Segnalato 7 29
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue genti, le storie di ieri e di oggi”XXVIII EDIZIONE Arcade, 5 gennaio 2023
Segnalato
PASTORI
di Borsoni Paolo
Ancona
Pietre, solo pietre era la montagna. I poderi alla fine di quell’estate apparivano cosparsi di un manto giallastro di erbe secche. Il sentiero dalla fonte della cascata, sovrastante Acquaviva sul Velino, saliva tra cespugli avidi d’acqua, strozzati dalla calura, ricoperti di polvere. Poi la vegetazione a poco a poco si diradava. La salita diveniva più ripida. La vista aveva una sua maestosità. Pareti di roccia, picchi come contrafforti coronati da creste e da punte grigie s’innalzavano come lame verso il cielo. Il viottolo tortuoso s’inerpicava nelle strettoie. A metà strada, una rustica cappella di legno, con rinchiuso un Cristo in croce dall’aria afflitta e dal corpo martoriato, offriva l’occasione per fermarsi, riposare e dire una preghiera che accompagnasse il cammino in quell’aspro teatro di pietre.
Riprendendo a salire, il sentiero sbucava sulla cresta da cui si apriva la vista sull’altopiano. In quell’estate del 1914 era completamente spoglio, ancora più brullo che in altre stagioni. Una foschia di calore fluttuava rada a mezz’aria. L’orizzonte si allargava in una gradinata di vette verso il cielo caliginoso. Eppure anche in quel tempo di aridità, quello era il regno dei pastori. Nella calura soffocante risuonavano i tintinnii delle tante campanelle delle pecore. L’aria era pervasa da odori forti. Un alito di vento portava in giro effluvi, tanfi frammisti a voci roche. A vederli da lontano, sparpagliati negli avvallamenti, quegli uomini dagli aspetti foschi sembravano statue.
I pastori parlavano una lingua pressoché incomprensibile alle genti di pianura. Per la maggior parte del tempo parlavano a pecore, capre, cani, muli, asini, in un linguaggio composto di versi tramandati da secoli, pronunciati con toni aspri e modulazioni brusche seguendo uno spartito non scritto, insegnato di padre in figlio: «Ehi! Ehi! Ehi!», «Lèè Lèè!», «Ué! Ué!», «Dààà Dààà!», «Eh! Eh!». Era la lingua di quel regno delle terre alte; annoverava per lo più monosillabi, vocali prolungate, consonanti trattenute, che echeggiavano da un lato all’altro delle alture. Le locuzioni di voce sembravano sconclusionate, ma riuscivano mirabilmente a ottenere quanto volevano dagli animali. A quei versi, le bestie si raccoglievano come buone compagne e poi si avvicinavano al pastore. Ai fischi e ai richiami in apparenza senza capo né coda le pecore trotterellavano proprio là dove voleva l’uomo che le chiamava, perché capivano che, con quel linguaggio, quell’essere si rivolgeva proprio a loro, era entrato a far parte del loro mondo; così erano attente alle sue sollecitazioni, ai suoi fischi, ai suoi richiami, ed erano pronte a interpretarne il significato e a eseguire i suoi ordini. Nell’ascoltare la voce del pastore, le pecore brucavano in fretta gli ultimi steli della giornata; poi in fila si apprestavano a rientrare nel recinto predisponendosi, prima della mungitura serale, alla conta giornaliera per vedere se qualcuna avesse indugiato più del dovuto chissà dove, magari forse ancora intenta a brucare la poca erba che aveva scovato tra qualche costone pietroso in una valletta in ombra, mentre il sole, che con la sua calura aveva imperversato per tutto il giorno, scivolava sfolgorando al di là delle vette.
La musica dell’altopiano era fatta di suoni intensi, ma anche di silenzi. Si susseguivano versi di corvi e di cornacchie, belati di capre, di pecore, ragli di muli, di asini, nitriti di cavalli, stridii di uccelli, sibili d’insetti, ululati di lupi, ed erano intervallati dall’assenza di suoni. E il silenzio a volte sembrava più inquietante e foriero di pericoli degli stessi versi degli animali rapaci, suscitava un senso di timore e di sospensione del normale flusso del tempo.
Le voci dei pastori divenivano vibrazione, schiocco. Le parole erano ridotte al minimo. Quella musica acquistava valenza che diveniva memoria, accoglieva e interpretava un patrimonio di conoscenze che i pastori avevano ricevuto in eredità dai loro antenati per affrontare il presente che li fronteggiava con tanta asprezza.
Accanto a questo lessico di interiezioni, di brevi parole gridate, di fischi, si affiancava una musica vera e propria, un’arte dei suoni semplice ma reale; veniva interpretata secondo modelli perpetuati di generazione in generazione e si componeva di sequenze di gorgheggi, di zirli, di chiù, che i pastori eseguivano emettendo con la bocca versi simili a quelli degli uccelli e di altri animali. Predisponendo le guance in maniera studiata, atteggiavano le mascelle in tensione. Aiutandosi con le mani raccolte attorno alla bocca vibravano con bravura le dita nell’emettere il fiato. Si esibivano in zufolii, in lunghi trilli, in tintinnii prolungati con una maestria nella tecnica evoluta di stazione in stagione per tradurre in suoni le modulazioni della voce e del fiato. In questo modo si facevano sentire anche da lontano. Con intimo orgoglio per la bravura di mese in mese raggiunta, eseguivano uno spartito di versi musicali complesso e continuamente rielaborato.
Qualche cittadino di pianura, salito per qualche inspiegabile ragione fin lassù, avvertendo quei suoni, si fermava ad ascoltare sorpreso pensando che si trattasse di un animale che aveva appena alzato al cielo un verso tanto singolare; e cercava con gli occhi quell’aquila, quel corvo, quella cornacchia, quel falco, quella marmotta, da cui proveniva quel richiamo.
Per molti pastori addestrarsi in quell’arte era una maniera per passare il tempo e sfoggiare anche agli altri pastori la perizia acquisita in ore e ore di esercizio. Così vincevano la solitudine esercitandosi in una musica semplice e spontanea.
Man mano che trascorrevano le settimane nella conca al crepuscolo le tinte sanguigne delle nuvole suscitavano la voglia di cercare una via di fuga per ritrovarsi in mezzo agli altri, in paese e giù in valle. Mesi e mesi di solitudine instillavano il desiderio di avere finalmente accanto un proprio simile, per parlare bevendo insieme un bicchiere di vino. S’insinuavano nell’anima sentimenti contraddittori: di diffidenza inveterata verso gli estranei e di bisogno di sentire finalmente un essere umano vicino.
Prima del tramonto i cani percorrevano più e più volte di corsa il tragitto attorno al gregge. Alla fine di quei veementi giri per il controllo accurato delle pecore, i fidi aiutanti tornavano presso il pastore che, appoggiato con le mani all’asta da lavoro, li osservava e li aspettava. I cani, con il muso rivolto all’insù, si mettevano a rapporto per confermargli che non ne mancava neppure una delle pecore del loro gregge.
Le rare persone di pianura che si spingevano sull’altopiano provavano inquietudine nell’incrociare sui sentieri tra le vette quegli individui baffuti, foschi, che non sorridevano mai e che indossavano vecchie mantelle di lana sulle spalle, gambali di cuoio attorno agli stinchi; erano uomini misteriosi che apparivano quasi dal nulla e incutevano un senso di timore perché al saluto rispondevano alzando il capo con un gesto brusco, a intendere di aver raccolto il messaggio, e a segnalare la propria diffidenza verso chi era giunto in un territorio precluso agli estranei.
I torrioni delle cime sopra l’altopiano si slanciavano verso il cielo. Ma durante quell’estate il cielo al crepuscolo aveva un che di malfido. Le rocce disegnavano l’architettura di un tempio dedicato a una divinità arcana, che in certe ore appariva inspiegabilmente ostile.
Al tramonto del sole le stese di pascoli erano lambite da veli d’ombra che a poco a poco scendevano sui costoni. Nuvole ferme in lontananza lasciavano presagire un cambio del tempo. Poi la luce si affievoliva, fino a svanire.
Erano montagne dalla scabrezza severa quelle che sovrastavano Acquaviva sul Velino. Quel paesaggio penetrava nell’anima di chi viveva a quelle altitudini, la forgiava, dava un senso di fierezza, di forza di fronte a qualsiasi evenienza e sventura.
Scomparso il sole, negli ovili – edifici bassi, costruiti alla bell’e meglio, sistemati anno dopo anno, nascosti tra le gobbe del terreno – si mungevano le pecore; ci si preparava alla notte; si accendevano le candele; si mangiava quel poco che era necessario per riuscire a stare in piedi il giorno successivo.
Quindi tutte le fiammelle venivano spente. Restavano a brillare le stelle. Nell’immensità dell’altopiano splendevano gli astri. Luccicavano bagliori come punte di spillo, avvolte da un vapore dorato. Man mano che passavano i giorni di quell’estate del 1914, il firmamento veniva segnato da scie sempre più frequenti di stelle cadenti che attraversavano la volta blu scura del cielo come comete.
All’estate seguì l’autunno con tante piogge e acquazzoni serali e notturni che trasformarono l’altopiano in pantani nei luoghi pianeggianti e in ripidi costoni scivolosi nei tratti scoscesi.
Poi si aprì l’inverno, un inverno straordinariamente gelido, con giornate limpide, ventose, ma senza neve.
L’aurora del 13 gennaio 1915 sembrava preannunciare una giornata stupenda. La sfera del sole si levava maestosa sopra la linea dei monti. Nubi vivide dagli orli sfrangiati avevano sfumature carminie. Il cielo stava rischiarandosi in tutto il suo fulgore.
Era uno dei primi giorni dell’anno. Fra pochi mesi anche l’Italia sarebbe entrata in guerra; avrebbe schierato il proprio esercito nel conflitto più terrificante mai verificatosi nella storia umana. Ma neppure un ragazzo di Acquaviva sul Velino sarebbe perito in quel massacro. Neppure un giovane di questo paese avrebbe sacrificato la propria vita per la patria, una parola poco usata sulle propaggini del massiccio montuoso dell'Italia Centrale.
Il miracolo di essere risparmiati dalla strage che avrebbe coinvolto moltitudini in Europa non sarebbe accaduto per una grazia divina concessa ad Acquaviva grazie alle devote preghiere di Don Raffaele, il fervente, giovane parroco del paese.
La particolarità di non vedere ammazzato in guerra neppure un giovane del borgo non sarebbe accaduto per un prodigio di Cloe, l’abile fattucchiera esperta nel mondare, a pagamento, i suoi paesani da sfortune e malocchi.
La sorte degli abitanti e dei pastori di Acquaviva sul Velino di essere esentati dallo sprofondare nella tempesta di ferro e di fuoco, che avrebbe devastato tutto il continente europeo, non sarebbe stata determinata da un editto liberatorio del Re piemontese, Vittorio Emanuele, né da una premurosa grazia concessa ad Acquaviva dall’affettuosa Regina Margherita.
La singolarità di non vantare neppure un martire tra i partecipanti a quel massacro generale sarebbe accaduto per la circostanza imprevista dell’arrivo in paese dopo tanto tempo di un vecchio conoscente. In quella grande alba d’inverno del 1915 sarebbe riapparso qualcuno assolutamente Inatteso. Il suo ritorno non sarebbe stato né benvenuto né gradito né accolto con la quieta rassegnazione degli ospiti non invitati.
Il nuovo venuto non avrebbe guardato in faccia nessuno; praticava nei fatti quanto la legge dello Stato proclamava solo a parole: l’eguaglianza di tutti.
Avrebbe varcato senza riguardo e senza invito la soglia del palazzo più elegante, decorato con preziosi affreschi e quadri di pregio, sorprendendo i suoi abitanti nel sonno, radendo raso al suolo l’augusta magione, irridendo la generosità e le aspirazioni artistiche della stimata famiglia Cilli.
Sarebbe entrato con brutalità nella casa del paesano più infimo: un fosco, solitario artigiano di nome Brionso, intento tutto il giorno ad armeggiare con i suoi logori arnesi per fabbricare manufatti che non interessavano a chicchessia e che per questo mangiava pancotto tutto l’anno, tuttavia lui non se ne doleva.
Il nuovo venuto non avrebbe mostrato alcuno scrupolo a irrompere nella Chiesa di Santa Maria Ausiliatrice, dove Don Raffaele, il giovane sacerdote, era già raccolto in preghiera con la fronte posata sulle nocche delle mani giunte davanti all’immagine sacra esposta all’altare per invocare la pace e la protezione della Madre Celeste su Acquaviva. Ma in quel freddo giorno d’inverno la sua devozione non sarebbe stata sufficiente a offrire salvezza ai suoi fedeli.
L’ospite non invitato senza timore avrebbe fatto irruzione nella dimora di Cloe, beffandosi dei suoi sortilegi, incantesimi, stregonerie, facendo crollare il tetto su di lei, sbriciolando tutte le sue ampolle miracolose, sparpagliando a una a una le sue prodigiose pietre magiche.
Quel 13 gennaio 1915, giovani e vecchi, donne e uomini, poveri e ricchi, saggi e folli, pii e miscredenti, onesti e imbroglioni, coraggiosi e infingardi, malvagi e innocenti avrebbero avuto la loro vita segnata per sempre dal vecchio conoscente, che sembrava essersi dimenticato di Acquaviva, ma che invece non l’aveva affatto dimenticata.
Nelle prime ore di quella turgida mattina di gennaio, fra le vette immacolate di neve, sotto un cielo di una tersa, nitida luce azzurra, quasi trasparente, avrebbe attraversato con violenza viottoli, piazze, vicoli, vie, scalinate, scardinando porte, muri, cancellate, case. In un sussulto che sarebbe sembrato interminabile avrebbe frantumato altari, squassato pavimenti, scoperchiato tetti, aperto soffitti sbriciolando le due fontane del centro abitato, distruggendo con uno stridio pauroso selciati, radendo al suolo la Torre della Meridiana nella piazza dell’Unità d’Italia. In una nuvola alta di gesso e di polvere, in soli trenta secondi avrebbe scompaginato aspirazioni e speranze, gioie e tormenti, presente e futuro, vita e destino dei primi e degli ultimi del mio paese: Acquaviva sul Velino.