inverno. Ovunque, agli angoli delle strade, residui di neve perdevano biancore e compattezza, per trasformarsi in una scivolosa poltiglia marrone, in cui i bambini si divertivano ad affondare gli scarponi, bagnandosi i piedi e facendo infuriare le madri. L’aria iniziava ad addolcirsi sul far del giorno, quando i bambini di tutta la valle uscivano di buon’ora, cartelle enormi sulle spalle e piccoli passi saltellanti, per incamminarsi verso le scuole.
Le ore di lezione, in quel particolare periodo dell’anno, sembravano più che mai interminabili. Giovanni le ricordava bene: sedeva in terza fila, annoiato seguiva con i grandi occhi celesti i movimenti lenti della mano della maestra, che tracciava sul quadrante nero della lavagna perfette linee biancheggianti di gesso, che con mille ghirigori formavano lettere e poi parole, in un continuo disegno incantato. Giovanni registrava sovrappensiero la scomodità del sedile di legno che puntellava austero la sua schiena; sotto di lui, il quaderno ancora lindo in un muto rimprovero di pagine bianche. La sua indole curiosa quel mattino non trovava alcun interesse in nessun oggetto contenuto tra le quattro pareti di legno profumato della piccola aula; tutto il suo essere era attratto dalla finestra socchiusa posta in alto, alla sinistra della imponente cattedra. Nella fessura che essa formava, confine tra dentro e fuori, danzavano pulviscoli di polvere, galassie cangianti in continuo movimento. Il bambino le osservava estasiato, seguendone le evoluzioni nella luce dorata di un sole che cominciava a bagnare la valle con maggiore insistenza. Poco oltre, il suo sguardo incontrò il profilo delle montagne, incorniciate in un sapiente ritratto dalle linee della finestra, talmente belle da apparire come uno scorcio di plastica perfezione, una fotografia attaccata alla parete di legno. E invece erano lì, reali e vicine, tanto che allungando una mano sembrava di poterne saggiare le vette, acuminate ed aguzze come puntine da disegno. Giovanni avvertiva confusamente il vento che arrivava fino a lui, flebile e potente, che sembrava venire da lontano, portandosi addosso il profumo dei campi fioriti, alleggeriti finalmente dal peso della neve, degli abeti in risveglio, di piante sconosciute. E la montagna, Giovanni adesso lo sentiva chiaramente, lo chiamava a sé, con forza e dolcezza. Tante volte l’aveva osservata distrattamente, sovrappensiero ne aveva tracciato i contorni con matite colorate sui margini del quaderno; rappresentazioni infantili di alture e catene montuose incorniciavano i suoi compiti, in un confondersi di forme che gli erano costate più di un rimprovero da parte dei maestri. La montagna era stata spesso nella sua immaginazione e nei suoi occhi, ma soltanto adesso Giovanni ne avvertiva il richiamo nel cuore, come una fulminea rivelazione. La montagna lo aspettava.
L’idea era stata sciocca ed infantile. Se ne era andato. Senza permessi, ovviamente, senza neppure la cartella o il giubbotto, senza dir niente a nessuno se ne era andato. A dir la verità, aveva educatamente chiesto alla signorina maestra il permesso di andare in bagno: semplicemente, poi, il tragitto di Giovanni aveva subito una improvvisa deviazione, imboccando inaspettatamente la porta di accesso della scuola, fortunatamente sfornita in quel momento della ferrea sorveglianza di Mark, il custode che ogni giorno sorvegliava i bambini comporre file ordinate al momento dell’uscita. Come nel più classico fumetto di avventura, il signor Mark era provvidenzialmente assente nell’istante in cui il piccolo Giovanni, sette anni di vispa agilità, saltellava fuori dalla scuola, dritto verso la propria prima avventura in solitaria.
Come ipnotizzato, aveva attraversato il minuscolo centro paesano, evitando con cura le strade più affollate. Aveva costeggiato i binari dell’antico trenino che, costruito durante la Prima guerra mondiale da prigionieri russi e italiani, un tempo era stato arteria vitale del piccolo paese di montagna. Sebbene ancora in funzione, il trenino era diventato ormai perlopiù un simbolo del passato, e su quelle strette rotaie Giovanni e i suoi amici si divertivano a sfidare la sorte in giochi di insensata sconsideratezza: immobili, distesi sul freddo acciaio delle rotaie, attendevano il lento e cigolante avvicinarsi del trenino, per balzare quindi in piedi all’ultimo momento, appiattendosi contro la roccia della galleria e assaporando il gusto del proprio stesso coraggio.
Quel giorno, Giovanni non aveva tempo per i giochi; si era addentrato tra le strade più periferiche, aggirando masi isolati e iniziando ad inerpicarsi su argini di terreno sempre più scoscesi. Aveva quindi imboccato un sentiero, il cui percorso sembrava perdersi nel cuore verdeggiante del bosco. Fischiettando, col cuore leggero e il sangue rimbombante nelle orecchie, Giovanni aveva camminato per quella che gli era parsa un’eternità. Aveva saltato radici molli di umidità, guadato piccoli torrenti di acqua gelata, ed infine aveva abbandonato il sentiero, segnato dal passaggio frequente degli alpinisti, per imboccare la via dell’avventura vera e propria, che a quanto pareva si offriva soltanto all’intrepido esploratore che non avesse paura di cacciarsi in un intrico di arbusti e di rami pungenti. Giovanni aveva avanzato, sentendosi il primo uomo (bambino) al mondo a mettere piede in quel territorio sconosciuto, mai solcato prima da nessun essere umano. La sensazione gli piacque. Ancora non sapeva che anni dopo, da ragazzo e poi da adulto, avrebbe ricercato ovunque, ogni giorno, quella particolare adrenalina, quella emozione di sapersi solo, a contatto con la natura, inebriato da quel senso di meraviglia di fronte al disvelamento dell’inesplorato. Non sapeva ancora, Giovanni, che per tutta la vita avrebbe emulato quel bambino di appena sette anni che, gli occhi rivolti al cielo e i piedi infreddoliti stretti nelle scarpette leggere, camminava tranquillo lungo il pendio della montagna.
Nonostante l’esuberante energia dei suoi sette anni, Giovanni avvertiva adesso nei muscoli il peso di tre ore di cammino, mentre il ritmo accelerato del suo cuore gli imponeva una sosta. Si era appoggiato con una mano all’abete più vicino, e sollevando lo sguardo il respiro un attimo prima accelerato gli si era arrestato in gola. Davanti a lui si apriva un grande spazio circolare, in cui un prato verde e selvaggio frusciava nell’abbraccio secolare di abeti altissimi; ancora oltre, al di sopra delle ondeggianti teste degli alberi, a sovrastare la radura, il profilo azzurro dei monti. Giovanni ne aveva scorso con il ditino il contorno, aveva girato su sé stesso, gli occhi incollati ai monti, mentre il sole si divertiva ad accecarlo nascondendosi dietro la mole delle montagne. L’azzurro violento del cielo era della medesima tonalità degli occhi di Giovanni, ed in essi le cime aguzze dei monti si rispecchiavano come in un ruscello limpido. Fu allora che capì, che sentì per la prima volta di appartenere alla montagna. Essa gli parlava con la voce del vento, con il frusciare e il profumo del cirmolo, con i richiami degli uccelli, con la rapida danza di nuvole che aleggiavano attorno alle vette rocciose. Quella radura, così assoluta nella propria perfezione, così distaccata dal resto del mondo, lo aveva attirato a sé per offrirgli un messaggio. Lo aveva avvicinato irresistibilmente per presentarlo al cospetto della montagna, e per lasciare che egli si perdesse nella visione di lei. Era stata quella radura a far sì che lui e la montagna si scegliessero.
Il bambino avrebbe ricordato per sempre come, in quella mattina di inizio primavera, avesse respirato profondamente, lasciando che l’aria fresca gli solleticasse il naso, irradiandosi con forza nei polmoni. Aveva sentito sul viso la carezza rude del sole, e aveva iniziato a correre. La radura gli era sfilata rapida davanti agli occhi, in un confuso verdeggiare, e presto era stata alle sue spalle, mentre lui continuava a correre per sentieri e anfratti boscosi. Aveva corso per minuti, senza avvertire nessuna fatica, disordinatamente, rischiando ogni istante di cadere in burroni pericolosi. Aveva corso con la sconsideratezza illogica di un bambino, senza pensare a niente che non fosse l’avvicinarsi, metro dopo metro, a quella catena di montagne sorelle, collegate l’una all’altra a formare un girotondo attorno a lui. Quella corsa era stata il suo modo di dire sì, irrevocabilmente, alla montagna.
Alla fine, lo avevano fermato. Erano stati una coppia di vecchi escursionisti a trovarlo; vedendolo lo avevano subito riconosciuto, come era frequente che avvenisse tra gli anziani e i ragazzini del paese: tutti si conoscevano, tutti vivevano in una sorta di atmosfera familiare, quasi le distinzioni tra singoli nuclei familiari non esistessero.
I due uomini, impeccabili nelle loro tenute da escursione, lo avevano chiamato per nome, interrompendo la sua folle corsa. Dapprima avevano riso, di fronte al minuto bambino che si affannava verso chissà dove, la faccetta contratta in una stoica determinazione. Successivamente gli avevano dato da bere, controllando i graffi sulle sue braccia e chiedendogli il motivo di quella corsa sfiancante. Giovanni aveva risposto che, semplicemente, voleva vedere la montagna da vicino, toccarne la cima.
A casa, la mamma lo aveva accolto con un viso teso, ma in fondo ai suoi occhi il bambino aveva immediatamente intravisto uno scintillio di sollievo. Gli si era seduta accanto, sul piccolo divanetto posto sotto la finestra. I piedi di Giovanni non arrivavano a toccare il pavimento, e si muovevano nervosamente in un dondolio imbarazzato. La mamma lo aveva fissato a lungo, e il bambino si era aspettato parole di rimprovero che sottolineassero l’importanza della disciplina. Da quelle parti, e a quei tempi, l’educazione dei bambini era faccenda seria, e il senso del dovere qualcosa da fissare con forza nelle giovani menti. La donna, un fazzoletto rosso a raccoglierle i capelli, non era tuttavia stata dura.
«Tutta quella strada, tutto quel correre solo per avvicinarti alla montagna?». La sua voce era dolce, ma in essa risuonava una serietà inaspettata.
«Sì… era bella, mamma, e volevo arrivare su, in cima…». I piedini del bambino si muovevano adagio, dondolando avanti e indietro.
La donna aveva sospirato, il suo sguardo era corso a una immagine in bianco e nero, un ritratto di un uomo, incorniciata sul piccolo comò d’abete. L’uomo nella fotografia era giovane, aveva grandi occhi chiari e uno sguardo penetrante. Indossava dei pantaloni larghi, stretti al polpaccio da spesse calze di lana, e un cappello da alpinista; dietro di lui, nel grigio lattiginoso dell’immagine, si intravedeva il profilo minaccioso delle montagne.
«La montagna è bella, Giovanni, ma sa essere pericolosa, quando le ci si avvicina troppo. Ricordi, l’estate scorsa, quel gatto randagio che avevi trovato? Era bellissimo, ma non si lasciava accarezzare; non appena qualcuno allungava una mano, mostrava i denti soffiando. A volte, le cose sono più belle se guardate da lontano».
Giovanni ci aveva pensato su. «Non so, questa mattina nessuno mi ha mostrato i denti. Ho soltanto trovato un posto speciale, ho alzato lo sguardo e ho pensato che lassù dovesse essere ancora più bello. Mi sentivo come mi sento qui,» le manine avevano indicato il rustico salotto, ingombro di mobili di legno, coperte di lana e fasci di erbe aromatiche appesi ad essiccare «a casa».
La mamma aveva sorriso del suo abituale sorriso delicato, che le increspava appena le guance ancora lisce. «Sei ancora troppo piccolo per conoscere la montagna. Con gli anni, chissà, potresti cambiare idea, e fare della tua vita qualcosa di completamente diverso. Un giorno, forse, vorrai esplorare il mondo che si estende oltre l’abbraccio delle nostre montagne. Potrai essere tutto quello che vuoi, compreso un uomo delle montagne. Un alpinista e un esploratore. Come tuo padre,» la sua voce, qui, si era incrinata leggermente. «Prima, però, sono tante le cose da fare».
La donna si era alzata e, avvicinatasi all’ampio tavolo, aveva ripreso ad occuparsi dei mazzi di erbe aromatiche che vi aveva abbandonato. Le sue mani forti, forgiate da anni di lavoro, si muovevano rapide, afferrando ampi fasci di rosmarino, timo, menta. Nella luce, cangianti pulviscoli di polvere si univano alle foglie aromatiche che sfuggivano alla presa del legaccio, in una danza profumata. Il bambino dondolava i piedini, e guardandosi attorno notò, attraverso il dorato riquadro della finestra, la sagoma massiccia del Sasso Lungo, che azzurro, da lontano, faceva capolino nel salotto, quasi a rivolgergli un ammiccante saluto.
«Quali sono queste cose da fare, mamma?».
Lei aveva appena sollevato il viso stanco dalle erbe, e gli aveva rivolto uno dei suoi sorrisi enigmatici, dolce e triste. «Semplicemente, Giovanni,» aveva detto «devi crescere».