Segnalato 7 30 - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Segnalato 7 30

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

"La Montagna:le sue genti , dalla storia all’ attualità"

XXX EDIZIONE Teviso, 11 gennaio 2025
Segnalato
La ragazza col mitra
 di Sartor Silvia
 Bassano del Grappa (VI)
 
 
È salita una mattina di giugno. Le spighe pronte e i papaveri appena sfioriti, le stalle ad arieggiare vuote e i vecchi e le donne sui campi a volteggiare il primo fieno.
Ha fatto di testa sua. Al solito. Si è detta vado, si fa quel che si deve per potersi guardare allo specchio, un domani.
Prima di andare, la montagna l’ha guardata dal cortile di casa. Quante volte aveva alzato lo sguardo verso quella sagoma di madre silenziosa, quel verde fondale di forme tormentate da forre, costoni e contrafforti che si inerpicano dalla pianura.
Ma stavolta era diverso e, guardandola con la testa di poco piegata di lato, ha sorriso per via di quella contentezza mista a paura che si è sentita dentro. Era chiaro appena e quel profilo, così familiare che poteva disegnarlo a occhi chiusi, la rassicurava. Si sentiva reclamare con un richiamo calmo e convinto, come la gatta chiama i suoi piccoli.
In tutto quel rinverdire, ha pensato scrutando la boscaglia, tra i castagni e più su tra i faggi, mi ci saprò confondere. Ma non aveva l’aria silvana di quelle creature leggere ed evanescenti che ai filò si diceva sapessero non farsi vedere. No. Lei aveva poco di selvatico e a nascondersi avrebbe imparato, anche se nascondersi non le bastava.
S’era procurata un mitra. Non era stato difficile. Prima si era accordata con la Gianna che era abituata a trasportarne due per volta, smontati, dalla pianura alla montagna. La Gianna avrebbe dovuto lasciargliene uno per poi inventare qualche valida scusa a quelli della Matteotti. Se vado in montagna devo pur potermi difendere, le aveva detto, tanto quanto un uomo. E la Gianna non aveva mica fiatato, perché Livia la conosceva bene e la credeva di certo capace di sparare e uccidere, senza tante cerimonie. Tanto quanto un uomo.
Poi Livia aveva avuto un’occasione d’oro, quella volta dell’assalto al ministero della RSI, a pochi passi da casa sua. Si era precipitata lì dopo la sparatoria e in mezzo a quella gazzarra, senza farsi notare dai partigiani ancora in subbuglio, aveva sfilato un mitra dalle braccia di un repubblichino morto. Come la poiana si era precipitata silenziosa e svelta su quel corpo. La gonna del vestito a fiori di mussola era atterrata sul morto, gonfiandosi un po’.
Non lo aveva neppure guardato in volto, quel ragazzo. Le mani sì, quelle gliele aveva guardate perché aveva dovuto prenderle e spostarle, ed erano mani da ragazzo.
Sulla camicia il colore vivo del sangue si allargava velocemente. Ma farsi impressionare non serve e subito a respingere l’idea che quel sangue era uguale al suo. Non è vero che siamo tutti uguali, si era detta alzandosi col mitra imbracciato e il bordo del vestito macchiato di sangue. La carne che fa da involucro è la stessa, ma si è presa una posizione, ci si è schierati da una parte e la vita interiore è diversa. Con quel pensiero era corsa via a far svolazzare tra raffiche e bestemmie il vestito a fiori.
Sicché in montagna s’è presentata col suo mitra. E i pantaloni. Quelli li aveva portati via a suo fratello. Come la cintura che arricciava il fustagno sulla vita stretta.
Il primo giorno erano stati occhi sgranati e bocche divertite, ma poi quelli che l’hanno vista sparare hanno zittito gli altri. La settimana dopo la Livia col mitra e i pantaloni aveva smesso di creare scompiglio. Solo i nuovi che arrivavano lì per lì rimanevano ingessati, ma poi anche loro se ne facevano in fretta una ragione. Sicché non si è più parlato del suo esser donna, ma della mira e del piglio che prendeva sparando.
Anche la montagna le mostrava garbo, lo sentiva nel sole sulla pelle, nelle folate di pulviscoli verdi e aromi di artemisie e cumo. E soprattutto in quell’ora di luce più bella, quando nei prati la sommità delle erbe in controluce, mescolata alle infiorescenze e ai viola delle campanule e dei cardi, si tingeva di arancio e rosa. Certe farfalle nere, Livia si fermava a guardarle ballare a intermittenza tra steli, pennacchi e ombrellifere bianche. Era l’ora dei rondoni a caccia, dei voli fatti di rapidi colpi d’ala e agili planate.
Dormire nelle buche non era difficile, bastava non pensare che quella fredda terra di morti ne aveva già visti tanti. E quei morti, dal profondo della terra fredda, dicevano di rimanere e restare vivi.
Da subito le era stata ceduta una coperta e di notte era suo il posto meno umido. Come il rancio più abbondante, che era comunque scarso. Bisognava del poco far parti, ma quando si è in troppi a spadroneggiare è la fame. Per Livia quella fame del diavolo è stata una cosa nuova perché, se sei figlia di benestanti, la fame non si patisce mai davvero.
Mischiarsi agli uomini, tutti magri, sudici ma puliti dentro, le dava una certa leggerezza, qualcosa di mai provato che le piaceva, una sconosciuta libertà che la montagna rendeva ancora più dolce coi profumi di erbe e il cielo spazzato di nubi.
La montagna concedeva tutto un altro modo di stare al mondo e c’era da fidarsi di quegli uomini irregolari che tentavano di darsi regole per stare e fare assieme. Lassù i bocconi, seppur pochi, non rimanevano nel gozzo e si poteva pensare di contare quanto un uomo, per di più libero. E a remengo quel che pensavano di lei in paese.
Poi c’erano certe giornate di caìo, col sole che non riusciva a bucare le nuvole. Anche quelle erano ore belle, perché la montagna ovattava e lusingava, e allora la distanza con la casa e il paese e le perquisizioni, gli interrogatori, le torture, diventava folta e bianca.
Anche il sacrario spariva dietro la nebbia. Le ossa smettevano di parlare e l’imponente architettura perdeva le sue forme abbraccianti. Sembrava di non avere più luoghi, si poteva pensare di essere altrove, in un tempo senza guerra dove non serve affannarsi e nascondersi e tenersi cara la vita.
Non era avvezza a pensare a casa ma, dopo l’arresto di suo padre e sua sorella, toccava farlo.  Toccava interrogarsi su cose mai dette in famiglia, su confessioni urlate e ignorate, su sensi di colpa da rimandare indietro perché indietro non si torna.
Una settimana dopo la partenza di Livia, li avevano caricati su un camion e portati in questura. Lei non lo aveva rivelato, ma in famiglia si sapeva che era salita in montagna e mai l’avrebbero confessato. A casa sua erano fatti così e le cose si sapevano lo stesso, senza dirsele.
A conoscerla più di tutti era sua madre. “Se vai, non torni”, le aveva detto facendo un verso nella gola e con la testa un poco affondata nella spalla. Nella voce Livia non aveva sentito giudizio, c’era anzi quasi esortazione in quel suo ammonire sgarbato e commosso. “È sanguigna, come suo padre” di lei diceva agli altri la madre, “Fa di testa sua, come suo padre. Non ci posso far niente”.
Livia sentiva questa punta d’orgoglio nelle parole della madre che da troppo faceva finta di niente, ma di dar da mangiare a quella masnada di fascisti del ministero non ne poteva più. Sarebbe forse scappata anche lei. Buttare tutto alle ortiche, via di casa e dall’albergo, via dal paese. Ma figuriamoci.
“Vado avanti io, mamma. Lo faccio io”, avrebbe voluto dirle, ma tra la madre e questa sua figlia ostinata c’era una confidenza da sempre negata, come se ad esprimerla si facesse peccato.
Col marito in carcere e una figlia in montagna per la donna è stata dura. Prima chiusa la macelleria che gestiva il padre, poi l'albergo requisito; le avevano lasciato appena due stanze, per sé e i figli maschi.
Livia aveva digrignato i denti e si era sentita l’intestino raggomitolarsi quando la Gianna era salita per raccontarle di casa: i fascisti continuavano a sfondare le porte spintonando i fratelli, allungavano il mento verso il palo della luce davanti all’albergo e abbaiavano alla madre “Lì impicchiamo tua figlia”.
A saperlo, Livia si era come inferocita. Era sempre a dire sì, anch’io, sono capace anch’io di uccidere, se serve. Voleva essere alla pari degli uomini in tutto e per tutto. Andava anche lei a fare qualche azione giù nei paesi, all’inizio il comandante l’aveva raccomandata di stare indietro e farsi coprire, poi ha smesso perché la tosa faceva di testa sua.
Di restare quassù a non far niente non se ne parla, diceva.  Sicché si era incaponita di imparare ad usare il plastico ed era finita per insegnarlo agli uomini che scendevano a sabotare. Il plastico era una novità per tutti e lei ci aveva preso mano: lo impastava come si fa col pane, sapeva inserire il detonatore e attaccare la miccia a combustione lenta o veloce. Più di una volta era voluta scendere con la squadra dei sabotatori che le avevano lasciato la soddisfazione di posizionare il plastico sulle rotaie.
Sembrava non far fatica, non patire la fame e il sonno, non avere esigenze da donna.
Alla fine a forza di dire che ne era capace, ha ucciso un fascista durante un assalto ad una casa del fascio. Se l’è ritrovato davanti in un edificio che si credeva vuoto. Non ha esitato, ha reagito prontamente. Il comandante, con l’intento di consolarla, le ha messo una mano sulla spalla. Ma lei non è sembrata turbata per nulla e poi non se n'è più parlato.
Da quando è scappata in montagna alla fine della guerra Livia non l’ha più vista nessuno.
Non l’hanno mai presa. Qualcuno degli uomini dice di averla vista coi pantaloni alla zuava, la cartucciera e quel suo mitra lungo con la canna grossa e bucata. Imbucava di gran lena il sentiero che scende a San Liberale dopo che il comandante aveva dato il si salvi chi può e la montagna rimbombava percossa dai colpi di artiglieria. Correva giù, dicono, svelta e senza guardarsi intorno e gli scarponi facevano suonare le pietre di biancone come fanno i camosci sui ghiaioni. Non l’hanno mai presa.
Neanche dopo la guerra è voluta tornare a casa. Al paese non poteva più stare.
Il padre rimasto vedovo era tornato come confinato politico e nelle due stanze vuote, come un’ombra senza più fiato, si ubriacava da solo. La prudenza non l’aveva fatta scendere dalla montagna per il funerale della madre. Lo aveva fatto il fratello, perché per seppellire una madre si esce allo scoperto. Ma quello stesso giorno gli hanno sparato alle spalle ed è stato più vivo che morto, piantonato per quattro mesi in ospedale.
E un pomeriggio di luglio, con il sole che in città affanna e assilla, Livia si è vista sull’uscio la sorella; l’avevano deportata e lei ora tornava scarna e fantasma a far domande su cose mai dette.
Troppe tragedie, quante disgrazie, dicevano al paese, per colpa della Livia che è andata coi partigiani e non è più tornata perché la montagna non la vuole più vedere.
Bisognava non vederla la montagna, per dimenticare che ti ha chiamato una mattina di giugno in cui ti sei mescolata agli uomini per non avvelenarti l’anima.
Ci voleva la città, non più la montagna di casa, dove guardarsi allo specchio senza essere più la ragazza col mitra.
 

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