Segnalato 5 29 - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Segnalato 5 29

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna:  le sue genti, le storie di ieri e di oggi”

XXVIII EDIZIONE Arcade, 5 gennaio 2023
Segnalato

 

Venti ottobre 1944
 
Una Storia
di Pellizzer Filomena Gabriella
Rosà (VI)
 
 
Il fischiettare allegramente flautato del merlo mi raggiunse all’interno della stanza.
Mi mandò con il pensiero ai miei cardellini, sotto al porticato di casa nella voliera che avevo costruito per loro con il legno di melo. Il maschio era grigio con le ali marroncino, la femmina bianca come la neve con le alucce gialle, entrambi sfoggiavano una mascherina arancione sul musetto e il loro canto …  Ah ... per il loro canto io mi sentivo orgoglioso!
Un colpo di frustino si abbatté sul tavolo, l’ufficiale mi riportò alla cruda realtà.
“È nero”, pensai, “Nero come il falchetto che talvolta arriva a insidiare la gabbia dei cardellini”.
Lo osservavo, dalla sedia su cui sedevo, mi dava le spalle e passava l’arma da una mano all’altra, come fosse di un’estrema leggerezza. Lo Sten era parte del bottino che i gruppi appartenenti alla Resistenza ricevevano nei molteplici lanci paracadutati da parte dell’Aviazione Britannica.
Dalla finestra arrivava una luce dai toni corallini che preannunciava il tramonto, a breve sarebbe terminato quel supplizio che durava da ore.
Inaspettato arrivò un fendente sul mio labbro superiore, l’uomo si era girato con un’invidiabile torsione del Busto e con tutta la sua forza usò l’arma per colpirmi.
Riuscii a voltare appena il viso per evitare un impatto più devastante.
Il sapore amarotico e ferroso del sangue in bocca mi fece venire un conato di vomito, mi sforzai di trattenermi, non volevo mostrarmi più debole di quanto apparissi già.
Fece per assestarmene un altro, ma lo Sten, come dotato di vita propria, quasi a voler lamentare l’uso che l’uomo ne stava facendo, gli cadde dalle mani provocando un clangore metallico che echeggiò nella stanza. Sul volto del baffuto tenente si disegnò un’espressione contrita che, nonostante la situazione in cui mi trovavo, mi gustai con una amara risatina interiore.
Sulla stanza cadde un silenzio ristoratore. L’ufficiale chiese al suo tirapiedi, che sembrava avere la bava alla bocca, tanto si capiva che voleva prendere parte al pestaggio, di portargli un caffè.
Lo sorseggiò mentre impettito guardava fuori dalla finestra.
Non visto mi misi a studiarlo, quel tenente che a occhio poteva avere una quindicina d’anni più di me, che aveva scelto una strada diversa dalla mia, un’altra parte nella quale schierarsi, ideali diversi corredati da onori e carriera.
Quel tenente che non ci metteva molto a uccidere i suoi connazionali.
Fratelli divisi in patria. Un brivido mi corse lungo la schiena, il mio calvario era appena iniziato e non osavo nemmeno pensare all’epilogo.
Il silenzio si protrasse. Dopo un po’ l’uomo parve stancarsi di ciò che rimirava dalla finestra, si rivolse al suo scagnozzo e gli fece cenno di portarmi in cella.
Attesi di essere solo, in quell’antro angusto che tuttavia mi forniva un po’ di intimità.
Mi specchiai sul vetro della finestra che mi rimandò una sfocata immagine di me, intravidi gli occhi gonfi e i capelli ricci che apparivano come una matassa scura e ribelle sulla mia testa.
Quei capelli sui quali mia madre, con imbarazzo, talvolta posava una carezza.
Era profondamente ingiusta quella nuova sofferenza per la mia povera mamma, già provata dalla partenza di mio fratello più piccolo per la campagna di Russia l’anno prima. Egli non aveva più dato notizie di sé. Non riuscii a trattenere le lacrime.
Mi sdraiai sulla branda e la mia mente, mio malgrado, andò ai fatti di settembre quando nella zona c’era stato un rastrellamento di una trentina di giovani, facenti parte dei gruppi che contrapponevano una tenace lotta alla dittatura.
Fra loro anche alcuni malati, cosa avrebbero potuto temere da questi. Tutti quei giovani erano stati impiccati sugli alberi dei viali principali di una cittadina vicina e lì rimasti a penzolare per ben quattro giorni come memento alla popolazione, semmai ci fosse stato bisogno di sottolineare l’ottusa crudeltà del regime.
E di me? Cosa sarebbe stato di me?
Venni prelevato un paio di giorni prima, il 20 ottobre. Gli sgherri nero vestiti erano arrivati sulla riva di casa con la camionetta e da subito avevano dimostrato tutta la meschina empietà di cui erano capaci. Un paio di loro aveva cominciato a terrorizzare, a spingere e schiaffeggiare le mie sorelle, sotto gli occhi sgomenti di mia madre, sfidando me e mio fratello che tentavamo un approccio verbale, “Fermi …  Giù le mani ...”
Altri si erano diretti verso il bosco poco distante da casa, sapevano cosa e dove cercare, lì infatti trovarono armi e munizioni. Lo Sten, le pistole, ben nascoste, ma a quanto pare non abbastanza.
Per me e mio fratello era un doveroso contributo a quella temeraria Resistenza che pian piano poggiava incerti e speranzosi passi sui sentieri della liberazione. Le armi le avremmo custodite noi, nascoste e oliate, pronte per quando sarebbero servite.
La montagna, silente e complice, suo malgrado, avrebbe celato il segreto.
Lo sapevo bene che il rischio era enorme e che mi avrebbe cambiato nel profondo. Non era bello toccare le armi, erano fredde, foriere di morte, recavano un maligno magnetismo, ti ci potevi abituare a tenerle tra le mani.
Poi una soffiata, una delle tante durante quel periodo oscuro, arrivata da una donna che abitava un po’ più giù della riva dove vivevo con la mia famiglia. Si era recata al comando di zona e aveva fatto la spia.
Ci aveva venduti, come un Giuda di tempi più moderni, ci aveva venduti per i soliti sporchi denari, per lo sterco del diavolo.
L’intento era di comprare un futuro migliore per il figlio. Sacrificava altri figli per il benessere del suo.
Pensavo a quanto la mia famiglia avesse sostenuto quella donna, mia madre ci diceva che aveva avuto il figlio non sposata e dovevamo fare il possibile per aiutarla. Provavo una tale frustrazione!
Una volta ritrovate le armi i repubblichini si fecero ancor più ostili, cominciarono un serrato confronto con noi fratelli.
Non ci pensai un attimo, mi addossai tutte le colpe. Mio fratello non avrebbe retto, nonostante la sua spavalderia aveva un carattere debole e poi aveva famiglia, moglie e figli e per giunta una nuova nascita imminente.
Dissi che i miei familiari nulla sapevano delle armi.
Mia madre li pregava di essere clementi.
Loro volevano un colpevole. Mi dichiarai unico colpevole.
Mi addormentai con questi pensieri.
In quel soggiorno forzato i giorni si susseguivano uguali, venivo portato di fronte al tenente e subivo percosse, mi venivano poste domande alle quali non potevo e non volevo rispondere.
A volte quella bieca pratica veniva inframezzata da comandi secchi e spari che giungevano dal cortile esterno della palazzina adibita a quartier generale, ai quali spesso faceva seguito il gemito di qualcuno.
Sapevo bene di cosa si trattasse, erano fucilazioni.
Un giorno sentii chiara la voce del tenente che dopo l’ultima eco di uno sparo diceva: “Per oggi basta così!”
Si era stancato di fucilare poveretti.
Ormai ero esausto, le forze cominciavano a mancarmi, appena mi riportavano in cella mi buttavo letteralmente sul pagliericcio.
Mio fratello, finalmente, ottenne un permesso e venne in visita. Mi guardò a lungo, preferì non dirmi come apparivo, lo lessi io nei suoi occhi. Mi raccontò che nostra madre stava bene e così le nostre sorelle, mi mandavano a salutare e pregavano, pregavano sempre per me.
Gli chiesi se recasse notizie riguardo alla mia situazione, abbassò gli occhi scuotendo la testa. “Nulla, ma il prete si sta interessando molto di te”.
Per ultimo e solo perché io glielo chiesi mi disse che sua moglie aveva avuto un’altra femmina, lui avrebbe voluto un altro maschio. Gli dissi di portare una carezza alla bimba per me.
Io amavo i bambini e amavo profondamente i miei nipoti. Eravamo una grande famiglia e loro spesso, preferivano le braccia di zio Manuele a quelle di mamma e papà.
Li tenevo incollati con i visetti attenti nell’ascoltare le fiabe che mi inventavo sul momento per farli felici.
Mia madre mi diceva spesso: “Manuele, trovati una brava ragazza, ce ne sono tante che ti tengono d’occhio, che aspetti! “
Io, invece, con mio immenso rammarico, avevo deciso da tempo che non la volevo una famiglia. Mettere al mondo dei figli sarebbe stato bellissimo, li avrei amati, cresciuti, educati, ma non in quegli anni bui, con nulla da offrire.
Me ne ero convinto da tempo.
Quella notte sognai di bambini miei e mi sognai bambino quando il mio maestro delle elementari mi spronava a studiare per bene: “Sei bravo! Hai un futuro Manuele!”
Nel sonno mi misi a recitare una poesia che parlava delle regioni italiane e mi svegliai quasi recitando l'ultima strofa: “Io vi saluto con tutto il cuore”.
Venne un giorno in cui l’interrogatorio con i soliti metodi brutali non bastò più al tenente.
Il suo tirapiedi venne a prelevarmi e, dopo le solite domande da parte dell’uomo: “Chi ti ha dato le armi? I nomi, voglio i nomi!”
“Da dove provengono le armi, ce ne sono altre nascoste? Fai i nomi”, io tumefatto, sfinito, continuavo a tacere. Fece un cenno allo scagnozzo che, tronfio, si premurò di portare all’interno della stanza una specie di marchingegno. Non prometteva nulla di buono!
Il sinistro aggeggio aveva un nome suggestivo, “Coda di rondine”, proveniva dai secoli bui, forse ancor più oscuri di quelli che si stavano vivendo.
Fui io il primo a sperimentare quella macchina di tortura rivisitata.
Le cinghie tirate a dovere si serravano sempre più strette attorno al mio torace togliendomi il respiro e gli aculei appuntiti che alla fine quasi si incastravano, ricordando la coda del volatile, si conficcavano nelle mie carni, cominciai a urlare. Sentivo la mia voce lontana, lontana, io stesso non mi riconoscevo in quelle urla disumane.
Persi i sensi.
Il giorno dopo riprovarono. E riprovarono quello dopo ancora.
Urlai i nomi, vergognosamente, mio malgrado, non seppi più resistere. Sperai che coloro che avevo fino ad allora protetto avessero trovato un nascondiglio sicuro.
Sul viso dell’ufficiale si disegnò un’espressione soddisfatta, ce l’aveva fatta! Era occorso molto tempo, ma mi aveva vinto.
Volpe, l’astuto, alla fine aveva capitolato. Avevamo giocato la nostra partita e il suo sguardo trionfante mi comunicava che ora poteva decidere cosa fare di me.
Venni ricondotto in cella, martoriato nelle carni e nell’anima.
Ricevetti il verdetto da parte dello stesso ufficiale: “Fucilazione”.
Caddi in uno scoramento profondo.
La mattina dopo venne in visita Don Oddo, mi abbracciò forte, tanto che io emisi un sordo lamento, mi doleva dappertutto, si scusò e mi disse che stava smuovendo mari e monti per aiutarmi.
“Manuele, ti porto fuori di qui vivo!”
Mi attaccai a questa flebile speranza, ne avevo bisogno come un assetato che anela alla fonte.
Mio fratello ottenne un altro permesso per farmi visita, gli raccontai delle speranze datemi dal prete, sarei stato liberato al più presto. Mi guardò come si guarda qualcuno che ha perso il senno, scorsi una lacrima fra le sue ciglia che si premurò di celare.
Per alcuni giorni mi lasciarono nella mia cella. Io, il pagliericcio, il secchio d’acqua, il misero pasto e il pitale.
La notte la luna, in quel periodo tagliata quasi a metà, faceva un po’ di luce.
Il mattino udivo il vociare dei bambini che andavano a scuola e l’intonazione di canti dei giovani balilla e delle piccole italiane.
Attraverso la grata della finestra scorgevo il cielo libero da nubi, era di un azzurro commovente e io, avvolto da una profonda mestizia, mi commuovevo, senza ritegno, tanto non mi vedeva nessuno.
Da quella stessa grata scorsi l’arrivo del prete, questa volta accolto dal tenente che per l’occasione indossava un cappotto nero con un collo di ermellino bianco, a sottolinearne l’autorità, come un signorotto d’altri tempi.
Più tardi Don Oddo passò in cella per un saluto, i suoi occhi tradivano un luccichio speranzoso.
Un mattino venni portato nella stanza degli interrogatori, dove trovai il tenente ad attendermi, il viso una maschera imperscrutabile.
Attesi in piedi un tempo che mi parve infinito. Lui si accese una sigaretta e finché non ebbe terminato l’ultimo tiro non proferì parola.
Poi improvvisa la voce che ormai conoscevo nei minimi accenti, nelle minacciose controllate pause: “Che avrai di così speciale, perché mi venga fatta tale pressione per lasciarti in vita”.
Uno dei suoi mi intimò di inginocchiarmi davanti all’ufficiale, ma egli sentenziò: “Ci si inginocchia solo davanti all’Altissimo!”
Mi rianimai con un improvviso rigurgito di grande dignità. Allargai le spalle e mi ersi in tutta la mia altezza a dispetto di dolori e tumefazioni che avvertivo in tutto il mio essere.
La mia voce uscì ferma, scandii ogni parola: “Se avrò la vita salva, se mi verrà fatta grazia, Io perdono tutto il male che qui mi è stato fatto!”
Il tenente ne parve colpito.
Uscii di prigione il giorno dopo, smunto, emaciato.  Uscii di prigione come un miracolato.
Per deambulare mi servii per un buon periodo di un bastone, risentii a lungo dei pestaggi subiti. La mia arcata sopraccigliare sinistra a causa dei violenti colpi rimase perennemente enfia.
Avrei dovuto prestare lavoro coatto alla TODT di Verona.
Uscii di prigione con una nuova prospettiva di vita. Dopo tanto dolore una famiglia mia la volevo.
La desideravo!
Mesi dopo si respirò il primo anelito di libertà.
Passò qualche anno e un giorno la vidi. Una donna più giovane di me di più di una decina d’anni. Occhi come perle di giada verde, profondi, a impreziosire un volto già affascinante contornato da capelli ondulati e neri.
La sentii parlare con voce bassa e modulata sulla quale spiccava un’affascinante erre moscia. Ne rimasi colpito.
Anche lei mi vide.
Scambiammo sguardi, scambiammo promesse, anime affini.
Una cosa ci trovò subito concordi, volevamo una nidiata di bambini!
In questo racconto narro una storia vera, anche se il protagonista veste un nome di fantasia.
È vero il nome del parroco, Mons. Oddo Stocco che si prodigò per salvare “Manuele”. È doveroso ricordarlo anche per gli aiuti che diede a 53 persone di fede ebraica che grazie al suo intervento scamparono alla deportazione.
Nel febbraio del 2011, cinquant’anni dopo la sua morte, gli venne riconosciuto il titolo di “Giusto fra le Nazioni” dallo Yad Vashem di Gerusalemme.
Sono eternamente grata a Mons. Oddo Stocco.
Sono immensamente grata a “Manuele” per aver cambiato le sue scelte di vita, senza le quali io non sarei venuta al mondo.
Orgogliosa di averlo visto guardare avanti privo di rancori.
Fiera di essere l’ultima della nidiata.
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