Si fa sera sotto i monti del sole
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”XVII EDIZIONE - Arcade, 5 gennaio 2012
Segnalato
Si fa sera sotto i monti del sole
di Angelo Francesco Paloschi - Mestre (VE)
L’evento si ripete ogni giorno, in quell’attimo esatto in cui il sole scivola dietro le creste e concede la valle al crepuscolo. Il canto degli uccelli si attenua, la natura si ferma in allerta e per qualche minuto di sconcerto un vento si mette a scuotere il bosco. Anche d’estate, mentre l’aria ristagna pesante sulla superficie piatta del lago del Mis. Il vento viene, in un silenzio furtivo, increspa il bacino fattosi cupo nell’ombra e porta scompiglio tra la vegetazione. E’ aria bizzarra, che scorre di fretta, non sopravvive al buio della sera. Sgorga improvvisa dall’Orrido della Soffia, là dove il rombo di un’acqua tersa e nevrotica sembra il preludio della catastrofe. Il bosco sferzato rilascia un lamento. Alzando gli occhi ai dirupi si scorgono i profili di due pini neri, uno slanciato nel cielo, l’altro più esile, meno sicuro. Le punte oscillano insieme nel vento. I tronchi son fusi alla base, fino all’ascella dei primi rami i fusti hanno la pelle in comune.
Dicembre 1918. Una donna ubriaca saliva barcollando dall’abitato di Gena. Si faceva sera presto e la donna farfugliava da sola nella luce fioca, la bottiglia di vino instabile fra le dita. Il paese era alle spalle, con i vicoli pietrosi avvolti nel silenzio. Tra le pareti spolverate di neve un remoto scrosciare di acque. La donna aveva il passo incerto e i piedi nudi, i ciottoli ghiacciati della sterrata scorticavano la pelle. I capelli grigi disciolti nel vento si abbattevano sul viso come una manata.
Quel giorno nella valle si era ritirato il Signore, vi era sceso per prendere una decisione gravosa. La guerra brutale che era appena finita aveva cosparso di sangue le montagne, spingendo l’orrore fino alle quote concepite per pregare. Con lo sguardo assorto tra le creste, il buon Dio ripensava alla storia degli uomini. Aveva l’animo esasperato e gonfio di tristezza e si apprestava a imboccare una via definitiva. Doveva stabilire una volta per tutte se sopprimere il mondo con tutto ciò che lo abitava.
Nel deserto dei boschi un’intrusione impertinente. La donna con la bottiglia in mano sudava freddo, ansava affaticata e ogni tanto si fermava. Trangugiava un sorso, sputava per terra e ripartiva, arrancando malsicura sui piedi feriti. I costoni di calcare le giravano negli occhi come sagome di spettri. La strada saliva ripida, il fondo era reso scivoloso dal ghiaccio. La donna masticava tra i denti parole inconsulte, brandelli di frasi oscene nell’alito pesante. I comunicati del sindaco le erano giunti scaglionati, l’ultimo il giorno prima, a guerra finita. Quello relativo al figlio più grande. La guerra… Le aveva preso il marito e tutti e tre i figli maschi. Dichiarati dispersi, sepolti chissà dove in qualche fossa comune. La patria si gloriava dei quattro caduti mentre a casa la polvere invadeva le stanze. La donna beveva troppo, non aveva neanche più rifatto i letti. Uscendo nella penombra del fondovalle aveva lasciato il bicchiere vuoto sul tavolo del tinello, il focolare acceso, la porta di casa aperta a cigolare nel vento. Adesso le ultime braci sfrigolavano nel caminetto.
I ricami bianchi sui rami e sulle rocce trasfondevano dolcezza nella vallata. Nell’acqua diafana delle marmitte d’evorsione transitava fugace l’ombra del Signore. Errava meditabondo tra i pendii solitari e sfiorava il bosco con il palmo della mano, lisciando distrattamente le sue creature. Sotto il passaggio di quella carezza inaudita gli scheletri degli arbusti incrostati di ghiaccio si torcevano in cento fruscii e vagiti legnosi. Le cime arruffate dei sempreverdi mollavano turbini forsennati di nevischio. Il fondo di ogni anfratto celava un tremito d’ansia, gli animali rintanati nei buchi del suolo attendevano impotenti la grande decisione.
Il Signore vide la donna sulla strada. Il lamento sguaiato corrompeva il silenzio. La mano divina che sfiorava il bosco sveltì nervosamente il proprio andirivieni, portando il tumulto tra le fronde delle piante. Le ultime foglie secche appese ai rami dall’autunno vennero spazzate in grandi sciami nel cielo. Simili a fruste di violenza inconcepibile le cascate del Brenton si agitarono nell’aria, prima di ripiombare nel flusso dei cadini con un grande fragore di spruzzi e di schiuma. Non restava che decidersi, valutò il Signore placando la mano. Avrebbe cominciato l’opera dalla montagna, dov’era stata stipulata l’alleanza con l’uomo. Avrebbe sradicato la verde pelle dei pascoli, avrebbe spinto le pareti a crollare sulle valli, smembrato e ribaltato gli strati geologici che aveva sovrapposto nei milioni di anni.
La donna era giunta presso il ciglio di un dirupo e dopo una breve attesa con cui riprese fiato, portò il collo della bottiglia a pigiare le labbra. Con i capelli untuosi appiccicati sul volto svuotò avidamente l’ultimo goccio. Fece un sogghigno d’appagamento e gettò di sotto il vetro, vacillando annebbiata sulle gambe esauste. I frantumi tintinnarono rimbalzando sulle rocce. Dal fondo della forra saliva il rombo furioso dell’acqua. Una bava violacea sporcava il mento della donna, il sangue imbrattava i piedi tumefatti. Il vento le agitò la zazzera e portò a disperdersi lontano la serie di bestemmie biascicata tra i denti.
Squadrò lo strapiombo con gli occhi umidi, lo sguardo alterato pieno di disprezzo. L’alcol le bolliva nelle vene, sulla pelle ancora giovane il sudore non raffreddava le vampate di calore. Le braccia gracili si sollevarono, appesantite dalla stanchezza. Incominciò a spogliarsi, con penosa fatica, tolse il golfino senza slacciare i bottoni, levò i miseri strati di stoffa consunta, la gonna di lana grossa, la fascia che conteneva il seno. Rimase nuda e magra nell’aria gelata, gli indumenti sparsi sullo strato di neve. Liberò la gola con due colpi di tosse e guardò distante, penetrando il vuoto. Un verso di strega scivolò nella valle, insinuandosi tra i versanti scompigliati dal vento, scendendo alle case animate di sussurri, e più in là verso Sospirolo, in direzione di Sedico, fino a mescolarsi al mormorio sordo del Piave.
Il Signore Dio aveva fermato la mano e il bosco tutto insieme aveva smesso di ondeggiare. Si strinse nelle braccia, racchiudendo il cosmo intero in un dolore. Dal cielo incominciò a cadere una neve leggera che si posò sulla testa grigia della donna, sulle palpebre abbassate, sulla pelle intorpidita. Freddo come una salma svuotata da tempo della vita, il corpo nudo avanzò esitante verso il limite del precipizio.
Un fremito scosse l’atmosfera ghiacciata. Il Signore si concentrò negli atomi dell’aria e del terreno, e si fece organismo davanti alla donna. I boschi tacquero, la neve smise di colpo, le acque dei torrenti scorrevano ammansite. Un’immensa ombra muta avvolgeva la montagna. La donna spinse i passi alla cieca verso il vuoto ma urtò addosso a un albero che prima non c’era. Spalancò gli occhi d’impulso, le girava la testa. Si abbandonò confusa sul legno caldo di vita, con le braccia tremanti che cingevano il tronco. Alle spalle dell’albero si apriva lo strapiombo.
Lo scroscio inesauribile perforava le valli. Il pino nero abbarbicato su un’unghia di roccia distendeva i rami profumati nell’oscurità della sera. La schiena nuda della donna era appoggiata alla corteccia, le gambe intirizzite raccolte sul petto. Il respiro disegnava piccole nuvole nell’aria invernale, che gli occhi gonfi e indeboliti guardavano sfumare. L’impeto che la rodeva si era calmato. Le palpebre si chiusero schiacciando fuori una lacrima. Il Signore trattenne la valle in una quiete perfetta, affinché il sonno della donna non fosse disturbato.
Accade tutte le sere, alle falde boscose dei monti del Sole, quando il chiarore si stempera piano nel buio e gli uccelli riattaccano il concerto dei richiami. Inspiegabile come quando è venuto, il vento poco dopo si placa. Un’atmosfera di quiete avvolge la vallata, le pareti calcaree sorvegliano la pace del lago e il rombo delle cascate sembra meno spaventoso. La sagoma dei due pini neri saldati alla base si staglia ferma tra il cielo e la soglia del vuoto, sospesa sulla voragine quasi per mistero. Gli schiocchi e i cinguettii punteggiano la sera e un senso di ristoro placa ogni apprensione.