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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
"La Montagna:le sue genti , dalla storia all’ attualità"XXX EDIZIONE Teviso, 11 gennaio 2025
Segnalato
Le bandiere
di Chenetti Loreta
Belluno
“Svelto! Il tenente ti vuole! Corri!”
Il ragazzo raccoglie il cappello, lo calza al volo sopra il passamontagna ed esce dalla baracca incamminandosi a passo svelto lungo la trincea scavata a mezza costa, sormontata da sacchi di sabbia e filo spinato. Da una postazione di vedetta un soldato lo saluta mentre tiene l’occhio fisso sul versante opposto della montagna, terra degli altri, terra di nemici.
Giacomo si presenta all’attendente che lo aspetta davanti ad una grotta chiusa da una palizzata di assi e da un uscio sgangherato.
“Signor Tenente, il soldato Dorich Giacomo è arrivato.” lo annuncia girandosi verso l’interno. Giacomo entra, lasciando fuori la livida luce primaverile che rende uniforme e plumbea sia la neve che la roccia, accolto dal fievole chiarore di una candela e dal medesimo freddo che sperava di aver lasciato all’esterno.
La stanza, ricavata nell’anfratto, è quasi una fessura tra le rocce, la parete esterna fatta di tavole di legno, le altre tre di roccia viva.
Senza girare la testa Giacomo vede che l’ufficiale dorme su un saccone pieno di paglia come quello usato dai suoi soldati; ci sono le stesse cassette di munizioni che funzionano come tavolino o come scranno, stessa stufa abborracciata con il tubo del camino costruito con barattoli di latta incastrati l’uno all’altro, che non scalda ma affumica lo spazio con un odore amaro di cenere bagnata.
In un cantuccio uno zaino gonfio e un fucile con la baionetta già innestata. E libri. Appoggiati un po' dovunque.
Giacomo si chiede cosa contenga lo zaino del tenente, quali tesori oltre agli equipaggiamenti tecnici, le uniformi e le razioni alimentari.
Nel suo ci sono le lettere scritte da sua madre, una foto della sua famiglia scattata in occasione del matrimonio della sorella maggiore, il santino di San Giorgio che don Graziano aveva donato alla fine della messa ai ragazzi che partivano per il fronte: cose prezione che tiene chiuse in una grossa busta di tela cerata. E poi c’è il coltello con la lama curva brunita dalle molteplici affilature, usato dal padre, cacciatore per passione e per necessità, per disossare le prede. Al momento della partenza per il fronte, quando già si trovava sulla porta e cercava di non ascoltare i singhiozzi sordi delle donne di casa chiuse in cucina per non vederlo andar via, il padre lo aveva raggiunto e senza parole, senza spiegazioni, senza gesti eccessivi, gli aveva allungato il coltello.
“Ma, padre! - gli aveva chiesto confuso - come farai a caccia senza il tuo coltello?”
“Non è più tempo di caccia adesso – gli aveva risposto - I boschi sono pieni di soldati che salgono e scendono dalle montagne.
I cervi, se sono furbi, cambieranno casa. Ma ricorda che quando sarai di ritorno me lo dovrai restituire perché ci tengo.
Mi serve, così potrò tornare a cacciare.”
La porta di casa si era chiusa su quell’ordine che pareva quasi una preghiera e Giacomo aveva fatto in tempo a vedere il mento del padre tremare.
L’ufficiale, in piedi davanti ad uno specchietto agganciato ad una trave, si sta radendo a secco.
“Signor Tenente!” Un battere ovattato dai tacchi degli scarponi, un fremito che forse è solo freddo.
“Riposo, soldato. Riposo.”
Giacomo, spalle dritte e gambe rigide, non sa dove mettere le mani e rimane così, fermo sull’attenti, gli occhi sul rasoio dal manico di madreperla che raschia la gola dell’uomo in un breve su e giù che lo incanta.
“Mi hanno detto che sei di qua, che conosci queste montagne. É così?”
“Signorsì, signor Tenente! Vengo dal paese al di là del passo. Conosco bene queste rocce.”
“Dal Comando è arrivato un messaggio. Un ordine…”
Giacomo ha un altro tremito. Non sa se per il gelo che lo attanaglia o per l’imbarazzo di essere messo a conoscenza di dispacci riservati agli ufficiali. Tace. E aspetta.
“C’è quella cima… lassù. Cima Uomo, posizione strategica tra noi e loro. È quella che per prima si illumina al mattino, quella che è visibile sia dalle nostre trincee che dai loro accampamenti. Si è saputo che questa notte uno dei loro salirà per piantarci la loro bandiera.
Il Comando ritiene che sarebbe uno smacco svegliarsi e vedere sventolare il loro vessillo sulle nostre teste così ha deciso che saremo noi a piantare il tricolore su quei sassi. Voleva che ci salisse un drappello, una processione che nell’ultimo tratto sarebbe stata visibile come una fila di formiche su una montagnola di zucchero, perfetti per il tiro a segno dei loro cannonieri. Sono riuscito a convincerli che un uomo, uno in gamba, avrebbe potuto avere maggiori possibilità di non essere intercettato… anche se la difficoltà della scalata in notturna...se la luce dell’alba lo sorprende nel tratto più esposto… e quindi…”
Sembra che il tenente abbia difficoltà a continuare il discorso. Giacomo attende. Nella sua breve esistenza ha sempre ricevuto ordini e li ha sempre eseguiti. La madre, il padre, gli adulti e poi l’esercito con i suoi superiori. Non mette in discussione i comandi che gli vengono impartiti perché riconosce l’autorità di chi li espone, per questo ora non capisce la reticenza del tenente nel voler rimandare quello che, in cuor suo, è già chiaro.
“...Quindi il Comando vuole che sia nostra la bandiera a sventolare su Cima Uomo. Te la senti di salire questa notte su quel cono di ghiaccio e piantare il tricolore così da far contenti i generali? Te la senti di arrampicarti alla luce della luna, da solo, aiutandoti con ramponi e piccozza? Te la senti?”
Giacomo non esita.
“Signorsì! Mi arrampico su queste cime da quando ero bambino!”
Il tenentino guarda il viso glabro del soldato, lo sguardo limpido e fiducioso, le labbra piene, infantili e pensa: “Maledizione!
Lo sei ancora, un bambino e io ti mando a morire perché un gruppo di tronfi generali possa togliersi uno capriccio.”
Giacomo guarda il suo ufficiale, occhi infossati da studioso sormontati da occhialini tondi con una leggera montatura dorata, labbra sottili e pensose, mani dalle dita lunghe, affusolate, macchiate d’inchiostro. Considera la mascella contratta, la piega amara della bocca e la preoccupazione che incide la fronte con una ruga profonda, gli viene facile cercare di rassicurarlo.
“Ce la posso fare.”
“Dovrai partire a breve, quando la luce del giorno cede alla sera. Quando le ombre si allungano e si mescolano ai crepacci, agli spuntoni di roccia, alle macchie di neve e ghiaccio. Avrai con te solo gli attrezzi per scalare la vetta e la bandiera ripiegata.
Nessun’arma perché ti intralcerebbe la salita. E quell’altro che salirà con la sua bandiera dovrai… ecco. Non deve arrivarci in cima.
Te lo ripeto. Pensi di farcela, soldato?”
“Signorsì, signor Tenente!”
E che altro deve dire?
Prima di lasciare la sua baracca ripone la bandiera nello zaino svuotato dalle cose non necessarie. Infila la busta cerata con i suoi tesori tra la maglia di lana e il giaccone di panno. Il coltello prende posto nella tasca esterna dei pantaloni di lana serrati sui polpacci dalle fasce grigie. Sulla spalla la corda, tra le mani la picozza.
I suoi compagni lo guardano partire, la voce è trapelata e sanno che l’incarico è rischioso, quasi una missione suicida.
Qualcuno gli rifila una botta sulle spalle, un altro gli offre qualche bustina di cordiale. Lo stesso cecchino di prima, sempre con lo sguardo fisso sul versante nemico, lo rassicura. “Ti proteggo io le spalle, Giacomo.”
La salita verso la Cima Uomo non è facile neanche di giorno ma il primo tratto è ancora cosparso da grossi massi e radi cespugli secchi, coperti da cumuli di neve tra i quali si muove agevolmente, invisibile agli occhi del mondo. Riesce a percorrere un buon tratto mentre i primi astri si accendono nel blu. La luce della luna gioca con le nuvole creando ombre vive che si muovono, si nascondono, appaiono e scompaiono. Giacomo si arrampica con passo agile e tranquillo. Gli pare quasi di avere il padre qualche metro più avanti che gli indica in silenzio la strada da percorrere. Non ha mai parlato tanto, suo padre. Qualche grugnito, qualche cenno con la mano senza neanche guardarlo negli occhi tanto che da piccolo ne aveva paura. Accompagnandolo nei boschi a caccia di caprioli o di cervi aveva però imparato a riconoscerne il carattere riflessivo, l’esperienza accumulata negli anni, i princìpi che ne facevano una brava persona. Un giorno, mentre camminavano in un bosco alla ricerca di porcini, avevano trovato due cuccioli di lupo disidratati ed emaciati che uggiolavano accanto al corpo senza vita della madre. Giacomo, di sottecchi, aveva osservato il padre che, con la pipa spenta in bocca, guardava la scena senza alcuna espressione in volto poi l’uomo aveva sollevato i due lupacchiotti che cercavano di mordergli le dita e li aveva infilati nella gerla sopra i pochi funghi che avevano trovato. Aveva poi raccolto la carcassa della lupa e, tenendola tra le braccia un po' discosta dal corpo, si era incamminato fino ai piedi del Sass Fret, dove si aprivano stretti cunicoli tra le rocce. In uno di questi vi aveva infilato la lupa e con un brontolio sordo, aveva esortato Giacomo a sigillarne l’imbocco con delle pietre. A lavoro finito il padre si era incamminato verso casa.“Cosa facciamo dei due lupi? Perché non li hai uccisi? Quando diventeranno grandi verranno a mangiarci le capre e le vitelle!” lo aveva interrogato Giacomo, ansimando mentre cercava di tenere il passo.
Il padre si era fermato guardandolo per qualche istante in silenzio poi aveva parlato. Un discorso lungo che sul momento Giacomo non aveva capito.
“Ce li portiamo a casa! – gli aveva detto - Cerchiamo di renderli autonomi e poi li liberiamo. Sarà l’istinto a dir loro quel che dovranno fare quando saranno adulti. Noi, adesso che sono piccoli ed indifesi, li aiutiamo. Se verranno a mangiare le nostre capre, li combatteremo. Perché così va il mondo. Ricordatelo. Un uomo non schiaccia i deboli e non scappa davanti ai forti.”
Guardandolo, studiandolo, imitandolo, Giacomo era diventato grande.
Rammenta la prima volta che era salito verso la Cima Uomo con un gruppo di adulti. La via era già stata da tempo individuata e tracciata e Giacomo aveva scoperto che nella roccia erano stati inseriti staffe e gradini di acciaio nei quali ancorarsi e salire in sicurezza.
La ferrata gli aveva permesso di stare al passo con gli altri, dandogli fiducia.
Ora raggiunge senza difficoltà il punto di inizio del cavo metallico al quale agganciare il moschettone. Un profondo respiro, uno sguardo verso l’alto e si issa saggiando, con le dita assiderate e con la punta dello scarpone, quel minimo di sporgenza che gli permette di avanzare.
Il firmamento livido ed abbagliante di gelo lo sovrasta e lo circonda man mano che sale.
Gli scarponi chiodati grattano il suolo gelato, frammenti di ghiaccio e rocce si sgretolano rotolando a valle. Su una cengia si ferma e prende fiato, un’occhiata alla luna che illumina il cielo terso, riempito di frammenti lucenti di stelle che baluginano tremolanti come un respiro. Resta con gli occhi rivolti verso quell’infinito che lo fa sentire solo e piccolo fino a quando un rotolare di massi, alla sua destra, ed un grido soffocato lo scuote.
Lo vede. È l’altro. Quello che porta l’altra bandiera che vorrebbero far innestare sulla cima. Il nemico. Vede la sagoma dondolare a poche decine di metri sopra di lui, incrodata sotto uno sperone di pietra, la corda attorcigliata ad una gamba.
“Bene! – pensa. - Ci arrivo io sulla vetta e sarà il Tricolore che sventolerà nell’aria gelida della Cima Uomo!” ma è un pensiero che gli fa male in gola.
Nel silenzio della notte Giacomo sente l’altro singhiozzare con piccoli gemiti sordi e pensa che sembra il lamento di un bambino.
Guarda quel corpo oscillare lento a destra e a sinistra e ripensa al rasoio del giovane tenente che andava su e giù graffiando la pelle, rivede il suo sguardo vecchio, la voce triste con cui, forse, lo mandava alla morte così come un altro ufficiale aveva fatto con il ragazzo appeso tra le rocce a testa in giù.
“Mutter...Mutter…” il ragazzo non ha neanche fiato per piangere ma chiama, in uno sgomento infinito, chi non può aiutarlo, ora non più.
Giacomo riprende a scalare ma poi pensa a suo padre, ai cuccioli di lupo. Alle parole con cui, in tono monocorde, lo aveva redarguito in un giorno lontano: “Un uomo non schiaccia i deboli e non scappa davanti ai forti.”
Le mani guantate artigliano speroni di pietra, si issa guardando in alto, scegliendo un’altra via. Si avvicina all’altro, lo mette in sicurezza e tolto il coltello dalla tasca, recide con un colpo secco la corda attorcigliata attorno alle gambe del nemico.
I due si guardano. La luce della luna si fa spazio nelle iridi dei ragazzi, gli occhi dell’uno negli occhi dell’altro. Aggrappato alla pietra il ragazzo trema. Giacomo strappa coi denti una bustina di cordiale e la infila tra le labbra livide del nemico. La pelle è grigia di paura, di stanchezza e di freddo. Con fatica Giacomo estrae la grossa busta cerata in cui sono contenuti i suoi tesori e la infila sotto il maglione del ragazzo per formare uno scudo contro il freddo, massaggia le dita contratte e lo abbraccia cercando di trasmettergli calore.
Gli parla anche, parole che si perdono nell’aria gelida della notte che si fa mattina, gli parla come parlerebbe una mamma che vuol calmare il bimbo spaventato. Parole che si spandono attorno a loro e rallentano i tremori e i singulti.
Ancora un singhiozzo, ma è l’ultimo. Giacomo a gesti gli indica i passaggi da seguire per raggiungere la vetta che è vicina, molto vicina. Uno con l’altro si aiutano, si spingono, si issano.
L’alba li trova lassù, sdraiati a terra sulla neve e sul ghiaccio, ansimanti, i corpi sudati dai quali evapora la paura e la stanchezza.
Con gesti lenti, misurati, gesti da vecchio, estraggono le bandiere dagli zaini, le scuotono al vento, le innestano abbracciate ad un unico pennone e le lasciano garrire in un gioco di intrecci.
I due ragazzi, le braccia dell’uno sulle spalle dell’altro, le guardano sorridendo senza parole.
I loro sono sguardi orgogliosi come quelli che un giorno, forse, potrebbero rivolgere ad un figlio venuto al mondo.
Il sole, sorgendo ad est, illumina la cima. Il mondo sotto di loro vede le stoffe sventolare nel cielo
mescolando colori e significati.