Romildo, il camminante del silenzio
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”XXVI EDIZIONE - Arcade, 13 Giugno 2021
Segnalato
Romildo, il camminante del "Silenzio"
di Mauro Caneparo – San Nazzaro Sesia (NO)
Il sole sta tramontando dietro le cime del Moncenisio. Sono seduto sull’ultimo gradino della scala che sale al porticato. Fin da ragazzo mi è sempre piaciuto stare su questo scalino ed ammirare il paesaggio intorno mentre il sole lascia la valle.
Durante l’anno, torno spesso in questa vecchia casa di pietra, piena di ricordi e testimone di un mondo antico, quel mondo che abbiamo miseramente perso.
Venivo qui, coi nonni paterni, nella casa di zia Virginia (magna Ginia, come si dice da queste parti) per passare le vacanze estive. Poi, avendo ereditate queste quattro mura, la feci ristrutturare, mantenendo però la sua caratteristica di vecchia casa di montagna.
In basso, sul fondovalle, l’argenteo scorrere della Dora. Attorno, ai vigneti che un tempo riempivano i piani terrazzati, sono subentrati prati all’inglese con piante ornamentali e lampioni tondi lungo percorsi in pietra. Le poche case dei vecchi abitanti di Cintusel (questo è il nome della frazione che si trova sopra Borgone di Susa) sono state ristrutturate senza tener conto della loro originaria tipicità. Ad esse se ne sono aggiunte altre, belle ricche e moderne, ma un autentico pugno nello stomaco in questo ambiente. Anche la mulattiera che saliva dal paese, è stata trasformata in comoda strada asfaltata.
Tutto termina qui. Più avanti non si va, anzi non si va più. I sentieri che percorrevano la montagna e univano baite ed alpeggi sono scomparsi, sommersi dalla vegetazione. Alcuni di essi giungevano fin dall’altra parte del monte, verso le frazioni di Frassinere, Mocchie ed altre che si raggiungevano dopo aver camminato immersi nell’ombra dei boschi. Ed al ritorno, nella giusta stagione, era facile riempire lo zaino di meravigliosi bulè, i profumatissimi porcini che querce e castagni ci donavano senza pretendere nulla in cambio. Solo il rispetto.
Come ho detto, di quei sentieri non è rimasta che una traccia nascosta dalla natura che ha ripreso il suo corso. Anche i muretti a secco, immane fatica di lontane generazioni, e che delimitavano proprietà e piani strappati al monte, sono quasi del tutto crollati per il tempo e l’abbandono.
Però ho fiducia per quello che si riuscirà a realizzare fra poco. La mia proposta di recuperare i vecchi sentieri inserendoli in un percorso didattico, è stata accolta sia dal sindaco del paese che dai responsabili del CAI di Torino. Si tratta di riaprire il cammino che sale da Mumet, interessante sito archeologico risalente al II secolo a.C. fino alla misteriosa Roca furà, da dove venivano estratti gli enormi massi per la costruzione delle macine dei mulini. Da lì si giunge alle frazioni al di là della montagna, per poi ridiscendere a Borgone. Un itinerario abbastanza facile e ricco di insegnamenti sia storici che naturalistici. Forse, percorrendolo, qualche giovane si sentirà attratto verso il bene grandioso di questo ambiente e della sua incomparabile natura. L’importante è far capire ai ragazzi cosa rappresentava la montagna e la fatica per vivere dei suoi frutti. Oggi è tutto troppo facile. Sopravvive solo un vago ricordo di quei montanari che campavano ad un palmo dal cielo, immersi nei loro alpeggi seguendo l’avvicendarsi delle stagioni. Quelli che avevo conosciuto, non li ho mai scordati. Uomini e donne duri, ma sempre pronti ad aiutare. I loro cuori come i più bei cristalli di un geode, inseriti nelle granitiche rocce del loro aspetto. E poi nelle vigne a vendemmiare ed essere trattato da uomo. A sera, come premio per la giornata di lavoro, la soddisfazione di bere un bicchiere di vino con i grandi.
È sera. Sto centellinando un po’ di quella grappa che è rimasta nella vecchia credenza della cucina. La brezza che dalle montagne scende verso la pianura, pare riportarmi una melodia mai dimenticata. Così, come spesso accade, ritorno a quella sera di tanti anni fa (avevo quindici anni) quando, seduto su questo stesso scalino assieme a magna Ginia, udii un lontano suono di tromba portato a tratti dal vento…
- Senti questa musica? Domani conoscerai una persona un po’ speciale, ma molto importante. – Mi disse mettendomi una mano su una spalla.
- Importante? Un attore, un campione di calcio?
Magna Ginia sorrise.
- Romildo, il camminante che suona la tromba.
- Un camminante? Quelli vivevano un tempo dalle mie parti. Erano dei vagabondi che giravano tra le varie cascine, campando con quel che il buon cuore della gente gli donava. Nessuno di essi era importante, anzi.
- Anch’egli arriva da quei posti. Se ti racconterà la sua storia, capirai quanto sia diverso da un uomo qualunque. Per ora credo si trovi nell’alpeggio di Giacu. Il suono pare giungere proprio da lassù. Domani scenderà dal sentiero che passa tra le vigne di Battista.
Appena il motivo cessò, magna Ginia disse che quella musica era il “silenzio” dei soldati e che Romildo suonava un altro “silenzio” se si trovava nei parchi della rimembranza dei caduti delle due guerre. E a lei, ascoltandolo, veniva la pelle d’oca ed il magone.
- Domani lo sentirai anche tu quando raggiungerà il cimitero vicino alla Dora.
L’idea di incontrare quel misterioso camminante mi accompagnò per tutta notte. Associandolo al suono della tromba lo immaginai giovane ed affascinante.
Così, di buon mattino, presi a percorrere su e giù il pezzo di strada tra la casa di magna Ginia e l’inizio del sentiero che saliva al monte. Ad un tratto sentii un rumore di passi che si stavano avvicinando, accompagnati dal battere in terra di un bastone. Immaginai che si trattasse del leggendario camminante. Per quanto ansioso di conoscerlo, provai un senso di timore e tornai di corsa verso casa.
- Ho sentito dei passi arrivare dal sentiero. Forse è il camminante. – Dissi riprendendo fiato.
- Allora tra poco sarà qui. – Commentò la zia. – Cercherò di tenerlo con noi per pranzo.
Di lì a poco udimmo una voce forte e decisa dietro l’angolo di casa.
- Ginia! Sono Romildo!
- Vieni, vieni pure in cortile.
Non mi trovai di fronte il giovane che avevo pensato, ma un uomo dall’età indefinibile, alto e massiccio. Camminava con l’aiuto di un grosso bastone. Portava sulle spalle un enorme zaino.
- È da un po’ che non ci vediamo. – Gli disse magna Ginia. – Come va?
- Niente di nuovo. I soliti giri a salutare gli amici. – Poi, guardandomi: - Questo giovane chi è?
- Marco, mio nipote di Novara. Viene a passare le vacanze estive da me.
- Novara? Anch’io abitavo da quelle parti. Una cascina appena fuori Casalgiate. Mai sentito quel nome? – Mi domandò.
- È una frazione sulla strada per Vercelli. – Risposi con aria confusa.
L’uomo si tolse il grosso zaino dalle spalle sedendosi sulla panca accanto al tavolo in cortile.
- Ginia, il buon Giacu mi ha chiesto di portarti questo. – Disse togliendo un involto dallo zaino.
La zia lo aprì e comparvero due piccole tome.
- Ci tiene sempre a farmi avere i suoi formaggi. Fino a poco tempo fa me li portava lui stesso quando scendeva a Borgone per il mercato. Ma ormai…
- Ma ormai… Ieri sono rimasto tutto il giorno con lui tagliando e spaccando legna. Gli ho suggerito di trasferirsi in paese, per essere seguito da qualche parente. Per tutta risposta mi ha detto che la sua baita sarà anche la sua tomba. Di quei vecchi montanari ormai ne sono rimasti ben pochi. Tra qualche anno, molti di quei sentieri che utilizzo nel mio cammino, saranno coperti dalla vegetazione. Addio serenità e pace che ti riempiono il cuore quando sei immerso nella maestosa natura di questi monti.
- È vero Romildo. Anche qui a Ciantusel siamo rimasti in pochi vecchi.
Seduto sulla panca, accanto al camminante, ascoltavo quelle parole velate da un senso di malinconia. La zia portò del caffè.
- Grazie Ginia, sei sempre ospitale. Piuttosto, posso fare qualcosa?
- No Romildo. Mio nipote mi aiuta in tutto. Ormai è quasi un uomo.
- Bravo! È così che si deve fare.
- Oggi ti fermi a mangiare un boccone con noi. – Disse la zia come fosse stato un ordine.
- Ti ringrazio, ma vorrei scendere al cimitero al più presto per arrivare poi al Villar Focchiardo prima di notte.
- Eh no. Oggi starai con noi perché mio nipote vorrebbe sentirti suonare e conoscere la tua storia.
- La mia storia? La storia di uno qualunque, un camminante oltretutto?
- No Romildo. Marco avrà modo di imparare molte cose, direi fondamentali per un uomo.
- Beh, intanto vado alla fontana a rinfrescarmi.
La zia gli porse un sapone ed un asciugamano.
Io non riuscivo ad aprire bocca. La mia timidezza mi bloccava. La zia mi capì.
- Non devi aver timore di Romildo, è un uomo dal cuore d’oro. Ti spaventa la sua mole?
- Non so…
- Vedrai che mentre pranzeremo ti sbloccherai. Perché non gli chiedi di suonare qualcosa per te?
- No zia, ho vergogna…
Nel frattempo Romildo tornò dalla fontana.
- Bene Ginia. Par di rivivere lavandosi con quell’acqua fresca che arriva dalle sorgenti dei castagneti. – Poi si rivolse a me. – E tu Marco, cittadino della pianura novarese, come ti trovi qui in montagna?
Rimasi bloccato a quella domanda. Mi prese addirittura un senso di paura. L’uomo mi accarezzò i capelli.
- Forse ti spavento? Sono grande e grosso, d’accordo, ma non faccio del male. Sai come mi chiamavano quand’ero giovane? Il mulo, perché ero forte e resistente come un mulo.
Mi venne da ridere. Il mio sorriso mi sbloccò.
- Oh, finalmente. Immagino che vorresti chiedermi qualcosa, vero?
Il timore scomparve lentamente.
- Mi piacerebbe sentirla suonare.
- Sentirla? No Marco. Diamoci del tu, quindi sentirti suonare. Allora, dopo aver mangiato quel che tua zia ha preparato e prima di andar via, suonerò un paio di pezzi. D’accordo? – Così dicendo mi allungò la mano in modo che gliela stringessi.
- D’accordo. – Risposi stringendogliela.
Una mano forte ed enorme, nella quale la mia scomparve.
Appena terminato il pranzo, la zia portò in tavola una bottiglia di grappa.
- Oggi mi hai trattato da gran signore. – Disse Romildo. – Suonerò anche per te.
Aperto lo zaino, trasse una sacca di stoffa celeste. La mise sul tavolo e sciolse il nodo che la chiudeva da una parte. Con una delicatezza che non credevo avessero quelle mani, tolse una tromba che sembrava dorata. L’accarezzò leggermente poi la portò alle labbra. Dopo alcune note di prova, chiuse gli occhi ed iniziò a suonare. La zia mi prese una mano e la strinse forte. Capii che era emozionata. Quella musica pareva entrarmi dentro e scuotermi l’anima, finché anch’io non chiusi gli occhi. Sentii così quel canto portare serenità nel mio cuore, tanto che ebbi la sensazione di sciogliermi su quella melodia. Quando terminò, la zia disse solo: - Meravigliosa.
- Sì Ginia, “la montanara” è meravigliosa come le nostre montagne. È un peccato mortale abbandonarle, ma così va questo ingrato mondo. Adesso suono un altro motivo. La serenata alla luce delle stelle.
Mi vennero gli occhi lucidi per l’intensa emozione.
- Ora devo andare. – Disse riponendo la tromba.
- Posso accompagnarti per un pezzo? – Domandai senza più soggezione.
Romildo sorrise.
- Fin dove vorrai. Poi però dovrai ritornare.
- Allora decido io. – Intervenne magna Ginia. – Marco verrà con te fino al cimitero, poi tornerete e tu dormirai qui per questa notte.
- Grazie Ginia, ma devo proseguire.
- Hai forse un appuntamento inderogabile? Il senso del tempo non esiste più per quelli che vai ad incontrare nel tuo cammino.
- Hai ragione. Grazie per la tua ospitalità, quella propria dei nostri montanari.
Caricatosi lo zaino sulle spalle, ci incamminammo verso il paese.
- Ho tutto il tempo per raccontarti la mia storia. Non è nulla di particolare, solo la vita di un uomo qualunque. Sono nato nel venti in una cascina vicino a Casalgiate. La nostra era una famiglia di contadini ed io l’ultimo di sette fratelli. Quattro maschi e tre femmine. In quegli anni, fin da bambini, eravamo inquadrati in organizzazioni giovanili. Tutte con il solo scopo di fare di noi dei soldati. Io però ero già troppo alto e robusto. Allora decisero di inserirmi nella banda musicale dei Balilla, ed imparai a suonare la tromba. Quando si trattò di entrare nelle formazioni degli avanguardisti, cioè dopo i quattordici anni ed iniziare le istruzioni di tipo militare, mi sentii rivoltare lo stomaco. Ero un tipo pacifico, amante della tranquillità, del rispetto e della libertà. Così un giorno decisi di fuggire. Mi aggregai ad un vecchio camminante, bravissimo a suonare la fisarmonica, il Pinot, che talvolta si fermava nella nostra cascina. Mi caricai uno zaino sulle spalle con la tromba e le mie poche cose e me ne andai. Ero diventato un uomo libero. A quei tempi, i camminanti erano sgraditi al regime perché considerati sovversivi, per cui si cercava di stare solo in campagna. Una sera, era il giugno del quarantadue, nel periodo della monda del riso, stavamo suonando sull’aia di una cascina facendo ballare mondine e ragazzi del posto. Ad un tratto arrivarono tre carabinieri. Non feci in tempo a scappare. Controllarono i miei documenti e mi costrinsero a seguirli. Secondo loro ero un renitente alla leva. Fui accompagnato in una caserma di Vercelli e lì un capitano disse che mi avrebbero processato e poi fucilato come disertore. Però, vedendo la mia mole, pensò che sarei stato più utile in un reparto di artiglieria alpina, anche come mulo. Così mi ritrovai nel quarto Reggimento di stanza a Mondovì, inserito nella divisione alpina Cuneense. A dicembre partimmo per la Russia. Non voglio raccontarti le sciagure di quel periodo, ma solo che fui uno dei pochi che riuscì a tornare, sia come uomo che come mulo. Mi mancavano solo alcune dita dei piedi. Decisi di riprendere a fare il camminante, anche se un po’ zoppo, proprio tra queste vallate che videro partire tanti loro giovani figli, dei quali pochi ritornarono. Solo qui, tra queste montagne, hai la sensazione di toccar con mano una libertà assoluta. Io percorro i sentieri delle Alpi Cozie e parte delle Graie, portando a quei ragazzi il suono più dolce per il loro riposo: il “silenzio fuori ordinanza”.
Eravamo intanto giunti di fronte all’ingresso del cimitero. I cippi allineati, con i nomi dei caduti e dei dispersi delle due guerre, si seguivano nelle verdi aiuole punteggiate di fiori. Romildo posò a terra lo zaino ed estrasse la tromba. Lentamente, accarezzò i cippi uno ad uno. Si pose nel mezzo, chiuse gli occhi ed iniziò a suonare. Quel motivo parve spezzarmi il cuore. Piansi per tutto il tempo.
Alla fine, Romildo mi prese per mano.
- Le tue lacrime dimostrano che sei un vero uomo. Un vero montanaro. Tieni sempre vivo il ricordo di questi ragazzi e non abbandonare la nostra amata montagna. Ricordati che un uomo deve anche saper piangere. Non mi vergogno a dirti che io piango quando accarezzo la neve. È come se accarezzassi il viso di quei giovani che si sono addormentati sotto la bianca coltre lontano da casa.
L’indomani ci salutammo. Non ho più rivisto Romildo, il camminante del “silenzio”.