Storia di un alpino, di... - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Storia di un alpino, di...

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XXII EDIZIONE - Treviso, 8 Gennaio 2017
Segnalato

Storia di un Alpino, di un mulo e di un bambino

di Martina Pastori - Rho (MI)



«Un passo ancora, Antonio.» Sentii un sorriso incrinare il ghiaccio che mi copriva la faccia. «Un altro ancora.»
Ero stato io a battezzarlo così: Antonio, in onore del patrono di Padova, la mia città. L’avevo scelto quasi inconsciamente, quel nome, tornando con la mente a quando mia madre, prima di lasciarmi uscire di casa, m’infilava nella tasca interna della giacca, vicino al cuore, l’icona un po’ unta del santo, da baciare con labbra devote.
Sant’Antonio dalla barba bianca, proteggici tutti, ripeteva, come una litania.
Antonio: un nome con una storia, un nome importante. Non certo un nome da mulo. Eppure ad Antonio, al mio Antonio, con le sue orecchie mobili, i suoi occhi liquidi, tondi tondi, quell’appellativo calzava a pennello. Era stato il destino, a unire i nostri cammini: un giorno tra tanti, girovagando in cerca di cacciagione, ero incappato in un frantoio per metà mangiato dal fuoco. Non so dire cosa mi spinse a fermarmi, ma lo feci, la porta era scardinata, e io entrai. Il pavimento, cosparso di farina, creava un contrasto surreale con le pareti di legno nero, corrose dalle fiamme. L’odore di fumo mi prese alla gola, cominciai a tossire. Notai Antonio soltanto quando i miei occhi si furono abituati alla semioscurità: se ne stava lì, più morto che vivo, con il rosa del dorso ben visibile sotto il velo sottile del pelo bruciato. Non era potuto scappare, perché il meccanismo della macina lo teneva ancorato al frantoio; aveva provato a ragliare, forse, ma nessuno l’aveva sentito, nessuno si era ricordato di lui. Mi avvicinai con cautela, senza toccarlo, lo liberai dalle cinghie, lo spinsi fuori, dolcemente ma con fermezza, benché non ce ne fosse bisogno: era fiacco, indifeso, zoppicava sulle gambe malferme. Non avrebbe potuto ribellarsi neppure se avesse voluto.
Lo portai al campo. Erano tempi difficili, quelli; l’inverno raggelava il terreno e uccideva i frutti della terra, gli animali, intimiditi dal freddo, andavano in letargo per mesi nel buio delle loro tane. Avevamo poco o niente da metterci sotto i denti. Marciavamo senza posa, e i giorni scivolavano via tutti uguali a loro stessi, grigi, scialbi, eterni. Qualcuno, mentre camminavamo, si chinava a disseppellire un filo d’erba soffocato dalla neve, per poi metterselo tra le labbra, e succhiarne tutta la linfa. La notte, potevi sentire gli stomaci vuoti, profondi come pozzi, borbogliare nel silenzio, e le mascelle serrarsi e disserrarsi, aprirsi e chiudersi, nel tentativo disperato di masticare, in sogno, un cosciotto di pollo, o un po’ d’arrosto, magari, o anche solo un pezzetto di formaggio, un tozzo di pane.
Quella sera, quando mi videro tornare al campo con un mulo, si presero gioco di me.
«Giuse’, hai trovato un amico?»
«Faccelo conoscere, Giuse’!»
La nostra squadriglia era partita quasi un mese prima, diretta al passo dello Stelvio. L’inverno ci rallentava, le ripetute tormente ci avevano tenuti fermi per settimane intere. All’inizio eravamo in trentasette: ora, venticinque giorni, cinque notti di tormenta e tre scontri a fuoco dopo, di noi restavano quindici uomini. Uomini stanchi, scorati, famelici, con gli sguardi traboccanti degli orrori della guerra.
Eppure, qualcuno aveva ancora voglia di ridere, di scherzare. Malgrado i crampi alla pancia, e le dita dei piedi congelate. Circondarono il mio mulo e gli misero in testa un cappello da alpino, rigido, incrostato di sangue. Era appartenuto a un compagno d'armi caduto la prima settimana, Frank, un ragazzone italoamericano con le guance rubiconde. Non parlava molto, cantava e basta. Cantava canzoni d’amore.
«Lasciatelo in pace», sbottai, facendomi largo tra la calca e buttando per terra il berretto di Frank. Presi il mulo per la cavezza e me lo trascinai appresso, oltre il campo, fino al torrente. Le risa degli altri, in lontananza, erano attutite dallo spesso strato di neve che vestiva ogni cosa – i rami dei pini, le rocce, i licheni, i sentieri, le tane dei conigli, ogni cosa.
Guardai Antonio. Era talmente magro che le costole sembravano volergli bucare la pelle. Aveva gli occhi vuoti, come noi, come tutti noi, e fu allora che decisi che l’avrei chiamato così, Antonio, perché in guerra non importa se sei un uomo o un mulo, in tempo di guerra hanno tutti gli stessi occhi asciutti, prosciugati dal dolore, dagli stenti. Mi chinai sul mio zaino, ne estrassi la gamella in cui, quando trovavo di che sfamarmi, consumavo il pranzo, la riempii d’acqua e ci intinsi lo straccio che usavo per pulire il mio sei colpi. La passai sul pelo di Antonio, fino a togliere ogni residuo di cenere, ogni ricordo del fuoco. La sua groppa era un reticolato di cicatrici, alcune più fresche e in rilievo, altre più piatte e sbiadite. Segni di colpi di frusta. Mi chiesi se davvero l’incendio, giù al frantoio, fosse la cosa peggiore che avesse passato.
Quando lo ebbi ripulito, lo indirizzai verso il torrente e provai a farlo bere. Il suo attaccamento alla vita è per me qualcosa di miracoloso, un istinto innato, un amore viscerale e di origini sconosciute. Ci impiegò un po’, ma poi Antonio si avvicinò al torrente, vi immerse gli zoccoli anteriori e bevve, bevve con avidità, con la foga del ramingo che assapora l’acqua dopo giorni nel deserto. A un tratto si mise persino a brucare, il muso rasoterra, sfilando steli d’erba e di gramigna dal terreno innevato. Io assistevo, stregato, immobile, allo spettacolo della natura che si ribellava davanti al mio viso profano, con tanta concentrazione, con tanto coinvolgimento che quasi mi dimenticai come si respira.
Sono grato ad Antonio. Quel giorno, il giorno che lo incontrai, lui mi salvò.
Accadde al crepuscolo. Una sortita. I nemici li colsero di sorpresa, strisciarono fuori dal bosco coi fucili imbracciati, e fu facile, più facile del previsto. I miei compagni erano seduti intorno al fuoco, con l’acquolina in bocca e gli occhi appiccicati a quel poco di selvaggina che eravamo riusciti a cacciare da quando la tormenta si era spenta. Nessuno sopravvisse; neanch’io l’avrei scampata, se fossi stato lì con loro, nel campo. E invece mi trovavo a duecento metri di distanza, a guardar bere un mulo, e non appena capii quello che stava succedendo ebbi tutto il tempo di trovar riparo dietro il tronco di un grosso abete, in un incavo del legno, abbracciato al ventre tiepido di Antonio. Aspettai. Col cuore morto in petto, le mani ficcate sotto le ascelle e i denti che battevano, aspettai finché non distinsi più nessuna voce umana intorno a me, nessun grido, finché non sentii le volpi grufolare nel sottobosco e le civette cantare, aspettai finché non persi sensibilità nelle gambe e nelle guance e nel naso. Antonio respirava piano. Puzzava di sterco e di fuoco. Aspettai finché il cielo, da nero, non si tinse del rosa pallido dell’alba, e poi mi rimisi in piedi, e avevo fame e caldo, e le lacrime che avevo pianto per i miei compagni, ormai ghiacciate, mi incollavano le palpebre, rendendomi impossibile aprire del tutto gli occhi. Non era un buon segno, che avessi caldo: ricordavo di aver letto da qualche parte che la sensazione di tepore è uno degli ultimi stadi dell’ipotermia. Scacciai quel pensiero e ripresi il cammino da dove l’avevamo interrotto qualche giorno addietro. Non volli passare dal campo. A che scopo?, mi dissi. Per vedere nuova morte, nuovo sangue? Avrei forse dovuto fare rifornimento di cartucce, ma non trovai il coraggio di tornare indietro. Semplicemente, con Antonio al mio fianco, Antonio che non capiva quel che era successo o forse sì, camminai. Camminai finché i piedi non mi fecero male.
Sul far della sera giunsi in vista di un villaggio. Un gruppo sparuto di case, arroccate su una collina alle pendici della montagna. Capii subito che c’era qualcosa che non andava: le luci erano tutte spente. Non una finestra illuminata, non una fiaccola, non un falò a rischiarare la penombra. Eppure, incurante dell’odore subdolo di pericolo che fiutavo nell’aria, trascinai Antonio fin sulla collina.
Non c’era nessuno.
Il rumore dei nostri passi sul selciato squarciava il silenzio, rimbalzava tra le file parallele di casupole in pietra, si tuffava nel cielo. Le porte delle botteghe, aperte sul nulla, seguivano i nostri movimenti come sentinelle golose. Oltrepassammo una cappella. Una stalla, un pozzo, delle aiuole di fiori stinti, rugosi. Il negozio di un fornaio, e un calzaturificio. Le finestre, orbite cave, aperte a squarciagola, inghiottivano tutte le sfumature della notte. La nebbia sfocava i profili dei tetti. Una nebbia pastosa, di quelle che mangiano i rumori e s’incastrano nelle narici. Poco più a destra del sentiero giaceva un carretto di frutta, sdraiato su un fianco, come una carcassa spolpata. D’un tratto mi accorsi di aver calpestato qualcosa, qualcosa di morbido. Mi chinai sui calcagni. Una bambola, col sorriso sghembo e un solo occhio. Tolsi la terra dal suo vestito le lisciai la gonna. Dov’era la bambina che l’aveva posseduta? La bambina che l’aveva coccolata e vestita, la bambina che le aveva intrecciato i capelli?
«Dove sono tutti?», mormorai, e la mia voce, nel silenzio, suonò potente come un grido. Antonio non rispose. L’aria, appena fuori dalle sue narici, si coagulava in nuvolette di condensa.
Non impiegai molto a scoprirlo. Percorsi per intero la via che tagliava in due il villaggio, e lì, in una piazzetta rotonda, con una croce della peste nel mezzo, li trovai. Non restavano che corpi – corpi vuoti, leggeri, corpi cui avevano strappato a forza la vita, dilaniati e muti, ammassati gli uni sugli altri, coperti da un velo di neve. Avrei voluto piangere, ma i miei occhi erano asciutti, impietosi. Così, pregai. Pregai per quelle anime innocenti, e per i loro carnefici, e per me, e per Antonio. Fu allora che Dio scese dal cielo e dirottò il mio sguardo ai piedi della croce della peste, su un cesto in vimini coperto da un panno azzurro. Scavalcai i cadaveri, un passo dopo l’altro, fino a raggiungerlo. Poco più in là giaceva scompostamente una giovane donna, una cascata di ricci neri in testa, la pelle tanto pallida da lasciar intravedere il blu delle vene. La sua mano, rigida nell’abbraccio della morte, stringeva ancora il manico del cesto in vimini. Non fosse stato per il bocciolo insanguinato che le fioriva sul petto, tra i seni, si sarebbe detto che dormisse.
Quando sollevai la stoffa azzurra, umida di neve, non potei fare a meno di trasalire. Vi trovai un paio d’occhi color nocciola, venati di striature più scure. Appartenevano a un neonato florido e rosso, con alle spalle al massimo un paio di mesi di vita, e un abitino di lana indosso. Non piangeva; mi guardava, e basta. Sono pronto a scommettere che, se avessi dischiuso gli occhi della donna dai capelli scuri, li avrei scoperti della stessa gradazione di marrone.
Era il secondo miracolo cui assistevo di lì a due giorni: un bambino sopravvissuto alle insidie della guerra, protetto dall’abbraccio freddo e misericordioso della morte. Lo presi con me. All’epoca avevo più di vent’anni, e coi bambini non ci sapevo fare neanche un po’. Quella notte io e il neonato la trascorremmo in una casa composta da una sola stanza, con la porta d’un rosso vivo. Al centro troneggiava un tavolo logorato dall’uso; in un canto dormivano dei giacigli di piuma e fieno. La tavola era apparecchiata per tre persone, una forma di pane vi riposava nel mezzo, la zuppa stagnava nei piatti. Indugiai su ogni oggetto, la lumiera con le candele consumate, uno spartano abito da donna, riverso sul dorso di una sedia, i sacchi di frumento accatastati contro il muro, a riposo. Mangiai un po’ di pane e due gamelle di zuppa. Il bambino, adesso, dormiva nel suo cesto, mentre Antonio, impastoiato all’ingresso, sbirciava all’interno attraverso la finestra corrosa dal tempo. Accesi un fuoco nel camino sporco di fuliggine, e poi mi sedetti al tavolo, con la testa tra le mani, a pensare.
I nemici avevano ucciso il bestiame. Il neonato doveva essere nutrito, ma dubitavo che avrei trovato del latte. I miei compagni erano morti. La montagna mi chiamava, lo Stelvio mi aspettava, il mio Paese, quell’Italia che avevo tanto amato, e la mia Padova, con le sue vie di sampietrini e le statue di sant’Antonio incastrate in ogni angolo, avevano bisogno di me. Dovevo abbandonare il bambino e proseguire per la mia strada. Questa certezza mi colpì come una folgorazione. Mi alzai di scatto, la sedia strusciò sul pavimento, dovevo andare, c’era poco tempo, dovevo raggiungere gli altri al passo, dovevo farlo per i miei commilitoni, per quelli che erano rimasti indietro.
Il rumore svegliò il bambino. Aprì gli occhi impastati di sonno, e cominciò a piangere, il viso stropicciato, agitando le manine per aria. Cercai di calmarlo, gli rimboccai le coperte, e fu allora che una delle sue piccole mani rosse si chiuse intorno al mio dito indice, e lui smise di piangere. Un brivido mi percorse la schiena. Sembrava che mi chiedesse di non lasciarlo solo, di non andare.
«Ma io devo», mormorai, scuotendo il capo. La presa del piccolo, intorno al mio dito, si fece più stretta. «Devo.»
Fu allora che capii: capii che, forse, la vita non è poi così insensata. Che se ci si sforza, e si aguzza la vista, si può scovare un fondo di logica, in quel che succede. Che, forse, ero sopravvissuto per un motivo; che, forse, avevo trovato Antonio per un motivo; che, forse, anche quel bambino, unico superstite di un intero villaggio, viveva per una ragione: perché io potessi trarlo in salvo. Da solo non ce l’avrei fatta; ma non ero solo: c’era Antonio, con me. Eravamo una congiunzione vincente: tre figli del fato, destinati a salvarsi l’un l’altro.
Sapevo cosa dovevo fare, adesso.
Avvolsi il neonato in tutte le coperte che trovai, e lo adagiai nel suo cesto. Raccattai delle provviste, le caricai sul dorso di Antonio. Nevicava fittamente, ormai. Fiocchi perlacei, pesanti. Prima di lasciare il villaggio carezzai lo Stelvio, lontano, con un’ultima occhiata. Chiedevo perdono: alla montagna, ai miei compagni.
C’incamminammo. Il velo bianco s’ispessiva intorno a noi; nel nero della notte, solo il silenzio.
Le mie gambe erano sul punto di cedere, ma resistettero. Il bambino taceva. Antonio tremava. Per il freddo, per la fatica.
«Un passo ancora», gli ripetevo, nel buio, nella neve. «Un altro ancora.»
Aosta non era lontana. Forse, dopotutto la guerra non era la mia strada.
Forse la mia, di strada, era quella della vita.
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