Rosa30 - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Rosa30

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

"La Montagna:le sue genti , dalla storia all’ attualità"

XXX EDIZIONE Teviso, 11 gennaio 2025
Premio speciale "Rosa d'argento Alpino Carlo Tognarelli"

La bambina con le trecce
 
di  Cantini Aurora
 
Aviatico (BG)
 
 
La bambina, di poco più di due anni, procedeva spedita, saltellando agilmente lungo il sentiero nel bosco attraversato dal greto di un piccolo torrente, a volte trotterellando impaziente, altre fermandosi assorta come in ascolto di una voce. Le lunghe trecce, adornate da due grandi fiocchi bianchi, danzavano leggere intorno alla piccola testa bruna, ballonzolando come due farfalle vaporose nella brezza leggera di inizio giugno. I ciottoli e le radici che sporgevano dal tracciato creavano intralci alle corte gambette della bimba, che tortuosamente arginava gli ostacoli mettendosi quasi di traverso. Erano piedini piccoli, stretti in sandaletti marroni, dalla suola in sughero.
«Guarda, nonna! I miei sandaletti sono magici! Non mi fanno cadere! Riesco a scavalcare anche i sassi! Guardami come sono veloce!»
E la bimba scattava di nuovo in avanti, lesta lesta, ridendo canterina.
Due donne anziane la seguivano dappresso, camminando con lentezza mentre chiacchieravano. Entrambe indossavano un vestito nero abbottonato davanti e legato in vita da un grembiule a fiori. La forma del viso, ovale come quella di una Madonna, e la crocchia di capelli intrecciati legati sulla nuca e fermati con delle forcine, indicavano che erano sorelle. Mostravano di avere tra sessanta e settant’anni, ma una delle due era sicuramente più anziana. Lo dimostravano le rughe che un poco offuscavano la dolce linea delle guance, ma anche uno sguardo più vissuto e profondo, maggiormente carico di esperienze e di dolori.
Mentre parlavano non perdevano d'occhio la minuscola figurina che correva in avanti e poi ritornava indietro e poi si fermava ad aspettarle, impaziente ma restia ad allontanarsi troppo. La piccola era la prima nipotina di una e pronipote dell’altra.
«Forza, dai, nonna Angelina! Dai, zia Teresì! Spicciatevi, camminate più alla svelta! Io sono già arrivata!»
E infatti la piccola, dopo aver arrancato schivando ciottoli e piccoli massi, pozzanghere tardive e cespugli sparsi, si era fermata ad attendere le due donne seduta su una piccola sporgenza, dove la radura si apriva sullo scorcio meraviglioso della valle giù in basso e più in là quello della pianura lombarda.
In quel punto il tratturo si biforcava: da una parte proseguiva sinuosamente verso il costone della montagna, oltre un gruppo di antichi e signorili palazzi di villeggiatura e poi su, dove iniziava la  roccia della Cornagera; dall’altra scendeva verso le prime case del borgo accoccolato a mezza costa, sul pendio prativo tagliato dalla prima fienagione di maggio, il maggengo. La bambina non era interessata a nessuno dei due percorsi: era ferma all'imbocco di una piccola striscia di terra compatta che tra l'erba si diramava poco più sotto, fino a un prato circondato da faggeti. Sullo sfondo, tra le folte chiome dei faggi disposti a cerchio, si intravedeva il tetto di una minuscola casupola.
Nel frattempo anche le due sorelle erano sopraggiunte, sfiorando con una lieve carezza la testolina seduta; ma la piccola, scansandosi, era balzata in su ed era ripartita fiondandosi lungo il piccolo rigo tra l'erba.
«Stai attenta, Ambra!» disse la più anziana con tono perentorio. «Guarda che se cadi poi la senti la zia Elda sgridare me e anche la zia Teresì, che non siamo state capaci di tenerti d'occhio!»
«No, non cado, perché questi sandaletti sono magici!»        
Chi le avesse regalato quei bellissimi sandaletti Ambra non se lo ricordava già più. Forse il papà, quando era salito a trovarla dal fondovalle in una delle sue rare visite, oppure la zia, per premiarla di come si stava comportando bene in casa.
C'erano dei momenti in cui i ricordi a volte le si attorcigliavano nella mente, sovrapponendo giorni, immagini, volti e persone in quella vita trascorsa tra mulattiere, prati, fieno, orazioni in chiesa, donne in cucine scure e cortili chiusi sugli orti. Ma quello di cui aveva certezza era che avrebbe indossato quei sandaletti fino a quando i suoi piedini fossero riusciti a contenerli.
Così, con le sue calzature speciali, corse giù a perdifiato il più velocemente possibile, forzando le proprie gambette, che spuntavano dal corto scamiciato azzurro, a tenere il passo del busto e delle braccine proiettate in avanti. E poi ecco, si arrestò ammutolita, ogni volta una sorpresa. Davanti a lei la piccola casetta appariva tutta verde. Una serie di pietre squadrate che fungevano da scalini portavano direttamente all'entrata. Era il roccolo detto Roculì. Le avevano sempre raccontato che apparteneva al suo papà, perciò si poteva proprio dire che quella casetta era sua. Tutta sua.
Angelina e Teresì finalmente la raggiunsero ed entrambe ancora una volta rimasero colpite dalla serietà di quel visetto mentre osservava la corona di altissimi alberi che cingevano il roccolo.
Le due donne adoravano quella bambina. Seppur così piccina aveva già sperimentato il dolore del  distacco.
Il papà Mansueto, classe 1925, sopravvissuto a retate e rastrellamenti per essersi rifiutato di aderire alla Repubblica di Salò, era scampato fortunosamente alla deportazione in Germania riuscendo a scardinare alcune assi che sbarravano il vagone piombato durante un rallentamento nei pressi della stazione di Verona a causa di un bombardamento aereo alleato.
Dopo essere riuscito a risalire la scarpata sotto i binari, aveva camminato per giorni a ridosso di fatiscenti fienili della pianura lombarda, sempre guardingo e attento ad evitare le ronde dei soldati. Quando finalmente era giunto al suo paese sulle montagne bergamasche, aveva trovato ad attenderlo una taglia sulla testa, frutto dell’Editto Graziani. Non aveva potuto fare altro che scappare di nuovo, vivendo alla macchia per mesi, nascosto nei solai dei cascinali più discosti o nei labirinti del monte Cornagera, insieme a tantissimi altri suoi compagni, mentre in paese quasi quotidianamente calavano le retate nazifasciste, portando distruzione e morte.
Sua madre non aveva fatto nemmeno in tempo a riabbracciare quel giovane sconosciuto che era diventato il figlio, che il 28 agosto 1947, il giorno successivo al congedo dalla leva rilasciato a Brunico come Caporal Maggiore, era di nuovo partito per cercare lavoro in Svizzera. Non l’aveva fermato né il pianto di sua madre, né il rimprovero del padre perché veniva lasciato solo ad arare il campo.
La piccola Ambra era stata concepita in Svizzera, figlia di quei nuovi amori emigranti, amori sopravvissuti alla guerra, assetati di gioventù. Nel maggio 1962, pochi giorni prima del parto, i due sposi erano ritornati in Italia. Ma una volta organizzato il battesimo come da prassi dopo nove giorni, Mansueto era dovuto ripartire per l’estero. Solo a dicembre di quello stesso anno era riuscito a trascorrere alcuni giorni in famiglia, per poi ripartire di nuovo.
La giovane moglie aveva trovato lavoro in fabbrica nel fondovalle come operaia, ma i turni massacranti che coprivano anche le ore notturne e festive, senza alcun familiare vicino, non le avrebbero permesso di occuparsi appieno della sua primogenita.
Perciò era stato necessario affidare Ambra, neanche due mesi di vita, alla famiglia paterna in montagna. Ogni 4 o 5 mesi il papà saliva a trovarla in funivia, accompagnato talvolta dalla mamma.
Nella borgata era diventata il piccolo angioletto che strappava cuore e amore con la sua leggerezza e innocenza di bambina.
Gli zii e i cuginetti più grandi, ma soprattutto nonna Angelina e la sorella di lei zia Teresì, erano diventati il suo mondo. Si muovevano affaccendate intorno a lei come chiocce, cercando in tutti i modi di alleviare il distacco da papà e mamma.
Era il loro futuro, la loro infanzia mai vissuta. La loro speranza di vita migliore.
In estate, da prima dell’alba fin dopo il tramonto, tutti erano impegnati nella fienagione e nella cura della stalla e delle mucche, perciò della nipotina si occupavano le due anziane sorelle. La passeggiata al Roculì era il loro rito pomeridiano.
Anche quel pomeriggio Ambra si sedette su uno dei massi che circondavano il capanno. «Nonna, dai, raccontami ancora la storia del mio roccolo!»
Le due donne si accomodarono accanto a lei e nonna Angelina cominciò a raccontare.
«Tanto tempo fa qui era tutto bosco, un bosco fitto e antico, pieno di animali. Un grande bosco.  Passavano gli uccelli durante le loro migrazioni in autunno. Ma una notte di bufera, sul finire di ottobre, molti storni per sfuggire alla furia della tempesta si appoggiarono sui rami e lì rimasero trovando riparo, in attesa dell’alba. Quando tuo nonno arrivò nel bosco, la mattina seguente, vide i rami degli alberi trasformati in una marea di piccoli corpicini infreddoliti che lo fissavano dall’alto. Erano talmente stanchi e indeboliti che non avevano avuto la forza di alzarsi in volo. Tuo nonno era un cacciatore e anche quella mattina aveva con sé il fucile, ma la vista di quelle centinaia di piccoli uccellini addormentati sui rami lo fece desistere da ogni tentativo di cattura. Rimase lì, appoggiato ad un tronco, in attesa che i raggi del sole, dopo la nevicata della notte precedente, scaldassero a poco a poco quei corpi infreddoliti.
E poi ecco che gli uccellini allargarono uno alla volta le piccole ali, sbattendole intorno all'addome e, come per una silenziosa conferma, spiccarono il volo. Era uno spettacolo che anche tuo nonno non aveva mai visto.
E fu così che decise di costruire un piccolo roccolo, usando le pietre tonde recuperate dal greto del torrente. Nessuno però avrebbe mai potuto usare il Roculì per sparare. Sarebbe stato il luogo in cui durante la loro passata autunnale gli uccelli avrebbero potuto fermarsi e ristorarsi.
Ogni giorno saliva sui tronchi degli alberi per unire i rami fino a creare una rete, così gli uccellini avrebbero potuto appoggiarsi e dormire tranquillamente, mettendosi in salvo da ogni intemperie, prima di riprendere il loro lungo viaggio. E poi ha pensato anche a te.
Mi disse: “Voglio che i miei nipotini possano venire in questo piccolo roccolo e starsene tranquilli ad ascoltare le voci degli uccellini”.
Tuo nonno tu non l'hai mai conosciuto, ma lui è ancora qui e ti sta aspettando.
Nonna Angelina terminò il racconto con un groppo in gola, gonfio di lacrime trattenute; la sorella Teresì l’abbracciò, perché sapeva benequanto quel bosco fosse importante. Avrebbe dovuto appartenere ai loro fratelli. Non avevano fatto in tempo a godersi quel prezioso appezzamento di terreno, che avevano sfalciato e tenuto pulito fin da bambini, perché di cinque chiamati al fronte nella Prima Guerra Mondiale, quattro erano morti. Tre erano caduti in battaglia a vent’anni, le ossa disperse lungo le alture straniere, senza più traccia di loro se non un semplice verbale di morte e un telegramma giunto a casa. Uno per ogni anno di guerra. Il quarto, uno dei Ragazzi del ’99, venne chiamato al fronte a soli 17 anni dopo la disfatta di Caporetto, nonostante fossero già morti due fratelli.
Il primogenito, sergente alpino, dopo 41 mesi di guerra infernale prima sul Rombon e poi sull’Adamello, era riuscito a tornare a casa, seppur gravemente ferito e mortalmente distrutto nel corpo e nell'anima. Per cercare di sopportare l’enorme dolore della perdita dei tre fratelli minori, in ansia per la sorte del fratello più piccolo ancora al fronte, si recava spesso nel bosco a piangere e a gridare, abbracciato agli alberi perenni, consolatori silenziosi della sua memoria. Ridotto a un guscio vuoto, come un relitto abbattuto dalla folgore, cessò di vivere qualche tempo dopo, sempre accudito senza sosta dalla mamma Maddalena, che non lo lasciò un istante.
Era il suo Grande Alpino. La sua grande quercia caduta, schiantata al suolo. E quando papà Angelo morì di crepacuore nel 1919, mentre era ancora al fronte il figlio più piccolo, il bosco si era come inselvatichito, sperso nel suo silenzio. Come se fosse lui stesso in lutto.
Un giorno avrebbero raccontato ad Ambra di quella donna straordinaria che era stata la sua bisnonna. Una donna che perse presto il marito. Una donna che in tre anni ricevette tre telegrammi di morte. Una donna che vide partire in guerra anche il quinto figlio, uno dei Ragazzi del ’99. Una donna che si occupò delle due giovanissime nuore, di cui una impazzita di dolore. Una donna che abbracciò il suo primogenito tenendolo stretto mentre lui delirava nell’agonia. Una donna che dovette sopportare lo strazio di non avere nemmeno una tomba su cui piangere i figli perduti. Una donna che, nonostante la sofferenza, aveva pregato e pianto per un’altra madre in lutto, la Mamma d’Italia, Maria Bergamas, condividendone il dolore profondo. Morì nel 1942 senza mai essersi ripresa da questa immensa tragedia.
Ma questa era una storia che la piccola Ambra ancora non era pronta ad ascoltare. Ci sarebbe stato tempo un giorno, ma non ora.
Anche quel pomeriggio la piccina giunse le mani in preghiera e chiuse gli occhi, lasciando che le trecce volassero in avanti sul suo petto; poi mosse le labbra pronunciando a mente la sua preghiera segreta agli alberi, al nonno, al papà e alla mamma. Poi andò verso la porticina del capanno, l'aprì e fu dentro. Le due anziane donne la seguirono all’interno.
Lei avrebbe fatto gli onori di casa, avvolta nella coperta di lana sferruzzata dalla nonna. Avrebbero fatto finta di prendere il tè e di giocare con i padellini. Sarebbero state tranquille in quella minuscola casetta di bambole e le due donne avrebbero recitato il rosario mentre lei giocava.
Una bambina con le trecce, a sognare di vivere un giorno proprio in quel roccolo, e due anziane sorelle in preghiera, unite da lutti, tragedie, dolori e presenze. Vegliate da volti mai sbiaditi dal tempo. Poi, allo scoccare delle ore dal campanile sottostante, avrebbero chiuso la porticina con il chiavistello e sarebbero risalite sul sentiero, per continuare il percorso verso le prime case del paese. Non prima però che la piccina avesse mandato un bacio agli alberi e un saluto con la mano. Una bambina con le trecce simili a farfalle, piccola inconsapevole erede di Memoria e di Storia.
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