Segnalato 1 29 - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Segnalato 1 29

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna:  le sue genti, le storie di ieri e di oggi”

XXVIII EDIZIONE Arcade, 5 gennaio 2023
Segnalato

"FEMIA"
di Lora Cristina Maria
Valdagno (VI)
 
 
«Portami a ballare!»
«‘Femia, io non so ballare!»
«Come? Mi hai insegnato tu a ballare! E non chiamarmi ‘Femia, il mio nome è Eufemia!»
«Che ti accade?»
«A me? Tu piuttosto, stai bene? Ti chiedo di portarmi a ballare e mi domandi che cos’ho! Ho voglia di ballare. È sabato oggi o no?»
«Sì!»
«Ecco! Stasera andiamo a ballare, Gianni.»
Gianni! Mi aveva chiamato Gianni!
 
Ero basito, fermo con i piedi allineati a ricomporre lo sbandamento delle mie gambe nel vuoto che correva tra me e il sofà sul quale era seduta nonna, che imperterrita continuava a premere i tasti sul telecomando in uno zapping casuale quanto le sue parole.
 
Ero rientrato la notte prima dagli Stati Uniti dopo uno stage di addestramento cinofilo con i miei Golden Retriever e nonna non capiva più chi io fossi e neppure io riuscivo a collocare le sue affermazioni sconclusionate dentro una spiegazione plausibile.
 
Prima di partire, avevo percepito in lei un certo disagio, ma non pensavo a un vertiginoso declino della sua mente. Giustificavo il suo essere, talvolta, spaesata con il mio periodo di assenza che sarebbe seguito di lì a breve. Non lo aveva mai palesato, ma il rimanere a casa soltanto con mio fratello Pietro non la entusiasmava.
 
Pur vivendo di buon grado assieme a entrambi, il legame che la stringeva a me non aveva la stessa intensità nei confronti di Pietro. Schivo fin da piccolo, aveva relegato la sua vita a uno stile che poco si scostava dalla sopravvivenza; manteneva il distacco da ogni forma di entusiasmo così come da Eufemia e, non di rado, anche da me. Lavorava, al mattino, presso il forno del paese e il resto della sua giornata era un divenire di ordinaria attesa che separava il rumore in uscita del marcatempo da quello in ingresso del giorno successivo.
 
Avevamo perso i nostri genitori all’antivigilia del suo decimo compleanno. Io avevo quattro anni. Nonna Eufemia abitava lontana da noi; l’avevamo vista forse una volta o due e, invero, non era nemmeno nostra nonna, bensì una prozia di mia madre; l’unica parente in grado di farsi carico di noi.
 
Ci venne a prendere prontamente alla notizia della morte di mamma e papà in un incidente stradale. La sua  sagoma scese lesta dalla jeep, comparendo tra la polvere sollevata dalla frenata sull’asfalto; dopo una presentazione sbrigativa, con la stessa rapidità ci portò nella sua casa. Nitido è il ricordo del mio sguardo riluttante, fermo sul suo aspetto ingiustamente anziano, pronunciato da rughe sottili che si confondevano nel volto tagliato da ciocche di capelli bianchi. Nonostante la bellezza dei suoi occhi cerulei e il suo simpatico appellarsi ‘Femia, anziché Eufemia, il nostro primo incontro non entusiasmò nessuno di noi tre. Lei non aveva figli e non era avvezza ad accudire due ragazzini che non sapeva nemmeno da che parte iniziare a badare, e Pietro e io, abituati al mare, non eravamo pronti ad accettare di crescere in un paese di montagna, ai piedi delle Piccole Dolomiti, accanto a una persona devota alla solitudine.
 
La baita era circondata da faggi accesi in un verde vivace, che moriva tra i ricordi che affollavano l'intonaco spalmato sulle pareti assieme al dolore di Eufemia per un uomo che non c’era più, suo marito Gianni. Ritratti antichi di lei e Gianni, muniti di piccozze e zaini, si mescolavano a foto di cani, a trofei e a stampe che, solo con il tempo, ricondussi al suo amore per gli animali.
 
Immobili in ingresso, Pietro e io non riuscivamo a separarci dal nostro scarno bagaglio, stretti l’un l’altro nella mano libera dalla sacca. Una luce lesinata filtrava dai balconi semiaperti appoggiandosi sulle gote di Pietro a sottolineare un percepibile pianto. Mi aggregai al suo dolore. Liberai le lacrime tra le fossette disegnate sulle mie guance, cordoglio di un futuro che, né io né lui, avevamo scelto: orfani e sradicati dalle nostre origini. Feci per asciugarmi gli occhi e il gocciolio del naso con la manica della maglia, quando qualcosa di umido anticipò il mio gesto. Sobbalzai! Un cane mi stava leccando la faccia. Pietro era già schizzato fuori casa assieme al suo fardello, terrorizzato da quella bestia che a me parve invece simpatica. Fu dall’incontro con Big, il bernese di nonna ‘Femia, che Pietro e io ricevemmo il battesimo di quella nuova vita che ci avrebbe condotti all’età adulta: lui, accentuando il distacco per il mondo che gli aveva strappato i genitori, io riavvicinandomi a esso nell’alito di quel cane che riuscì, nonostante tutto, a portarmi il calore che se ne era andato con mamma e papà.
«Pietro!»
«Che c’è Alberto?»
«‘Femia è peggiorata! Mi ha chiesto di portarla a ballare e mi ha chiamato Gianni. Perché non me lo hai detto mentre ero via?»
«Non volevo allarmarti» tagliò corto Pietro, cercando di nascondermi che aveva già avviato le pratiche con le assistenti sociali del comune per l’inserimento di nonna in una casa di riposo.
Mancavano soltanto il calcolo della retta e qualche firma.
Ripudiai istintivamente la fredda razionalità di mio fratello nei confronti di quella donna che, sebbene inizialmente avessi annoverato a un mondo che nulla aveva a che spartire con il nostro, nel tempo, era riuscita a costruire attorno a noi l’unica famiglia in grado di non dimenticare chi noi fossimo.
Aveva reso possibile il ricordo delle nostre radici ancora attecchite a una terra che era appartenuta alla nostra infanzia e per la quale sentivamo, nonostante il brutale sradicamento, ancora un forte legame.
Quella prozia, sbucata a bordo di una jeep in mezzo alla polvere, aveva abiurato la sua solitudine, accollandosi la preziosa eredità di renderci uomini che un destino prematuro aveva strappato ai nostri genitori.
Eufemia si fece amare giorno dopo giorno sempre di più e io iniziai ad adorarla e a seguirla con la stessa ammirazione con cui un allievo segue il maestro. Mi trasmise l’amore per la montagna, i boschi e i cani che le apparteneva e che sentivo di dover portare avanti come una tradizione di famiglia, al punto tale che decisi di diventare addestratore cinofilo, come lo era stata lei in gioventù.
E ora, mio fratello era ostinato a condannare a un ospizio di città quella stessa donna, prozia o nonna che fosse, che mai smise di accogliere le nostre vite come fossero frutto del suo utero.
 
Sorretto da quel ricordo, ritornai da Eufemia annichilito tra i miei cani che avevano iniziato a seguirmi come due guardie del corpo; come se avessero percepito il bisogno di protezione che in quegli attimi cercavo per me e per lei. La sentivo indifesa mentre i miei occhi le si rannicchiavano accanto, sulla poltrona a cullare il suo sopore.
Il ticchettio delle zampe sul parquet e lo scodinzolio dei cani sui suoi polpacci la destarono:
«Bella, Lord siete tornati! Alberto, com’è andata in America?»
La ritrovata lucidità della sua mente imbarazzò la confusione della mia.
«Nonna, come stai?»
«Meglio ora che siete a casa. Lord, prendi gli snack.»
Lord si avvicinò alla vecchia credenza e, con la zampa appoggiata al pomello, aprì l’anta e strinse tra gli incisivi due ossa. Ne porse uno a Bella accucciata ai piedi di nonna.
 
Il sorriso di Eufemia profumò la stanza.
«Bravo!» Nonna gli accarezzò il capo senza che lui distogliesse lo sguardo dal suo premio.
La scena palesò nella mia mente l’immagine di Meg, la moglie di Robert (il mio coach), in quella stanza negli Stati Uniti dove viveva assieme ai cani addestrati dal marito per supplire a ciò che l’Alzheimer le aveva tolto.
Uscii di scatto, folgorato da una soluzione così lucida che non avrebbe potuto non essere la più appropriata per Eufemia.
 
«Pietro, i cani! I cani sono ciò che serve a nonna, non una casa di riposo.»
Pietro sollevò un occhio e un sopracciglio dal giornale che stava leggendo e mi ammonì severo:
«Alberto, non hai capito. Nonna ha l’Alzheimer! Sei rientrato stanotte dopo un’assenza di due mesi e pretendi di decidere la sua sorte. Non hai parlato con i medici, io sì. Fatti da parte e lascia che chi se ne intende prosegua con la decisione presa, starà meglio in una struttura in grado di seguirla, anziché seduta su una vecchia poltrona quanto lei. Potrai andare a trovarla quando vorrai.»
 
Mi sentii sbriciolato sulla sedia che resse la caduta delle mie gambe, mentre il gelo che mi investì attraverso le parole di Pietro salì come un brivido a paralizzare le mie labbra, improvvisamente ero incapace di ribattere il suo fare categorico.
Sembrava non esserci verso di convincerlo, sempre più sicuro di liberarsi di lei.
D’un tratto, la rabbia soppiantò la mia inerzia.
 
«Io non ci sto! Seguimi, Pietro!»
Entrai nella stanza di nonna sicuro di dimostrare a mio fratello ciò che le parole avevano fallito, ma il sofà vuoto fu una sentenza a mio sfavore: erano rimasti soltanto i cani intenti a rosicchiare il loro osso. Nonna, mentre parlavo con Pietro, era sicuramente lucida e aveva colto al volo nel nostro dialogo la sua condanna e la sua fuga.
 
 
Le ricerche dei soccorritori proseguivano già da una notte e un giorno e solo Dio sapeva che cosa fosse accaduto a Eufemia. Calò nuovamente il buio e il passare del tempo metteva in discussione la sua vita sempre più. Ero deciso a muovermi da solo. Dovevo trovarla. Aprii il cancello: i cani attraversarono il prato e si infilarono nel bosco scomparendo tra il nero che sbarrava la mia vista. Cercai di seguire le loro tracce, ma le foglie secche avevano depennato ogni passaggio.
 
Camminavo a fatica tra rovi, alberi e rimorsi per aver parlato con Pietro ignorando che lei avrebbe capito. Non c’era luce, nemmeno la luna voleva darmi una mano in quel suo quarto calante. Correvo e piangevo. Ero un uomo, ma il dolore non era zona franca né per i miei anni, né per la mia mascolinità.
 
Nel silenzio che teneva ferma la montagna e le fronde, udii un cane abbaiare: i balzi di Bella si snodavano oltre un filo spinato incapaci di raggiungermi. Intravidi le pietre sconosciute di un rudere.
 
«Bella, dov’è Lord?»
Bella non smetteva di abbaiare, stavo perdendo mia nonna e forse anche Lord. Il fiato della corsa avvampava la paura per ciò che temevo. Mi infilai in uno slargo tra i reticolati di quella proprietà ermetica. Raggiunsi Bella che, lesta, sgattaiolò nel pertugio di una vecchia porta. Afferrai una spranga e allargai il passaggio. Strisciai. Non vedevo nulla. Confidai nella benevolenza delle macerie traballanti sotto ai piedi. Scorsi a ridosso di un muro il vivo di due occhi che si aggrappavano ai miei, sorvegliati da quell'unico apostrofo di luna che separava i buchi sul tetto.
 
«Lord, che succede?»
Dipanai i rovi raggomitolati nel rudere. L’ansimo del mio cane proteggeva un respiro rifugiato tra il suo pelo; sotto ai polpastrelli percepii il rugoso tepore di un essere umano. Lord si scrollò e in un gemito la voce uscì allo scoperto:
«Gianni, sei venuto a prendermi? Non voglio finire nel ricovero tra i vecchi, portami a casa. Tienimi con te                                          Gli occhi del buio erano quelli arrotolati tra le lacrime di nonna. Odoravano di muschio e di paura.
Mi mancavano le gambe, nel mio istinto trovai la forza di prenderla in braccio.
«Che è accaduto a Eufemia, Alberto?»
 
Andrea, l’anziano medico di famiglia, passò a salutare nonna, come ogni lunedì, nonostante fosse in pensione; gli raccontai della notte precedente e del rudere dove mi aveva condotto Bella.
 
Andrea si illuminò:
«Eufemia abitava lì dove, assieme a Gianni e a suo padre, allevava e addestrava i cani. Le persone malate di Alzheimer ripetono ciò che nel passato è stata la loro quotidianità. Sicuramente si sarà recata con Bella e Lord in quei luoghi. Di tua nonna i cani conoscono l’odore e ricordavano dove cercarla.»
 
La fuga di nonna rese Pietro ancor più determinato, ma io lo fui più di lui e con l’aiuto di Andrea cercai di comprendere il nuovo mondo a cui la vita di Eufemia era destinata ad appartenere. Andrea si offrì di assisterla durante il giorno; Robert mi aiutò ad addestrare Bella e Lord a essere i suoi cani di servizio.
 
«Gianni, portami a ballare.»
Mi sussurrò, meravigliosa nel suo abito di strasse identico a quello che la ritraeva nella foto assieme a nonno; poi, ammirò la donna canuta che vedeva nello specchio di fronte a lei e che la fissava dall’azzurro dei suoi occhi. Il loro sorriso era reciproco. Tentò di dirle qualcosa, ma ogni volta che stava per parlare si fermava perché anche l’altra stava per muovere le labbra ed entrambe tacevano di nuovo, fino a quando il suo sguardo si posò su Lord e, udendo il silenzio della donna nello specchio, iniziò a parlarle, chiamandola “mamma”.
«Prendi la spazzola, Eufemia; - le dissi, accarezzandole la mano ancora morbida e guidandola verso l’unico oggetto appoggiato sulla mensola - Pettina i tuoi capelli».
Le setole scivolarono nella chioma briosa. Si pettinava e sorrideva. La sua mansueta obbedienza consolava le mie lacrime.
Le porsi l’acqua di colonia e lei si profumò il collo.
Le passai il rossetto e lei si disegnò le labbra.
Colmi di tenerezza, i miei gesti assecondarono la donna che usciva dallo specchio con le braccia tese verso Gianni per essere condotte al ballo.
 
Feci partire la musica dall’ antico grammofono posto sul fondo della stanza, la strinsi a me e iniziammo a ballare                                La sentivo donna nella fragilità che la narrava bambina tra i piedi mossi dalla danza.
 
Il decorso della malattia non privò Eufemia della sua tranquillità che, a volte, era eccessiva. Soffrivo nel vederla spenta. Fu così che arrivò Byron, il cucciolo che mi ero intestardito di addestrare assieme a lei, ripensando a quanto dettomi da Andrea sui malati di Alzheimer e sul loro rivivere la quotidianità del passato.
Il legame tra i due scattò istintivamente, ma nonna non riusciva a istruire Byron; mancava qualcosa per agganciarla al suo vissuto, qualcosa che non sapevo cogliere.
Avevo bisogno di riordinare la mente in quella sera di febbraio quando mi diressi verso l’alpe, alla proprietà dove nonna si era rifugiata e che scoprii essere sua.
Osservai quello slargo nel bosco, coperto d’erba e di stelle: quale spazio migliore per l’addestramento!
Di lì a pochi mesi il mio progetto decollò e portai nonna con me al campo anche se non potevo ignorare che sarebbe rimasta nel suo mondo disorientato.  
Entrai con la mia jeep estasiato per ciò che sentivo appartenere al sangue mio e di Eufemia che, taciturna, sedeva accanto a me. Il suo sguardo diveniva via via sempre più vivace. La aiutai a scendere. Si sdraiò sul prato e accarezzò l’erba e chiuse gli occhi circondata dai cani e dalla primavera.
Stava respirando un passato che viveva al presente.
Rassicurai la sua memoria, aiutandola a stringere uno snack tra le dita:
«‘Femia, fallo annusare a Byron».
Nonna ubbidì e sollevò il suo braccio quel tanto che bastò per portarsi sopra al muso del cucciolo:
«Digli di sedere».
Lei lo fece e il piccolo, scodinzolando rasoterra, ubbidì.
«Dagli il premio, ’Femia.»
Nonna lo stava addestrando, quel prato le ricordava come.
Una volta ancora in quel recinto coricai le mie lacrime tra i fiori selvatici.
Ritornai al campo ogni giorno con gli snack, i cani e nonna ‘Femia che immancabilmente addestrava il suo Byron, rivolgendosi a me, con voce intrisa di felicità e di ricordi:
«Grazie papà per questo bellissimo regalo».
Non mi riconosceva, non più, ma il profondo senso della sua vita colmava il vuoto della mia come la forza dell’aria di montagna riempie le gole aperte tra le rocce, come una carezza appoggiata sul dolore.
 

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