Rosa 29 - Gruppo Alpini Arcade


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Rosa 29

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
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PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna:  le sue genti, le storie di ieri e di oggi”

XXVIII EDIZIONE Arcade, 5 gennaio 2023
Premio speciale "Rosa d'argento Alpino Carlo Tognarelli"

   Racconti   della nonna e delle sue montagne

di Bonomi Mirna
Bergamo


Per quanto tempo, ancora, potrò stare qui, a vedere le mie montagne?
È una domanda che mi faccio spesso, da quando gli anni mi pesano addosso come macigni.
Brutta faccenda la vecchiaia.
Sono belle le mie montagne, così boscose e così imponenti e severe, lassù, più in alto, dove il cielo è azzurrissimo, decorato dalle scie degli aerei.
Sono nata tra questi monti, in un tempo che sembra lontanissimo, subito dopo la Grande Guerra. La mia gente fu evacuata in Boemia, durante la guerra, portata via da questa terra di confine, nel cuore dell’impero asburgico.
Come si perde, nel tempo e nella Storia, quel periodo! Io e i miei fratelli fummo tra i primi a nascere italiani, a Levico; il Trentino, allora, era una “terra di mezzo” tra la nazione italiana e quella tedesca: una delle mie più care amiche e compagne di vita, la G*, in paese è stata chiamata la taliana (l’italiana) fino alla fine dei suoi giorni, perché era nata a Bassano del Grappa.
Qui molti hanno continuato a sentirsi austriaci anche dopo il 1918 e, del resto, l’impero è dappertutto, a Levico: nel meraviglioso parco che circonda il Grand Hotel, la cui costruzione si deve a Francesco Giuseppe, come nei numerosi forti che costellano la zona.
A volte racconto ai miei nipoti e bisnipoti come vivevamo all’epoca: quando parlo loro dei vestitini per le nostre povere bambole confezionati con le luccicanti carte delle caramelle, mi guardano increduli!
Non si buttava via niente nella mia infanzia.
Non eravamo particolarmente poveri -la mia famiglia aveva terreni e bestie- ma non sprecavamo come oggi: una sera, mio padre, scaldando il minestrone, urtò una candela, che vi cadde dentro: tolse lo stoppino e continuò a mescolare… la cena fu gradita anche così!
I bambini di oggi sanno a malapena cosa siano candele e fiammiferi, ma negli anni ‘20 non avevamo la corrente elettrica.
Vivevo in simbiosi con le mie montagne, allora.
Mio padre, nella bella stagione, ci portava tutti sull’altopiano, in Vezzena, dove ci si accampava e si faceva la legna. Ricordo che un anno trovammo impronte di orso fuori dalla tenda e che vidi mia madre preoccupata in quell’occasione. In un’altra circostanza, scappai alla vista di un toro; nella corsa, caddi e mi inzuppai una calza, che non tolsi subito, procurandomi così dei dolori che riuscii a curare solo dopo anni, con delle sabbiature, sul lido di Mergellina. Lavoravamo molto anche noi bambini, ma ho un ricordo bellissimo di quel periodo. I miei figli e mio genero inorridiscono quando racconto che, al ritorno, col carretto carico di legna, io e i miei fratelli venivamo collocati in fondo al mezzo, a mo’ di freno, sulla strada ripida, in discesa, che correva lungo lo strapiombo: inconcepibile oggi!
Oltre a coltivare l’orto, si raccoglievano le erbe di stagione nei prati (i denti de can, la cicoria), d’autunno si spigolavano le noci. I miei genitori avevano un terreno sul lago, con una vigna, vendemmiavamo e facevamo il vino, pestando l’uva con i piedi, come si faceva una volta; c’erano anche dei peschi su quel terreno e bisognava prestare attenzione che il cesto pieno di frutti non si rovesciasse per il pendio ripido.
La mia infanzia ha il profumo della terra, dei boschi e riecheggia dell’acqua del Rio, accanto al quale giocavamo a fare formine di sabbia, e della Brenta, dove andavamo per il bucato.
Mi inerpicavo per i boschi.
Talvolta, da ragazzina, andavo ad aiutare una mia amica, la R*, la cui famiglia aveva un albergo a Vetriolo, in cambio di un po’ di cibo prelibato (come qualche pezzo di lardo): salivo a piedi per i boschi, sul monte Fronte.
Una sera, partii in ritardo e mi sorprese la notte: mi disorientai. Ricordo con quanta gioia, alla fine, nel buio della notte degli anni ‘30, illuminata solo dalle stelle e dalla luna, vidi le luci dell’albergo. Altri tempi.
Non ho mai amato molto l’inverno, ma mi divertì la nevicata del ‘29 che rese avventuroso uscire di casa e ricordo che scendevamo con la slitta giù per il paese.
Oggi questa mia regione è ricca ma io, appena quattordicenne, come tanti miei coetanei, del resto, dovetti lasciare le mie montagne per andare a fare la serva, come si diceva allora, a Merano, a Milano e poi a Napoli.
La guerra mi ricondusse a casa, dove andai a servizio presso il comando tedesco che si era insediato dove ora ci sono le Terme.
I tedeschi erano buoni con me, mi regalavano anche del cibo per la mia famiglia.
Non mi sono mai occupata molto di politica: per la povera gente come noi, contava poco e poi ero troppo giovane e ignoravo molte cose. Per esempio, nella mia memoria, ci sono solo un paio di episodi strettamente legati al fascismo. Il primo ricordo è che si faceva festa, in paese, il 24 maggio, per celebrare l’entrata dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale: poiché io compio gli anni in quel giorno, ricevevo sempre una doppia razione di dolce! Il secondo ricordo è che, una sera, con mia sorella, le mie cugine e alcune amiche del circondario, violammo il coprifuoco. Era estate e ci eravamo trattenute più del solito presso il ponticello, sotto casa. Fummo portate in caserma (solo alle più piccole tra noi fu concesso di rientrare). La situazione era assurda e anche un po’ ridicola, a ripensarci oggi: c’erano una lunga panca di legno per dormire e un secchio per i bisogni… facemmo molta confusione: la mattina presto, i Carabinieri ci scortarono dai nostri genitori.
Andai a servizio dai tedeschi, oltre che per necessità, perché mi piaceva molto la loro lingua: avrei voluto poterla imparare meglio! Proseguii gli studi dopo le elementari solo per poterla studiare, dato che non c’erano soldi per le lezioni private, ma non mi applicavo nelle altre materie: mi spiegarono che non funzionava così, che non potevo concentrarmi esclusivamente sul tedesco, e io smisi di andare a scuola.
Alla fine della guerra, è stato tra i miei monti che ho conosciuto mio marito: alto, snello, occhi chiari. Era un soldato della divisione F*, che, dopo l’otto settembre, non si era sbandata, ma aveva continuato a combattere dalla parte del re, con gli Alleati, contro i fascisti.
Lo vedevo in paese con i suoi commilitoni: uno sguardo tira l’altro e ci sposammo, il 10 aprile 1948.
Lui era di Bergamo, aveva un nome e un cognome particolari, evocativi di atmosfere fiabesche: tutto il paese venne ad assistere alle nozze della I* con il N* C*!
Subito dopo, per una trentina d’anni, lasciai i miei monti per Bergamo, dove mi trasferii a casa di mio marito e di mia suocera, in una viuzza vicino all’Accademia Carrara.
Mi adattai bene alla nuova vita bergamasca, anche grazie ai tre splendidi figli che arrivarono nel giro di poco tempo.
Tornavo qui ogni volta che era possibile, assistendo alla trasformazione del mio paese, che divenne piano piano prevalentemente turistico: piaceva per le sue terme, per il lago, per le passeggiate tranquille, per le montagne imponenti e i begli altipiani che lo circondano. Si sciava molto d’inverno nei paraggi, anche in Panarotta, la vetta che sovrasta Levico.
Fino alla metà degli anni ‘60, venivo qui con mio marito, con mia madre, che, da anziana, si trasferì a vivere con noi, e con i figlioli.
Si viaggiava in treno all’inizio, poi arrivarono le automobili e fu tutto più semplice, anche se i tempi di percorrenza non erano quelli di oggi. Occorse tempo perché si strutturasse la rete autostradale.
A Levico, incontravo i miei fratelli, che pure si erano trasferiti lontano, mia sorella nella Svizzera tedesca e mio fratello nel Liechtenstein.
Ingrandimmo la casa faticosamente costruita da mio padre: lo ricordo bene, mentre traportava a mano massi giganteschi!
In estate, la nostra palazzina, così come quelle vicine, che erano dei miei cugini, si ripopolavano: eravamo tutti sparsi per il mondo, tutti migranti, ma tornavamo sempre a casa, dalla Francia e dall’Olanda, come da Bergamo, dalla Svizzera e dal Liechtenstein.
Dovremmo ricordare ai nostri ragazzi le storie dei loro bisnonni migranti, parlare loro dell’Italia povera del secondo dopoguerra. Sarebbe una bella lezione di vita: purtroppo, spesso, ci si vergogna delle proprie origini, quando sono misere, e si tace.
Io però capisco bene cosa possano provare gli uomini e le donne (molti dei quali giovanissimi) che vengono dalla Polonia o dall’Africa, la difficoltà di andare avanti da soli, con poco o con niente.
Per di più, oggi, come allora, c’è chi si arricchisce sulle difficoltà della povera gente. Si dice che un maestro di posta, dalle mie parti, aprisse le buste che arrivavano da lontano per prenderne le rimesse, il denaro che i migranti riuscivano a mandare a casa, alle loro famiglie, e poi le richiudesse ad arte, in modo che non restasse traccia del furto.
Nel 1966 persi il mio N*. Fu una tragedia immensa per me, che rimasi sola con tre ragazzini, in un’epoca in cui le donne non lavoravano e la vedovanza comportava quindi, oltre a un’indicibile sofferenza, anche problemi logistici non indifferenti.
Non ho mai più fatto pace con Dio: non sono mai riuscita a perdonargli la morte prematura del mio sposo.
Strana faccenda la vita: va sempre dove vuole, scompigliando i nostri piani e i nostri sforzi per realizzarli.
E la vita mi riportò qui, tra le mie montagne.
Tre anni dopo mio marito, se ne andò anche mia madre, nel’73 la mia figlia maggiore si sposò e i miei due ragazzi vollero trasferirsi a Levico. Il più giovane aveva la passione dei cavalli, scappava qui ogni volta che poteva, fin da ragazzino. Usciva da scuola -o non ci andava affatto- e mi telefonava dalla stazione, per dirmi che partiva. Aveva perso il padre così presto che decisi di assecondarlo.
Vivo qui dal 1974.
Alcune delle mie amiche erano tornate dall’estero, L*, mia cugina, era sempre stata qui: ci si faceva tanta compagnia, si respirava aria buona e io potei dedicarmi alla mia grande passione, l’orto.
Tre lati del prato davanti a casa erano dedicati all’orto: coltivavo insalata, pomodori, fagiolini, coste, zucchine, erbe romantiche… e poi tanti fiori, dalie, gladioli, velo da sposa, margheritone… Mi piaceva moltissimo curare le mie piantine. Le annaffiavo alla mattina, prima che si alzasse il sole, e al crepuscolo, strappavo le erbacce, portavo avanti e indietro secchi pieni d’acqua. C’era la grassa (quello che oggi chiamano l’umido, senza tovaglioli e fazzoletti sporchi né bucce di limone, però) per nutrire la terra e c’era una grande vasca dove si raccoglieva l’acqua piovana.
Ora sono vecchissima e del mio orto sono rimasti solo alcuni grandi vasi rialzati che mio figlio ha predisposto per me, per permettermi di continuare a occuparmi delle mie piantine senza troppa fatica.
Va bene così, del resto è necessario accettare i cambiamenti che l’età impone: se non lo si fa, si rischia di essere ridicoli o di farsi del male.
Sono tornata a Bergamo regolarmente, in casa di mia figlia, soprattutto in inverno, quando le porte si chiudono e la solitudine si fa più pungente.
Certo, i miei figli sono sempre stati qui, a casa con me o nelle vicinanze, ma hanno costruito la loro vita, così com’è giusto.
D’estate, questo luogo si ripopola, a volte si sovrappopola: prima venivano figli e nipoti, oggi anche i bisnipoti. La mia porta è sempre aperta, la mia chiave sotto un vaso di fiori o sotto il cuscino di una sedia: sono tutti i benvenuti qui!
Ora delego a mia figlia P*, che mi raggiunge ogni volta che le è possibile, o a mio figlio B* queste faccende, ma, fino a qualche anno fa, tiravo pasta, impastavo gnocchi, facevo canederli, lasagne, ragù, spezzatino, poi mangiavamo in compagnia.
Quando mio fratello era ancora vivo, veniva qui con i suoi amici, portavano le tende e il mio giardino si trasformava in un campeggio: cosicché nel Liechtenstein, io ero conosciuta come la tante Irma e tutti mi volevano bene.
Facevamo lunghe tavolate anche con i villeggianti che venivano in agosto nelle case che i miei fratelli davano in affitto, con i miei figli, le loro famiglie, i loro amici, con i miei nipoti…: avevo un freezer gigantesco dove conservare il cibo.
Ora sono anziana e mi stanco facilmente: alle tavolate pensano la mia P* e il mio B*, ma voglio la mia casa sempre aperta, viva e allegra.
Sono accadute tante cose da quando sono tornata. Molte dolorose.
Invecchiare significa anche salutare i propri amici che se ne vanno, uno dopo l’altro.
A un certo punto la cena dei coscritti è diventata penosa e ora -penso- siamo rimasti solo in due della classe del 1921.
Anche questo luogo è cambiato: sono morti i miei fratelli e le mie cugine, i loro figli, per lo più, non appartengono alla mia mia terra, alla sua storia.
Però è qui che hanno festeggiato i loro compleanni tutti i piccoli della famiglia nati d’estate: mia nipote S*, i miei bisnipoti, A* e G*, e infine i bimbi di mio figlio V*, MV* e S*, che sono arrivati quando ero già sui 90 anni.
Io guardo avanti: la vita viene da lontano, era prima di me e sarà dopo, così come le mie montagne e i lavori della campagna, che si ripetono uguali un anno dopo l’altro.
Sono serena, perché ho fatto tutto quello che ho potuto.
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