Segnalato 2 30 - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Segnalato 2 30

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

"La Montagna:le sue genti , dalla storia all’ attualità"

XXX EDIZIONE Teviso, 11 gennaio 2025
Segnalato

Sulla Scandolara
 
di Lora Cristina
 
Valdagno (VI)

 
 
Oggi avresti compiuto ottant’anni e io voglio starti accanto ripercorrendo l’escursione che facevamo quando sentivamo il bisogno di respirare il bosco. Sono seduta su una delle due sedie sul colmo della Scandolara, ma tu non ci sei e probabilmente non puoi nemmeno sentire la mia voce e io sto soltanto immaginando la tua. Ma ho deciso che ti parlerò comunque, sperando che l’eco delle nostre montagne mi venga in aiuto.
Mi manchi, nonno! Mi manchi da morire e, quassù, il tuo ricordo mormora più forte del vento tra gli alberi.
“Bepi, Bepin, Giuseppe, classe 1908, nato il 28 luglio soto el segno del leon” esordivi, parlando di te e del tuo segno zodiacale “forte”. E, in effetti, eri il più forte quanto a dolcezza e bontà. Umile fino a disarmare il mondo, nascondevi la tua malinconia nel sorriso che mi mandavi dalla porta di casa tra baci e raccomandazioni, mentre mi incamminavo con mamma verso un nuovo giorno di scuola:
-                     Studia toxa mia!
E, richiudendo la porta alle tue spalle, concedevi alla nostalgia di appoggiarsi su quel vuoto di sapere che ti portavi dentro perché eri colto, ma non troppo, per via di quella sesta elementare con la quale avevi concluso i tuoi studi, costretto, ancor bambino, a lavorare in nero nella fabbrica dirimpetto a casa. La miseria, raccontavi, non guardava in faccia le braghe curte o lunghe e le boche che gavea fame le xera tante; tuti in casa dovea darse da fare!
Mi sembra di vedere i tuoi occhi fanciulli e lesti quanto le mani nel girare assieme alle macchine del reparto di filatura, mingherlino e scaltro com’eri, pronto a nasconderti dentro i cassoni colmi di lana all’arrivo dei controlli per non inguaiare el paron che tua madre benediceva perché, assieme alla provvidenza di Dio, vi dava di che sfamare la famiglia numerosa.
Ricordo il tuo orgoglio nel raccontare quando arrivò la ‘messa in regola’ e poi la promozione da operaio a capo reparto e la Medaglia di Fedeltà al Lavoro, una fedeltà e una dedizione che ti scamparono dal dover migrare in ‘Merica a sercar fortuna par mantegnere la sposa e i fioi, come fecero i tuoi fratelli e molti figli del primo Novecento.
Sai nonno, per venire quassù ho preso il tuo zaino e il tuo alpenstock e mi sono messa gli scarponi che avevi regalato a mamma. Oh, nonnino, mi sembra di avvertire ancora i miei occhi sgranati sulle tue mani che guidavano le mie nell’imparare a ligar le scarpe; mentre il tuo sguardo, mosso da una sofferenza che non si scorda, mi parlava delle sgalmare che indossavi per andare a scuola scendendo lungo il sentiero che dalla Montagna Spaccata portava in paese attraverso i boschi e che, quando si rompevano, tenevi unite alla meno peggio con uno spago di fortuna; mentre ti assicuravi che il mio cappottino rosso fosse ben chiuso sula petorina, in modo da no ciapare la costipasion, raccontandomi con garbata commozione dello scialle da donna che tua madre chiudeva sulle tue spalle con na gucia de sicuresa, parché la strada che portava a la scola la xera lunga e i inverni i xera duri e giasà e tu camminavi soto el belo e el cativo tempo, coi pomi par la maestra te na man e el soco par la stua de la clase te l’altra, conciato come una femmina, senza provar vergogna per una povertà che toccava gli indumenti e la fame di tutti.
Ma tu non ti perdevi mai d’animo e, tra quella confusione di abiti e miseria, a poco meno di dieci anni, il tuo vigore mascolino uscì allo scoperto. Sgattaiolavi fuori casa e ti mescolavi fra le truppe per imparare a fumare dai soldati, dei quali eri diventato la mascotte e, in mezzo ai quali, ti facesti le ossa per diventare un uomo e, poi, il marito della Celestina, il padre di tre figli e il nonno di sei nipoti, la seconda dei quali, per ordine di nascita, fui io.
Quel mattino d’inverno, c'era la neve a imbiancare le punte delle Piccole Dolomiti, le strade, i campi attorno a casa e quella che sarebbe diventata la nostra Scandolara. Il sole che scaldava il cielo era lo stesso che scaldava il tuo cuore. Parevi impazzito, e di certo lo eri di gioia, mentre correvi per le vie del paese urlando a squarciagola quella frase che da nove mesi cullavi tra i polmoni di pari passo con la gestazione di tua figlia Maria Grazia, mia madre:
-                     Xe nata la toxa! Xe nata la toxa! La xe un spetacolo! Tri chili e oto eti!  
-                     Done, xe qua el Moleta!
-                     Xe nata la toxa! Xe nata la toxa! La xe un spetacolo!
Quel giorno le tue urla e quelle dell’arrotino si sormontavano in una corsa a chi arrivava per primo alle orecchie della gente. Le donne erano scese in strada, alcune con i coltelli da portare ad affilare, altre con le mani sui fianchi per capire che cosa stesse succedendo in quel piccolo paese incastrato come una gemma nella valle. E con la voce rotta dall’emozione ti affacciavi a ogni porta e incalzavi:
-                     Xe nata la toxa! Xe nata la toxa! La xe un spetacolo!
Ebbene sì, ero nata e tu eri inebriato dal mio arrivo non meno di mio padre e, da quel momento in avanti, tra di noi prese forma una complicità esclusiva.
Ero ancora una lattante e le mie parole erano dei rumorosi gorgheggi che risalivano l’ugola minuta per fermarsi sulle piccole mani ficcate in bocca per via di quei fastidiosi dentini che volevano spuntare tra le gengive e che, di tanto in tanto, picchiettavo sui tuoi occhi chiusi, provati da lunghi giorni di coma.
Oscillavo tra la posizione eretta e il rotolare all’indietro, supina sul materasso, indaffarata a intrattenere la tua convalescenza e ad alimentare la preoccupazione di mamma per lo scompiglio che arrecavo alla prescrizione di assoluto riposo, imposta dal medico alla tua malattia.
So bene quanto fosse accesa la contrattazione tra voi due: tu mi volevi accanto e lei temeva che la mia vivacità compromettesse la tua guarigione.
-                     ‘Ndo xea la toxa? - incalzavi con il precario vigore che muoveva i tuoi occhi dentro la stanza a cercare me e fuori dalla finestra a cercare la Scandolara.
-                     La xe de là in cuxina - rispondeva lei, scongiurando il tuo buonsenso e il tacere di nuove  richieste.
-                     Portamela qua - non mollava la presa il tuo filo di voce che si arrabattava nel rantolo dei tuoi polmoni.
-                     Papà te devi stare chieto, se te vui star mejo; con la toxa te xugarè pì vanti.
-                     Portame la toxa! - Non era nella tua indole comandare, ma la tua tenacia, da buon montanaro, non dava tregua ai tentativi di mamma di farti star tranquillo. - Portame la toxa!
E, finalmente, mamma, arresa, mi portò da te mentre le mie gambette mulinavano felicità tra le sue braccia meste e preoccupate.
Ma bastò poco a convincerla che la toxa era forse una medicina miracolosa e sconosciuta ai dottori. Seduta sul bordo del letto, osservava disarmata quella scena messa in piedi da un nonno e la sua nipotina, due esseri umani agli antipodi della vita: io, alle prese con i primi passi nel mondo, e tu, che barcollavi dentro una salute instabile, alla ricerca di qualche anno ancora da trascorrere quaggiù, perché di cose, noi due, ne avevamo davvero molte da fare.
-                     La xe la toxa che me fa star ben! Altro che le medisine! Co’ sto mejo la porto sula Scandolara!
Sorridevi a mamma e a te stesso in quel clima confuso nel profumo di latte dentro al mio biberon, di tè nella tua tazza e di coccole intessute tra mani paffute e dita nodose quanto l’alpenstock che tenevi accanto al comodino.
Da lì in avanti, la vita fu un complice divenire tra me e te.
Ricordi il registratore rosso? Sì, proprio quello che mi regalasti per i miei sei anni. Quanto lo avevo desiderato!
E poi scoprii che lo usavi più tu di me per incidere sulla cassetta le poesie.
Amavi recitarle, conoscevi a memoria ogni verso dello “Sginse”, el libro de Antonio Fornasa, so nono del maestro Fornasa.
Adoravo quel volumetto dalla copertina blu e dall’odore intenso di inchiostro, stampato come si usava a fine Ottocento, con le pagine rilegate con il filo e le parole in stretto dialetto Veneto. Ne eri geloso. Le tue mani lo porgevano alle mie con la venerazione che si porta a una reliquia; io lo prendevo delicatamente e con altrettanta cura lo aprivo alla pagina che mi indicavi e seguivo, in silenzio e con attenzione, la tua declamazione di quei versi per noi tanto sacri.
Dopo una prova di lettura, chiudevamo le porte del salotto, per non essere disturbati; ti accomodavi sulla poltrona e io sedevo per terra, di fronte a te, stringendo il mio registratore rosso tra le braccia con presa salda per non causare sfrigolii durante la registrazione; trattenevo il fiato e cedevo alla tua ugola e alla tua memoria la scena. Con occhi concentrati, attendevo il tuo segnale che anticipava la recitazione e, dunque, premevo il tasto REC, accompagnando il gesto dell’indice con un cenno del capo, a conferma dell’avvio.
A operazione conclusa, riascoltavamo in silenzio. Ispessiti di dolcezza e lacrime, i nostri sguardi annuivano l’uno dentro all’altro nel silenzio che riempiva minuti di contemplazione; poi, nell'intimità che aleggiava nella stanza, rendevamo partecipe il resto della famiglia, pigiando quel tasto PLAY che riproduceva la nostra emozione.
Mi sto commuovendo, nonno. Qualche goccia di pioggia sta scendendo dal cielo e qualche lacrima dai miei occhi.
Vorrei rivedere, almeno per un istante, il tuo sorriso, uno di quelli che mi lanciavi dall’altro capo del tavolo dove sedevamo, ciascuno occupando il proprio posto e il proprio ruolo: quello di allieva, io, e quello di maestro, tu, di compiti e di vita.
Mi scrutavi con le mani intente a sistemare il ginepro per fare la grappa, fingendo austerità mentre, con la testa china sui numeri e le dita indaffarate a contare, mi perdevo tra quei compiti di matematica che più di tanto non mi piacevano e che, invece, erano il tuo forte.
I tuoi occhi facevano la ronda tra le bacche che stavi preparando e il mio quaderno, sopra il quale le mie labbra masticavano a fatica quei conti che a me parevano tanto astrusi e a te tanto banali. Mi lasciavi fare, senza privarmi del diritto di provarci e di riuscirci da sola, intromettendoti tra me e le difficoltà soltanto quando veniva a cercarti la mia vocina arresa:
-                     Nonnino, mi aiuti?
-                     Cosa ghe xe che non va? Gheto paura de quatro numareti in croxe?
Ti sedevi accanto a me e ripercorravamo assieme ogni passaggio e tutto si appianava e ti sentivi importante e felice per la gioia che, al mio rientro da scuola, ti catapultavo addosso per quel “Bravissima” scritto con il punto esclamativo in calce ai compiti svolti a casa e che apparteneva tanto a me quanto a te.
Dentro l'ebbrezza che ci univa nei nostri successi scolastici, esplodeva la mia esultanza che prendeva forma in un andirivieni di passi e salti attorno al tavolo apparecchiato per il pranzo:
-                     “Molaghe de corare torno la tola, che me gira la testa!”
E io ridevo e tu brontolavi e io correvo e tu mi fermavi e io affondavo le mie risa tra le tue rughe e i miei baci tra i pochi capelli che portavi all’indietro, piegati da una passata di brillantina, e i miei occhi furbi si perdevano dentro la predilezione che provavi per me:
-                     “Te lo se che te si el me ocio drito!”
Mi raggiungevano le tue coccole impastate con l’amore e il buon profumo “di nonno” che non smetteva mai di appagare il mio cuore.
Tra una mancia per i bei voti che riempivano la mia pagella e la soddisfazione che riempiva i tuoi occhi con qualche lacrima di gioia, ogni anno, giungeva l’estate, cadenzata da scorribande tra boschi, alpeggi d’altura e ogni altro promontorio che si stagliava sopra la valle, dove la caccia si faceva grossa: di funghi, axarele e pisacan, tanto preziosi per la tua ipertensione.
E tra i tanti, il luglio del 1975 spalancò le porte di casa allo zio Chichi (tuo fratello, Francesco) e la moglie Jolanda, emigrati, ancor giovani, in Argentina e venuti a trascorrere le vacanze, e qualche settimana della loro vecchiaia, tra le montagne  che avevano dato loro i natali.
Passavo le giornate appiccicata a te ad ascoltare il loro racconti su quei quindici giorni di navigazione a bordo della "Eugenio C", sulla Pampa sconfinata che apparteneva alla loro terra, emulando la tua fatica nel buttar giù quella brodaglia succhiata attraverso una cannuccia metallica, che bevevamo soltanto perché sapeva d’America, il Mate. Poi, la notte, andavo a dormire fiera nella brandina ai piedi del letto di mamma e papà, accanto alla finestra che buttava sulla Scandolara, per cedere agli zii dall’accento castigliano la mia stanza, fino a quel giorno, prossimo all’autunno, che li vide salpare dal porto di Venezia assieme ai miei abiti scartati, a bordo della grande nave bianca con la “C” impressa sul muso. Fu una sofferenza osservare quell’imbarcazione sempre più piccola in mezzo al mare, che si stava portando via gli zii americani e i miei vestitini; ma la tua generosità mi convinse che avrei reso felici altri bambini e, nel giro di qualche mese, la tristezza passò con l’arrivo di un ‘grazie’ scritto su una cartolina marchiata “Buenos Aires”.
E, in mezzo a tutti quegli addii, qualche anno dopo, arrivò anche il tuo.
Poche settimane separarono la nostra ultima salita sulla Scandolara imbiancata dalla neve dal mio primo "a tu per tu" con la morte che ti portò via per sempre, nella notte del 26 dicembre 1981.
Rimbomba ancora nella mia mente il grido secco del telefono nel silenzio del sonno profondo. E poi, la corsa all’ ospedale che mi vide accanto a mamma che non riuscì a contraddire il mio desiderio di vederti; sapeva che eravamo ugualmente cocciuti ed era impossibile averla vinta quando si trattava di tenerci separati. Avevo dodici anni e mi pensavo coraggiosa, ma quando ti vidi, immobile sul letto, con gli occhi chiusi e il pallore di una vita che non ti apparteneva più, compresi che il coraggio se n’era andato assieme al tuo respiro e che una parte di me si era fermata assieme al tuo cuore.
Non si è mai scollata dalla mia mente la sofferenza incisa sul tuo viso.
Avrei voluto stringerti la mano, per trattenerti quaggiù, come facevo nei miei primi mesi di vita, ignara della tua malattia, pensandoti semplicemente addormentato; come facevo ogni volta che salivamo quassù.
Avrei voluto darti un bacio, con l’illusione che fosse il bacio della buona notte, pur sapendo che sarebbe stato di addio.
Non riuscii a fare nulla di tutto ciò. Quando arrivai da te era rimasto soltanto un corpo denudato della vita, un volto che non avrebbe potuto cercarmi mai più.
Quanto accadde da quel momento in poi appartiene a un vuoto che nemmeno i ricordi riusciranno a colmare per un numero di anni di cui non avrò mai contezza.
Ero bambina, eppure provai dentro di me l’insistenza di un dolore lacerante quanto quello che, sapevo, avevi provato tu.
Sei stato la prima delle mie parole e la prima morte della mia vita, nonno.
Ora  devo andare, la sera sta prendendo il posto del giorno e qua, sulla Scandolara, il bosco si sta facendo sempre più buio e la sedia accanto a me sempre più vuota, ma il tuo profumo rimarrà sempre inciso tra questi alberi, come le nostre iniziali sul faggio che guarda la valle.
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