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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
"La Montagna:le sue genti , dalla storia all’ attualità"XXX EDIZIONE Teviso, 11 gennaio 2025
Segnalato
La minestra di castagne
di Bottallo Rosella
Torino
Lo sai che il castagno una volta si chiamava l’albero del pane?
Mentre camminavamo nel bosco mio nonno interrompeva all’improvviso i suoi assorti silenzi con qualche curiosità che mi suonava antica e bizzarra. Mi piaceva ascoltare la sua voce lenta e brusca, mentre scostava le foglie con il bastone e pareva che parlasse ai funghi.
Quando qui tutti erano poveri, ma poveri davvero, d’autunno si faceva scorta di castagne. Le caldarroste le conosci, la nonna le sa fare proprio bene. Ma anche quando diventavano secche bastava farle rinvenire e tornavano morbide e saporite. Si mangiavano lessate o in minestra con patate e cavoli (non fare quella faccia, era buonissima!), con la farina si faceva il castagnaccio e tanto altro.
Certo, verdure e frutta fresca d’inverno non c’erano e qualcuno si ammalava di scorbuto per mancanza di vitamine, ma le castagne riempivano la pancia e non abbiamo mai sofferto la fame.
Me li ricordo ancora questi racconti del nonno. Forse non gli davo molta soddisfazione perché regolarmente lo interrompevo, magari per portagli, trionfante, quello che avevo preso per ovulo reale e invece era una letale amanita falloide.
Non ero più tornato qui alla Presa. Non ci ero più voluto tornare.
Il mese scorso mio padre mi ha dato appuntamento al bar del paese, un incongruo chalet simil-svizzero stretto tra case di pietra abbandonate, con la vegetazione che irrompe tra le lose crollate dei tetti, e qualche palazzina degli anni Settanta già fatiscente.
Un paese quasi fantasma sotto un sole invernale, basso ma tiepido abbastanza da far fiorire un ciuffo di violette a ridosso di un muro.
Nel bar pochi avventori: vecchi silenziosi che giocano a carte, un paio di ragazzetti risucchiati dai loro tablet.
Riconosco l’Audi di mio padre parcheggiata nel piazzale. Lui, seduto a un tavolino con l’immancabile chinotto, spiegazza qualche foglio. Pochi convenevoli: anche se siamo vissuti in città ci è rimasto il riserbo della gente di montagna.
«Ho ricevuto questa», e mi porge una lettera su carta intestata.
Quattro pagine che sfoglio distrattamente. Tanti giri di parole per comunicare che, date le mutate condizioni climatiche e l’ormai cronica carenza di neve in inverno, l’impianto di risalita è stato dismesso già da alcune stagioni. La società è fallita e il curatore fallimentare chiede di rescindere il contratto; segue un lungo elenco di premesse e condizioni di pattuizione e di risoluzione. Una frase mi colpisce: “
Al termine del contratto, salvo diverso accordo tra le parti, il conduttore potrà rimuovere le strutture costruite, ripristinando il terreno al suo stato originario, o lasciare le strutture al locatore senza alcun indennizzo”. Mi sa che è proprio questo il caso.
Guardo mio padre: «Che significa?»
Ma non ho bisogno della sua risposta.
Me lo ricordo bene quel giorno: eravamo a tavola. La nonna aveva cucinato il pollo con i funghi che quella mattina io e il nonno avevamo raccolto sotto i castagni. L’estate era alla fine, i primi temporali avevano fatto spuntare i gallinacci. Io ero stato fortunato a trovare un porcino che appena si intravedeva tra le foglie.
Mangiavamo in silenzio, ma questa non era una novità. Però quel silenzio era pesante, le facce chiuse.
Devi fartene una ragione, è un’opportunità unica – diceva mio padre, rivolto al nonno. Io non capivo.
Con la vendita delle castagne e del legname sopravvivete appena. E quanta fatica! Non vi accorgete che il tempo passa e voi non avete più le forze? Questi tizi ci propongono di affittargli il versante all’inverso per fare un impianto di risalita. È ideale per lo sci: la neve si ferma almeno fino ad aprile, anche se siamo poco sopra i mille metri. Ti offrono più di quanto potresti mai sognarti di ricavare dal tuo lavoro, e non dovrai più spaccarti la schiena a pulire il bosco e raccogliere le castagne. Pensano a tutto loro, a disboscare, installare i piloni e tutte le attrezzature. Ti immagini quanta gente potrebbe venire dalla città se ci fossero anche solo uno skilift e una pista? Si arriva in un’oretta, magari qualcuno si metterebbe a cercare un alloggio per la stagione. Non valgono niente le case qui, adesso.
Non c’è che da ringraziare.Il nonno rigirava la forchetta nella bagna dei funghi. Aveva smesso di mangiare.
Avevo sette anni, era la prima estate che avevo trascorso tutta intera con i nonni, finita la scuola: i miei erano arrivati a fine agosto per riportarmi a casa.
Mi alzo e mi metto in piedi vicino alla sedia del nonno, appendo gli occhi ai suoi: abbiamo il viso alla stessa altezza.
Ma lui tiene lo sguardo fisso nel piatto.
- Io non voglio – dico con voce ferma.
Mio padre e mia madre sembrano non accorgersi. Mio padre parla e parla, il nonno tace. La nonna si è messa a lavare le pentole, anche se il pranzo non è finito.
- Ho detto che non voglio. Nel bosco c’è la capanna che io e il nonno abbiamo costruito, c’è il sentiero per la Madonnina.
E ci sono i funghi. E tra un po’ torno per raccogliere le castagne col nonno. Io non voglio la pista da sci, io voglio il bosco.
Ora il nonno mi guarda. Noi ci capiamo così.
- Va bene, Roberto, va bene. Si diceva così, tanto per parlare. Vai a giocare fuori, che c’è un bel sole.
Mia madre era intervenuta con una frase che voleva essere rassicurante, non fosse che avevo colto la strizzata d’occhi fatta a mio padre. Erano tempi così, che i bambini non dovevano impicciarsi nelle cose dei grandi.
Il contratto era stato firmato e i lavori erano partiti. I nonni avevano lasciato la baita di pietra ed erano venuti a stare vicino a noi, in città. Ma lui non era durato molto: un infarto l’aveva schiantato l’inverno dopo. Gli erano state tagliate le radici, come ai castagni.
Da quell’agosto io alla Presa non ci avevo più messo piede. La volta che mio padre aveva insistito per portarmi a provare la nuova pista (C’è un maestro di sci che insegna ai bambini: ti divertirai di sicuro!) avevo pianto e vomitato in macchina finché mia madre aveva detto: Lascia stare, Mario, il bambino non ci vuole andare. Gli passerà.
Eravamo tornati a casa. E a me non è mai passata. Non ho neanche voluto fare la settimana bianca con i miei compagni di scuola, anche se era in Trentino, distante centinaia di chilometri. E mi sono sempre rifiutato di mettere gli sci.
Mio padre continua a spiegazzare i fogli, che ballano per il leggero tremito delle sue mani.
«Gli ultimi anni sono stati un disastro. Niente più neve. Sai, il riscaldamento climatico… E questi qui hanno smesso di pagare.
Ho dovuto interessare un avvocato. Andiamo a vedere cosa succede nei nostri terreni».
Dice “nostri”, ma sono suoi. Mi verrebbe da dirgli: Io non voglio, come allora, ma lui adesso è più vecchio di mio nonno allora e io ho una figlia e due nipotine. È il momento di guardare in faccia quello che resta della mia infanzia felice alla Presa.
Nulla. Non è rimasto nulla. Non il bosco di castagni, che era stato completamente sradicato: l’erba giallognola e stenta dell’inverno maschera appena il terreno nudo. Parrebbe una pecora appena tosata, se non fosse per i radi e disordinati cespugli di piante pionere. Riconosco gli aghetti acuminati del pino silvestre, i piccoli arbusti di ginepro, forse qualche betulla dal tronco bianco e flessuoso.
Individuo in quel deserto il salto del torrente vicino al quale il nonno mi aveva costruito la capanna. Non c’è più la casa dei nonni, abbattuta per fare la biglietteria-punto di ristoro, ora un cubicolo con i vetri rotti e le pareti istoriate da graffiti. Mi costringo a guardare gli scheletri dei tralicci, i cavi arrugginiti da cui ancora pendono le ancorette degli skilift slavate e smangiate, testimonianze di una guerra persa dall’uomo per inseguire un obiettivo impossibile: sciare a mille metri di quota al tempo dei cambiamenti climatici.
Non ce la faccio a restare. Saluto in fretta mio padre.
«Ne parlerò con Elisa», gli dico.
Mia figlia Elisa è architetta e ambientalista. E non ha alcun legame affettivo con questo luogo, che non ho mai voluto mostrarle.
Ma so che lo prenderà a cuore.
Lei approfitta di una mite giornata di fine febbraio per andare su alla Presa con il marito e le gemelle. Le ho dato qualche informazione, ha la visura catastale. Quando torna non commenta e non mi fa domande, sa che quelle memorie mi graffiano ancora.
Passano un paio di settimane prima che arrivi un invito a cena, a me e ai miei genitori. Le cene a casa sua sono sempre caotiche ed allegre, grazie alle piccole che mi hanno adottato come loro bambolotto: mi imboccano e poi mi carezzano e mi pettinano, lasciandomi un’eredità di fusilli e sugo che a casa richiederanno una doccia vigorosa. Con i bisnonni hanno meno confidenza e si limitano ad accettare educatamente i loro regali e le loro moine.
Quando finalmente riusciamo a espletare tutti i rituali della buonanotte e in cucina scende il silenzio, Elisa apre un dossier colmo di carte. Comincia a parlare, con la foga che mette per gli argomenti che la appassionano; nessuno riesce più a fermarla.
«Il castagneto tornerà. Lì l’ambiente è stato sfregiato e offeso, ma la natura è generosa e noi possiamo aiutarla a riparare i danni. Occorreranno molto lavoro e molti soldi: mi sto informando su come accedere ai fondi del bando regionale per la bonifica e rinaturalizzazione dei siti degradati. I castagni sono classificati come alberi habitat, lo sapevate? Sono un rifugio per tantissime specie animali e vegetali. Nel bosco torneranno le volpi, i ricci, i cinghiali (anche se quelli preferirei non incontrarli), le cinciallegre che già per il solo nome fanno simpatia… E i lamponi, le fragoline, i funghi, i fiori del sottobosco! Insomma, tutta - o quasi - la biodiversità che è stata cancellata. E ci sopravvivrà, sarà un segno di continuità che lasceremo alle nuove generazioni».
Mentre prende fiato mio padre si prepara ad avanzare qualche obiezione: «Ma...»
Mia figlia, che non è per niente diplomatica, non gli lascia spazio: «Ho preso contatto con alcuni ragazzi della zona che si sono costituiti in cooperativa per rilanciare l’economia agricola e pastorale del territorio alpino, magari integrandola con un’offerta turistica sostenibile. Non ho ancora tutti i dati, ma qualcosa potremo fare, insieme a loro».
Come le invidio questa capacità di saldare l’immaginazione con le indicazioni pratiche.
Prosegue imperterrita: «Ripianteremo le cultivar tipiche di quella zona, come le Servaschine e il Garrone Rosso. Vanno seminate e poi innestate. E poi vanno curate, difese dalle malattie, il suolo va pulito… Certo che non potremo farlo noi: non ne abbiamo né le capacità né il tempo, per questo ho parlato con i ragazzi della cooperativa. Ma la nostra famiglia ha commesso (per ingenuità, per miopia) un delitto. Qualcuno ne ha sofferto molto».
Non mi guarda, ma so che pensa a me. E io penso al nonno.
«Ora la Presa è agonizzante e noi dobbiamo, possiamo e vogliamo salvarla. Anche perché non vogliamo perderla.
Tra una quindicina d’anni mangeremo le prime castagne, probabilmente non buonissime: pare ci voglia un mezzo secolo perché i marroni siano al loro meglio! Intanto cominceremo a ricostruire la capanna al bordo del ruscello per le bambine. Avranno quello che a me è mancato: un bagaglio di scoperte ed esplorazioni da compiere, da raccontare, da custodire come ricordi straordinari.
E la casa potrebbe essere così. – intanto sfila un cartoncino dal dossier - Per fortuna la cubatura l’abbiamo mantenuta».
Una semplice casa in pietra con il tetto di lose, le imposte e la ringhiera del balcone di legno traforato.
Uno schizzo acquerellato, non un rendering in 3D. Lo so che non devo piangere.
Chissà se la minestra di castagne con patate e cavoli mi verrà buona.