Segnalato 6 29 - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Segnalato 6 29

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna:  le sue genti, le storie di ieri e di oggi”

XXVIII EDIZIONE Arcade, 5 gennaio 2023
Segnalato

 
. La riparatrice di volti*
 
(ispirato al lavoro di Anna Coleman Ladd)

di Barzaghi Giuseppina
Inverigo (CO)

 
 
Quando mi risvegliai, mi accorsi di essere adagiato in un letto, che però non era il mio, quello matrimoniale di casa, poiché questo era singolo, stretto, duro. Percepivo la mia presenza ma ero talmente frastornato che ci misi un po’ prima di rendermi conto semplicemente di esistere ancora. Non sapevo dove mi trovassi. Sull’occhio destro avevo una benda e quindi non potevo vedere ma con il  sinistro sì, però guardandomi in giro, voltando lentamente il capo prima da una parte e poi dall’altra, distinguevo solo pochi colori che si mischiavano tra di loro, creando una grande macchia confusa, dove figure sbiadite senza contorni mi avvolgevano come nebbia. Sforzandomi di mettere a fuoco le immagini attorno, riuscii a scorgere una fila di letti; udivo lamenti e grida, pianti disperati, qualcuno delirava, dedussi, alla fine, di essere ricoverato in un ospedale.
Man mano che riprendevo coscienza, mi accorsi di provare dolore in ogni parte del corpo. Avevo un gran mal di testa e le gambe non riuscivo a muoverle agilmente. Faticavo tantissimo a respirare. Sentivo bruciare la gola e anche la bocca mi doleva. Emisi un rantolo e ad un tratto arrivò qualcuno. Era una voce femminile, un’infermiera di sicuro, che poi chiamò un medico per segnalargli che mi ero svegliato.
“Tenente Vicenti, riesce a sentirmi? Mario, mi sente?”. Ecco chi ero, ecco come mi chiamavo. Iniziai a ricordare: la trincea, i combattimenti, le atrocità viste. E ad un tratto il ricordo dell’inverno mi entrò nelle ossa. Tremai per i brividi che mi vennero, poi questa spiacevole sensazione mi abbandonò.  Ero un ferito di guerra, un Alpino del Reggimento di Mala Ciapela, sotto la Marmolada, ed ero stato fortunato, pensavo, perché ero vivo. Iniziavo a ricordare alcuni particolari.
Con un sibilo, confermai a fatica al dottore che lo potevo udire. Non riuscivo proprio a parlare,  una strana, dolorosa sensazione m’inondò.
L’infermiera cercò cautamente di spiegarmi quello che avevo riportato, ovvero diverse fratture a braccia e  gambe e profonde ferite sul corpo, ma nonostante ciò che mi era accaduto, non avevo subìto l’amputazione di nessun arto. D’improvviso una nitida visione di quanto mi era accaduto pervase la mia mente: una granata era esplosa a pochi metri di distanza. Alcuni soldati della mia trincea erano stati devastati dalla deflagrazione. I corpi maciullati si scomposero in aria, facendo ricadere i pezzi di carne bruciata e sanguinolenta proprio accanto a me, lasciandomi incredulo e impietrito. Mi misi a piangere come un bambino: quell’orrore era accaduto davvero, i miei soldati, alcuni giovani uomini, altri solo ragazzini, di neppure vent’anni, con la vita ancora davanti, erano svaniti in pochi terribili attimi. Avevo visto degli esseri umani sbriciolarsi nella neve, del ghiaccio diventare scarlatto, impregnandosi con il loro sangue. La guerra era l’incubo divenuto realtà, un ricordo che si vorrebbe non aver mai vissuto ma che non deve mai essere scordato.
Io mi ero salvato; perché io sì e altri no? Ero stato sommerso dalla terra sollevata dall’esplosione e dai frammenti della granata, che si erano andati a conficcare in molte parti del mio corpo - e nella mia anima - ma ero sopravvissuto.  
Quel ricordo mi stremò, mi sembrava di aver vissuto ancora quella drammatica esperienza, così richiusi gli occhi nel letto dell’ospedale e mi lasciai andare in un sonno profondo. Mi svegliai di nuovo, il giorno seguente.
Avevo perso la cognizione del tempo, non sapevo se fosse giorno o notte, ero solo sicuro che la voce dell’infermiera che avevo accanto, era la stessa del mio precedente e breve risveglio. Questa volta, con l’occhio sano, la fissai, riuscendo a vederla un po’ meglio. Era giovane e molto delicata. Pensai subito a mia moglie Giovanna: chissà da quanto aspettava mie notizie e se aveva ricevuto l’ultima lettera che le avevo scritto qualche sera prima del mio ferimento. Chissà se era già stata informata di quanto mi era successo. Cercai di pronunciare il suo nome, ma non riuscivo a scandirne la parola, la mia bocca aveva qualcosa di stranamente diverso. E il respiro, mi mancava. Arrivai a sussurrare appena un “Anna”. L’infermiera, però, sembrava aver capito ciò che volevo comunicare. “Sua moglie?”, mi chiese infatti. “Sua moglie è stata avvisata, non si preoccupi”.
Mi sentii rassicurato e, ancora una volta, fortunato.
Giovanna aveva un anno meno di me, era bella, dolce, molto sensibile. C’eravamo spostati quattro anni addietro, il 07 aprile 1914. Io ero stato mandato al fronte pochi mesi dopo. Mentre ripensavo a Giovanna, un altro ricordo doloroso del ferimento fece breccia nella mia mente: il mio sangue. Avevo ingoiato la terra ghiacciata della trincea e il mio sangue. Ora mi chiedevo in che stato io fossi. Ma mentre questi cupi pensieri mi assalivano, udii una voce tremante inaspettata quanto desiderata: quella di Giovanna.
Scortata dalla solita infermiera e dal medico che stava raccontando a bassa voce probabilmente ciò che mi era capitato, si avvicinò finalmente a me. La sentii piangere e gridare: si sentì male, il dottore e l’infermiera la portarono via. Io chiusi gli occhi, ancora, sperando di riaprirli un’altra volta e rivedere mia moglie.
Ci vollero alcune settimane prima di potermi rimettere in piedi con fatica indescrivibile. Giovanna non era ancora tornata. Quel giorno di settembre, mi resi conto, finalmente, cosa aveva terrorizzato mia moglie nel vedermi. Mi portarono uno specchio, dopo avermi spiegato cosa avrei dovuto affrontare.
Il mio viso era stato deturpato, ero rimasto gravemente e orribilmente sfigurato a causa dei frammenti della granata esplosa. Non avevo più l’occhio destro, la mandibola era stata frantumata, un profondo foro nella gola mostrava le mie carni ferite al mondo.
I medici del “Celio Roccati”, affidato alla Croce Rossa e adibito a ospedale militare, dove ero stato trasferito, mi avevano operato diverse volte. Le ferite del corpo, prima o poi, sarebbero guarite, i lembi di carne ricucita, si sarebbero rimarginati, ma le cicatrici al volto, quelle no. Io non c’ero più e avrei preferito essere morto. Quell’essere non ero io, non potevo esserlo. Provavo rabbia, delusione, angoscia. Per quale motivo ero sopravvissuto in quel modo? Era un pensiero terribile, lo sapevo, la vita non andava rifiutata, ma come avrei potuto ricominciare a vivere in quelle condizioni? E Giovanna dov’era? Perché non era ancora tornata a trovarmi. Io non ero Enrico Toti, non avevo fatto di tutto per andare a combattere, sebbene sentissi il dovere di proteggere la mia Patria e le persone a cui tenevo. In realtà non avevo tutto quel coraggio che un soldato era tenuto a dimostrare, ero un uomo, con tante debolezze e tanta voglia di vivere un’esistenza semplice, con una casa, una moglie, una famiglia. Come avrei fatto ora? Come avrebbero reagito le persone che mi conoscevano e quelle nuove che mi avrebbero incontrato?
Tutte queste mie domande avrebbero trovato risposta di lì a poco, mio malgrado.
 
Venni dimesso nel dicembre 1918, poco prima di Natale. Giovanna mi accolse a casa, ma non riuscì a restarmi accanto; nonostante l’amore che provava per me, mi disse, le faceva troppo male vedermi così rovinato. Allora, la lasciai libera di andarsene, era giovane, aveva tutto il diritto di rifarsi una vita, io non ero un “semplice amputato”, ero uno sfigurato, un mostro, rappresentavo l’orrore della guerra. Sembrava strano ma era così: chi perdeva un arto era più accettato di chi non aveva più un volto. Io ero il simbolo di ciò che l’odio umano poteva provocare e a nessuno faceva piacere trovarsi dinnanzi un incubo.
Andai a vivere con i alcuni zii materni di Treviso, che mi accolsero e trattarono come un figlio. Passavo i miei giorni cercando di non morire di tristezza. In un certo senso, era come rivivere i momenti passati nella trincea. Ora combattevo una guerra senza armi tangibili e i miei nemici erano gli sguardi disgustati delle persone che incrociavo le poche volte che mi azzardavo ad aggirarmi per le vie della città. La mia paura maggiore era quella di far vincere la mia debolezza ed arrivare a togliermi la vita. Mi sentivo un peso, per i miei zii e per quella società, che avevo difeso andando al fronte, che non mi accettava più, non mi dava l’opportunità di vivere con un lavoro. Nessuno voleva uno sfigurato tra i piedi, era troppo spiacevole doverne sopportare la visione. Riuscivo a comprendere queste reazioni così estreme, perché io stesso le provavo nei miei confronti.
Poco alla volta iniziai a isolarmi nella casa dei miei zii. Li aiutavo come potevo nelle faccende domestiche, raramente nei campi. Le mie ferite era rimarginate, ma nei movimenti ero sempre limitato.
Devo molto ai miei zii, soprattutto allo zio Antonio, perché fu lui a spronarmi a partire per la Francia.
Un giorno me ne stavo seduto su di una sedia, intento ad osservare con il mio occhio sinistro, l’unico rimastomi, il cielo e le nuvole, quando zio Antonio entrò in casa e mi disse tutto entusiasta: “Dobbiamo andare a Parigi, devi assolutamente andare a trovarla”. Io non capii.  
Lui continuò: “Ha fatto dei miracoli è un’artista eccezionale, il suo lavoro è ciò che ti serve”. Rimasi confuso. Chi dovevo incontrare? E perché mai lo zio pensava che io avessi bisogno dei suoi lavori? Di arte non me ne intendevo affatto e sinceramente non mi interessava.
“Si chiama Anna Coleman Ladd è un’americana, moglie di un medico della Croce rossa”. “Allora forse avrei bisogno di suo marito, non di lei”, dissi allo zio. Ma lui entusiasta, aggiunse: “No, tu hai proprio bisogno di lei. A Parigi ha aperto un atélier dove crea delle maschere per volti sfigurati. Ricostruisce i visi deturpati in maniera impressionante”. E dicendomi questo, lo zio mi allungò un articolo di un giornale francese, procuratogli non so da chi, in cui erano pubblicate delle fotografie di reduci di guerra con volti senza parti, comparati ai volti provvisti di maschere che ricostruivano in maniera praticamente perfetta le loro facce. Rimasi senza parole. “Questa donna è il miracolo che stavi aspettando, Mario. Dobbiamo andare a trovarla”, terminò zio Antonio.
Non riuscivo a crederci.
Due giorni dopo, partimmo. Arrivammo a Parigi nel giro di qualche settimana. Avevamo fatto delle tappe da alcuni parenti dello zio e amici che aveva conosciuto in gioventù, che ci offrirono la loro ospitalità e il loro supporto. Io cercavo come potevo di nascondere il mio volto, nonostante le persone con cui avevamo avuto a che fare non mi facessero pesare troppo la mia menomazione. Le “gueules cassées”, i “musi rotti”, come li chiamavano lì, erano una realtà drasticamente nota anche in Francia. Per di più lo zio Antonio aveva preventivamente informato i nostri amici della gravità e della delicata situazione che mi riguardava, quindi sapevano cosa aspettarsi.
La città di Parigi era molto più grande di Treviso, il via vai di gente, continuo. Claude, caro amico dello zio Antonio, ci fece da guida fino all’atélier di Anna Coleman Ladd. Ci aveva fissato un appuntamento e l’artista ci attendeva. Quando feci la conoscenza di quella donna, ne rimasi impressionato. Per la prima volta dopo anni, vedevo qualcuno che mi sorrideva, guardandomi in faccia, o, meglio, guardandomi ciò che rimaneva di quello che era stata la mia faccia, senza esprimere disprezzo né paura. Anna era una donna sulla quarantina, di corporatura media, con folti capelli castani, sempre raccolti. Empatica, decisa, cordiale, capì all’istante il mio disagio. Mi mostrò alcune maschere che aveva già realizzato, spiegando a Claude, che ci faceva da traduttore, come lavorava. Di solito prendeva delle fotografie del viso da “sistemare”, studiava il danno facciale di ogni paziente, dopodiché procedeva alla realizzazione di un calco in gesso o in argilla o, ancora, in plastilina, dal quale poi ricavava una maschera, per lo più in rame. Poi doveva verniciare la maschera ottenuta, cercando un colore il più possibile simile a quello del volto del paziente. Inoltre provvedeva anche a completare la sua opera con ciglia e sopracciglia e, a volte, baffi. Vedendo il mio volto, Anna non si scandalizzò né mi considerò un caso difficile. Ero nella norma, insomma. Sembra strano a dirlo, ma a sentirmi nella norma non ci ero più abituato.
 
Il restauro del mio volto iniziò il giorno seguente. Anna ci mise un mese a realizzare la mia maschera. Quando me l’avvicinò al viso, mi sentii emozionato. Non sapevo esattamente come sarei stato, lo scoprii dopo, quando vidi, con cuore palpitante, il mio riflesso in uno specchio. Ero tornato, finalmente. Ero diverso, certo, ma ora non ero più un ammasso di carne attorcigliata, dove il vuoto era visibile agli occhi altrui. Portavo degli occhiali speciali, che servivano per fissare la maschera al volto. Le mie funzioni respiratorie e linguistiche non erano migliorate, la maschera nascondeva la deturpazione ma anche il disagio mio e di tutti quelli che mi avrebbero incrociato, da quel momento in avanti. Certamente il mio viso non avrebbe più potuto mostrare un mio sorriso o una qualsiasi altra espressione, ma la mutilazione facciale infertami era talmente profonda che anche senza maschera non si sarebbe mai più visto un mio sorriso. D’altro canto, quando avevo più sorriso, dopo il ritorno dal fronte? Mi interrogavo ancora sul perché fossi sopravvissuto, probabilmente, mi dissi infine, Dio mi aveva affidato il delicato compito di portare anche sul corpo, la testimonianza degli orrori di una guerra.
Molti anni dopo il mio viaggio a Parigi, venni a sapere che lo Stato francese aveva conferito la Legion d’Onore ad Anna Coleman Ladd, per il valore etico del suo impegno sui volti sfigurati dei reduci. Fui contento della notizia e mi sentii un privilegiato ad essere stato una sorta di suo paziente. Non mi aveva ridato il sorriso, mi aveva ridato la dignità.
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