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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
"La Montagna:le sue genti , dalla storia all’ attualità"XXX EDIZIONE Teviso, 11 gennaio 2025
Segnalato
Dmytro e l’Alpino
di Casanova Fuga Martina
S.Stefano di Cadore (BL)
Dmytro arrivò a novembre. A Kiev aveva lasciato ogni cosa: suo padre, soldato ucraino partito mesi prima e di cui non sapeva più nulla, la madre, insegnante di violino al conservatorio, massacrata durante un terribile bombardamento e mai più tornata a casa, e i nonni, di cui aveva solo un lontano ricordo. A Kiev aveva lasciato i suoi sogni di bambino, le lacrime trattenute e le notti di terrore, la sua felicità e la speranza nel futuro. Era partito di notte, con qualche maglione appallottolato in una borsa di plastica rotta, insieme a una zia che non conosceva e che lo teneva per mano. Lei faceva la badante e non poteva occuparsi di lui, così venne ad abitare da noi e cercammo di accoglierlo nel migliore dei modi. Preparammo la sua cameretta accanto a quella della nonna Oliva, in fondo al corridoio sulla destra.
Da subito mi colpirono i suoi occhi, pieni di dolore e di tristezza, mentre cercava risposte che non sapevamo dargli.
Le prime notti rimasi con lui, perché non riusciva a dormire e sobbalzava ad ogni rumore, aggrappato a un piccolo orsetto che gli avevamoregalato; mi sedevo lì, in fondo al suo letto, e gli accarezzavo le gambe magre e immobili. Temevo di spaventarlo avvicinandomi troppo, finché una sera, mentre la luna faceva capolino tra le cime delle montagne e le stelle danzavano nel cielo, appoggiò dolcemente la sua manina sulla mia e il mio cuore si riempì di mille colori.
Comunicare era difficile, usavamo un’app per capire e per farci capire, ma lui parlava piano; sembrava che lo stesso suono della sua voce fosse troppo forte per un bambino sopravvissuto alla guerra. Con la nonna, però, c’era un dialogo speciale, quasi magico.
Senza dire una parola, si capivano e parlavano una lingua fatta di carezze e di sguardi, di complicità e di emozioni.
Quando noi eravamo impegnati, Dmytro si sedeva accanto a lei, sul divano, e lei lo abbracciava, lo sfiorava con le sue mani che profumavano di lavoro e di vita. Un pomeriggio si addormentò così, con la testa sulle sue gambe stanche, e lei, per non svegliarlo, rimase immobile per più di due ore, sorridendo con orgoglio. La sua prima parola in italiano fu “Grazie” e, solo più tardi, scoprimmo che la nonna gliel’aveva insegnata con impegno e pazienza.
Volevamo che Dmytro conoscesse le bellezze della nostra terra, il Comelico, e ritrovasse un po’ di serenità che solo la montagna può dare. Lo portammo in Val Visdende, dove il monte Peralba si perde nel cielo e dove le malghe, dall’alto, sorvegliano i boschi e i prati.
Pareva che i suoi occhi non riuscissero a contenere tanta meraviglia. Ci sdraiammo sotto un larice maestoso, tra gli aghi ingialliti che profumano di resina e di vento, mentre accanto a noi formiche laboriose continuavano a muoversi instancabilmente.
Tra i rami sbucavano le nuvole, che veloci giocavano a nascondino, creando disegni e contorni. Il silenzio fu interrotto dai campanacci delle mucche che rientravano in stalla. Dmytro osservava ogni cosa con la curiosità e la gioia negli occhi e nel cuore.
A dicembre cadde la prima neve e, durante la notte, ricoprì di magia, pace e silenzio l’intero paese. I tetti delle case, gli alberi, le staccionate, i prati, i fili della corrente. I passi di un gatto grigio e svogliato lasciavano impronte profonde.
Ogni suono pareva ovattato, nessuna macchina lungo le strade imbiancate. Quando Dmytro si alzò, quella mattina, rimase senza parole, tanto che i suoi occhi brillarono di stupore dinnanzi a quel mare incantato che tratteneva e rifletteva i raggi di un tiepido sole.
Una sera, prima di cena, accompagnai Dmytro in camera sua e lui mi indicò quella della nonna. “Questa è la camera della nonna.
Vuoi entrare?”
“Nonna” disse piano.
Non riuscivo a comprendere cosa volesse ma lui aprì la porta, entrò con passo incerto e si guardò attorno.
Poi si diresse davanti al comò, dove la nonna teneva le foto a lei più care. Le guardò tutte con attenzione così come le boccette di profumo che custodiva con cura da molto tempo. Ritornò da me, che lo attendevo appoggiata allo stipite della porta, e insieme andammo a cena.
In camera sua c’era una scatola di colori a pastello e quella sera, diversamente dal solito, non si sedette accanto alla nonna ma si diresse verso la sua camera. Lo seguivo con lo sguardo per carpire i suoi pensieri e i suoi desideri, per entrare in punta di piedi in quel suo mondo segreto fatto di malinconia e ricordi. Prese un foglio e i colori, delicatamente li pose sul pavimento e si sdraiò, perdendosi forse in un sogno o chissà quale congettura.
Lo osservai mentre sceglieva con cura le tonalità che gli sarebbero servite, poi iniziò a disegnare. Ci misi un po’ a capire cosa stesse facendo, i suoi segni erano leggeri, come se temesse di imprimere la sua idea su quel foglio. Poi si interruppe e mi guardò con i suoi grandi occhi marroni e, con la mano, mi fece segno di andare via. C’era una luce nei suoi occhi, una scintilla che non avevo mai notato prima.
“Io vado, allora, ma torno tra poco.”
Annuì con la testa e riprese il suo lavoro. Rimase lì per quasi un’ora, mentre io passavo in corridoio senza farmi sentire, poi ci raggiunse in salotto, dove ci stavamo rilassando accanto alla stufa. Entrò piano piano, con un’espressione sorridente e i suoi occhi allegri riempirono la stanza e le nostre vite di luce; dietro alla schiena nascondeva il suo capolavoro e si capiva che era emozionato.
“Dmytro, hai fatto un disegno?”
“Sì.”
“Ce lo fai vedere?”
“Nonna…”
La sua risposta ci sorprese ma la nonna lo invitò ad avvicinarsi e a sedersi accanto a lei.
Quando fu abbastanza vicino appoggiò il foglio sulle gambe della nonna che indossò subito i suoi occhiali dorati e lo prese tra le mani, senza permetterci di vedere cosa Dmytro avesse disegnato.
Non so bene per quanto tempo rimase immobile a guardarlo senza dire una parola ma i suoi occhi si riempirono di lacrime, mentre un leggero sorriso nasceva sulle sue labbra sottili. Sollevò lo sguardo e incrociò quello del bimbo che, impaziente, aspettava una sua reazione. Lo guardò, mentre una lacrima rigava il suo viso segnato dal tempo, e poi lo abbracciò, comunicandogli così tutto il suo amore, senza bisogno di parole.
La nonna Oliva era una donna d’altri tempi. Abituata al lavoro fin da bambina, tra il pascolo in alta montagna, la mungitura e il trasporto del latte alla latteria del paese. D’estate aiutava la famiglia durante la fienagione, saltando con gli altri bambini sul fieno profumato e polveroso per compattarlo, prima di farlo rotolare a valle. Amava cantare, soprattutto la sera, nella stua della sua casa, dove si riunivano i musicisti del paese e dove l’allegria penetrava tra le travi di legno e vi rimaneva impigliata nei giorni a venire.
La nonna si alzò lentamente dal divano, ripose gli occhiali sulla mensola e prese Dmytro per mano.
“Vieni con me.”
Lui la seguì.
Presi il disegno che era rimasto lì, perché ancora non avevo capito di cosa si trattasse e… Dmytro aveva disegnato un cappello da alpino. Era davvero bello, curato nei dettagli. Sorrisi. Ora sapevo dove erano lui e la nonna.
Mi avvicinai in silenzio, lungo il corridoio, ma mi fermai non appena sentii la voce della nonna che cantava con infinita dolcezza una canzone che non avevo mai sentito prima:
Quando il cielo la valle oscura
e la notte fa più paura,
nel silenzio guardi la luna
e le stelle ad una ad una.
Ed il pensiero prende la mano,
vola nel tempo lontan, lontano.
E ricordi che la tua mamma
ti cantava la ninna nanna
e, piangendo su quel cuscino,
ti parlava di un bell’alpino.
“Madonna bianca, Vergin del cielo,
su quell’alpino stendi il tuo velo.”
Dmytro e la nonna erano seduti ai piedi del letto, lei lo avvolgeva in un abbraccio affettuoso e lui, con il viso all’insù, la guardava con ammirazione. Da anni non la sentivamo cantare, da quando il nonno se ne era andato, ma la sua voce era ancora bellissima, intonata, dolce e sicura.
Prese con lentezza una delle cornici che aveva sul comò, di fronte al letto dove erano seduti, e la mostrò al bambino che la osservava in silenzio.
“Lui era il mio papà, Pietro. Era un alpino. Vedi? Ha il cappello da alpino, quello che hai disegnato tu.”
Dmytro seguiva con i suoi occhi attenti i movimenti delle sue labbra, non so cosa avesse capito, poi le disse:
“Cantare… ancora.”
La nonna sorrise e ricominciò a cantare, un po’ più forte di prima.
Quanto tempo è ormai passato
ma l’alpino non hai scordato,
nella foto splende il suo viso,
lui ti guarda con un sorriso.
“Alpino bello, Alpino buono,
almeno adesso, dammi la mano.”
Chiudi gli occhi col capo chino
ma nel cuore hai la dolcezza.
Il mio amore somiglia a te,
il suo viso fa tenerezza.[1]
Quella sera Dmytro si addormentò nel letto della nonna, cullato dalle parole e dalle note di quella canzone, mentre lei lo osservava e gli accarezzava i capelli. Non ci permise di spostarlo e di portarlo nella sua camera, per paura che si svegliasse.
Per la prima volta Dmytro dormì senza svegliarsi e quella musica forse riuscì a coprire il rumore delle bombe che solitamente rovinavano i suoi sogni di bambino.
Passarono i mesi, Dmytro imparò l’italiano a una velocità per noi impensabile, comprendeva quasi tutto quello che gli dicevamo e riusciva a formulare le sue prime frasi. Ogni sera prima di addormentarsi, cantava quella canzone insieme alla nonna e noi li ascoltavamo, senza disturbare, perché le emozioni che sapevano trasmetterci erano straordinarie.
“Dove è il tuo papà?” chiese alla nonna, una sera, alla fine della canzone.
“Il mio papà è in cielo, Dmytro. È partito quando io ero una bambina come te e non è più tornato.”
“…e il mio papà?”
“Anche il tuo papà è in cielo, insieme al mio. Ci guardano da lassù.”, disse sollevando lo guardo al cielo.
Due settimane prima, infatti, ci avevano avvertito che suo padre era probabilmente morto durante un combattimento difensivo ma che non c’era nessun corpo da seppellire, purtroppo.
Quella triste notizia fu l’ennesimo duro colpo per Dmytro che si rifugiò in camera sua per piangere e disegnare; noi lo seguivamo da lontano, rispettando il suo dolore e abbracciandolo ogni volta che lo desiderava. Anche la nonna fu profondamente scossa durante quel periodo, si rintanava nella sua camera e, distesa a letto, stringeva tra le mani la foto di quel giovane alpino partito per la guerra e mai più ritornato.
Riaffiorarono nella sua mente i ricordi che forse il tempo aveva sbiadito ma che erano sempre lì, dentro di lei.
Il padre, Pietro, era partito all’alba di un giorno d’agosto. La sera precedente c’era un gran fermento in casa, un via vai di paesani che passavano per un saluto e un bicchiere di vino. Oliva era una bambina, allora, e osservava incuriosita e inconsapevole dalla panca della cucina, i piedi a penzoloni. Indossava un vestito chiaro, appartenuto a sua sorella Anna e rattoppato da sua madre in più occasioni. Era appena rincasata dopo un giro lunghissimo nel bosco e dove orgogliosamente aveva raccolto parecchi funghi.
Era stanca ma cercava di capire cosa stesse succedendo. Percepiva una certa malinconia, intrisa di sogni e di incertezza, che riempiva la sua casa e la sua mente.
Suo padre le aveva insegnato molte cose, quasi come ai suoi fratelli maschi e lei ne era davvero orgogliosa. Sapeva fare di conto e leggere a meraviglia, faceva la seconda voce nelle canzoni che lui cantava con i suoi amici, lo aiutava nel badare al bestiame e lei lo adorava. Spesso si incantava a guardarlo, mentre le spiegava come pulire la stalla o come convincere le bestie a rientrare al tramonto.
Lo ammirava per i suoi modi garbati, per come si comportava con sua madre, per come sapeva essere severo e dolce contemporaneamente.
Quella sera c’era qualcosa di strano e Oliva non poteva immaginare che non l’avrebbe più rivisto. Non poteva sapere che il giorno successivo sarebbe partito per la guerra verso l’insensata e impossibile conquista dal Passo della Sentinella e che, fidandosi di chi lo guidava, si sarebbe ritrovato sotto il fuoco nemico, senza nemmeno avere la possibilità di nascondersi, di salvarsi.
Lui e gli altri alpini non sapevano che la loro impresa sarebbe stata un suicidio annunciato ma lo scoprirono, loro malgrado, in un giorno di agosto, morendo da soli con il volto rivolto alla Cima Undici. Oliva non sapeva che la guerra fosse così vicina e così devastante, non sapeva che la sua vita sarebbe cambiata improvvisamente, ma non sapeva nemmeno che sarebbe stata capace di affrontare il futuro con forza e determinazione, come solo una donna di montagna può fare.
Quando giunse la terribile notizia e si infilò senza bussare in ogni casa, il paese si fermò. Tutti corsero verso la casa di Oliva e della sua famiglia finché non arrivò il sacerdote che, bussando alla porta, li informò.
La mamma si lasciò cadere sul pavimento di legno, aggrappandosi invano a qualcosa che non c’era. I bambini le si fecero vicini, senza parlare, e si accovacciarono accanto a lei. Da quel giorno la mamma non si riprese più. Oliva la accudiva come se fosse una bambina e diventò donna, senza nemmeno rendersene conto.
Sua sorella, dopo il funerale, ritornò a casa con il marito e lei divenne madre dei suoi fratelli, perno della famiglia. Faceva tutto ciò che prima faceva sua madre e molte cose che prima faceva suo padre, perché i suoi fratelli andavano a lavorare a giornata e rientravano tardi la sera.
La sua vita continuò così anche dopo la morte della madre, finché i suoi fratelli non crebbero, si sposarono e, finalmente, anche lei si innamorò. Avrebbe voluto studiare, imparare a dipingere ma i suoi sogni rimasero lì, in un cassetto semiaperto che non aveva più guardato.
La guerra aveva stravolto la sua esistenza, la sua infanzia povera ma felice, così come era successo a Dmytro.
“Lo sai, Dmytro. Credevo che le guerre fossero solo un ricordo lontano.”
“La guerra è davvero brutta, nonna. Distrugge tutto, le cose e le persone.”
“Sì. Io sono vecchia, non posso più fare molto, ma tu hai tutta la vita per combattere contro ogni guerra, contro ogni forma di violenza. Devi lottare per chi soffre, per chi ha fame, per chi non può difendersi da solo.”
“Lo farò, nonna, te lo prometto.”
“Promettimi che non chiuderai gli occhi davanti a chi fa del male, a chi approfitta degli altri.”
“Sì. Ho già deciso cosa fare.”
“Che cosa, bambino mio?”
“Diventerò un alpino!”
[1] Somiglia a te è una composizione corale del Maestro Luciano Casanova Fuga, dedicata al padre, ed eseguita dal Coro Comelico di Santo Stefano di Cadore