Quando la bufera passerà
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”XXIII EDIZIONE - Vittorio Veneto, 7 Gennaio 2018
Segnalato
Quando la bufera passerà …
di Vendrame Roberta - Porcia (PN)
Roveredo in piano, Marzo 1944
Qua al paese abbiamo tutti paura. I tedeschi, dall’8 settembre, si son fatti sempre più cattivi, hanno i loro presidi ovunque: a Pordenone c’è quello del maggiore Schlieben, ma noi, a Roveredo in Piano, abbiamo Dornerburg. Nella caserma dell’ex Ferrobeton, sulla strada per san Quirino, lui decide della vita e della morte di chi viene preso… e prima di ammazzare tortura, strazia … era un dottore, prima della guerra, ma noi lo si chiama il boia. E poi ci sono i repubblichini, delle Brigate nere, le loro bande sono ancora più cattive….
So che in montagna ci sono i partigiani, là voglio andare, a combattere. Aspetto solo l’occasione, qualcuno a cui aggregarmi, che mi prenda sul serio, anche se non sono ancora grande…
Erto, Luglio 1944
Sono finalmente qua, in montagna.
Una sera, a inizio aprile, si era tutti nel fienile, a cercare un po’ di tepore e un po’ di compagnia, si fece a mezza voce il nome di Sante, nostro parente, del ramo della mamma: il suo nome veniva appena sussurrato, delatori ce n’erano ovunque… Era sceso in paese, sarebbe ripartito presto.
Loro non capirono, cercarono di fermarmi: il papà mi disse che c’era bisogno di me nei campi, la mamma piangeva, lo sguardo perduto, pareva invecchiata di dieci anni. Ma la scelta l’avevo già fatta.
Il gruppo di Sante era a Erto. Ci arrivammo dopo due giorni, il cammino era difficile, sempre all’erta. Sante era di poche parole, mi guardava un po’ così, quasi da mettermi in soggezione.
La prima cosa che imparai fu non fare domande, ero ancora un ragazzo, bisognava guardare e fare, senza lamentarsi, senza rimpianti.
Facciamo parte delle Brigate Garibaldi. Il nostro gruppo non è numeroso, alcuni sono arrivati già da mesi, vengono dal bellunese; qualcuno arriva perfino da Bologna. Abbiamo un obiettivo: procurare armi. Facciamo agguati, ai tedeschi, che ci chiamano banditen.
Io guerriglia ancora non ne ho fatta: sono il più giovane, il bocia, come mi chiamano qua. Faccio quello che serve, cucino, raccolgo legna, pulisco armi.
Verrà il mio momento.
Erto, Settembre 1944
Oggi c’è grande allegria: due dei nostri, Boris e Aramis, hanno fatto un’azione, gliel’hanno fatta sotto il naso ai tedeschi!
Era ieri, pomeriggio, con il sole già quasi al tramonto. Vestiti da donna, con le gerle del fieno sulle spalle, son passati davanti al presidio delle Brigate nere. Camminano a testa bassa, vanno verso il ponte del Colomber. Nelle gerle hanno dinamite, voglion fare saltare il ponte.
Seduti al riparo di uno spuntone, le appoggiano, in attesa del tramonto. Quando, col buio, vedono che le Brigate Nere han lasciato la loro postazione, piazzano la dinamite sull’arcata e dispongono altre cariche all’altezza delle colonne. Giunti dall’altra parte, accendono un pezzo di miccia e si allontanano velocemente, riprendendo la strada verso Erto. E poi il botto, con un lampo di luce bianca.
Ci voleva, il nostro morale era a terra. Qualche giorno fa quattro dei nostri erano caduti prigionieri dei tedeschi. Erano fuori, in ricognizione, sembrava non ci fossero pericoli: e invece sono caduti in un agguato. Sappiamo che li hanno catturati e portati giù, a Pordenone, al comando nazista e che da lì li han portati alle Casermette, il presidio delle Brigate nere, dove ci sono gli interrogatori. Gli altri mi hanno raccontato delle torture che ti fanno per farti confessare… botte e scudisciate fino a che non parli, e poi, se sopravvivi, il tuo destino è segnato, ti aspetta il carcere e la deportazione.
Erto, Ottobre 1944
L’estate è passata e la guerra non è finita, sta velocemente arrivando l’inverno e io a volte ho paura, paura di non essere abbastanza coraggioso, paura di aver fame, paura che mi prendano, che mi tocchi quello che ai miei compagni è capitato.
Mi piace la sera.
Riuniti intorno al fuoco si parla, anzi, io non parlo, ascolto.
Le parole vengono fuori così, senza fatica: e i ricordi del paese, e la preoccupazione dei vecchi a casa, e i campi lasciati là… e il futuro. Sono quelli sul futuro i discorsi che mi piacciono di più, su quello che faremo quando la guerra sarà finita, quando i nazifascisti saranno sconfitti, quando la guerra sarà solo un ricordo. I miei compagni, come me, non hanno fatto tanta scuola, ma le idee chiare ce le hanno: bisogna ricostruire il paese, cacciare il re, fare uno stato nuovo, che dia lavoro ai contadini, che garantisca libertà.
Parole già sentite assumono per me nuovi colori: socialismo, libertà, lavoro, uguaglianza. E tutto questo è lì, a portata di mano, ma richiede il nostro impegno, a volte il nostro sacrificio.
Io sono cresciuto nel ventennio, a scuola ci insegnavano slogan che sembravano fantastici, che ci promettevano un futuro luminoso, di conquista e felicità. Ma il sogno si era rivelato per quello che era con lo scoppio della guerra, con i nostri vicini di casa partiti alpini per la Grecia, a dorso del loro mulo, con un’unica arma , il loro coraggio… le migliaia di baionette promesse dal duce erano solo un’ illusione.
Scopro cose che non sapevo, vengo da una famiglia semplice, onesta, di lavoratori, ma che non aveva mai avuto una vera coscienza di quello che il fascismo era stato: una famiglia dove la regola era lavorare, ubbidire, non opporsi, a meno che non fossero toccati i figli, i parenti; adesso mi si apre un mondo, orribile, fatto di leggi razziali, di persecuzione, di guerre che erano state combattute usando gas, di internamenti.
In questi mesi sto imparando a confrontarmi, a capire, a non accettare quelle favole con cui ero cresciuto.
Il “professore”, uno dei compagni più grandi, è quello che più comprende il mio bisogno di capire, da un po’ ha cominciato a guardarmi con occhi diversi, che vedono aldilà della mia giovane età. E’ un uomo adulto, provato dalla vita: non è delle nostre parti, viene dal vicentino. Antifascista sin dagli anni dell’università ha subito anche il carcere, scegliendo poi l’esilio. L’esperienza del carcere l’ha segnato, non solo nello spirito ma anche nel fisico. Questo, mi ha detto, gli aveva impedito, dolorosamente, di partecipare alla guerra di Spagna, ma qua no, non poteva mancare. Di lui mi piace la pacatezza, non ha gli eccessi di alcuni della nostra brigata, riflette, e da lui sto imparando, assorbendo cose che non conoscevo: il socialismo, il comunismo – che non sono la stessa cosa, no, mi ha spiegato - la rivoluzione, gli ideali, ma anche gli eccessi che gli ideali, anche se grandi, possono portare: la violenza, l’arroganza del potere, la persecuzione degli oppositori.
Erto, Novembre 1944
Aramis, il nostro eroe del ponte, ha compiuto un’altra impresa memorabile! Alla guida di un piccolo gruppo è riuscito ad intercettare un carro dei tedeschi, carico di armi, che si stava inerpicando su, verso Barcis. L’impresa è ancora più grande in questo periodo, perché i tedeschi si stanno facendo sempre più attenti: gli alleati stanno risalendo, per i tedeschi gli Appennini ormai son quasi persi. A me pareva una buona notizia, voleva dire che finalmente la guerra sarebbe finita, che i tedeschi sono alla fine, ma il Professore mi ha spiegato che questo voleva anche dire che si sarebbero accaniti ancora di più per controllare il nostro territorio
Il professore aveva ragione.
Hanno dato fuoco a Barcis.
Ho imparato che si chiama rappresaglia. Ho imparato anche che quando un nemico è alle corde si incattivisce ancor di più, se la prende con donne, vecchi, bambini. Ho imparato che le nostre azioni possono avere conseguenze, anche sulla povera gente, che fatica a mettere insieme qualcosa da mangiare per i figli. Ho imparato che per un tedesco ucciso ne prendono dieci e li ammazzano: non importa chi sono quei dieci, che colpe hanno …
Erto, Dicembre 1944
Quassù fa freddo, le ore di luce sono poche, stiamo quasi sempre nascosti. Anche fare un fuoco è diventato pericoloso, meglio non dare nessun segnale della nostra presenza. A volte abbiamo anche poco da mangiare, ci tocca scendere a valle, fino a Longarone, e qualcuno ha paura ad aiutarci: i tedeschi non perdonano chi aiuta i banditen. Su alcuni hanno messo anche una taglia: essere guardinghi è indispensabile.
Ci siamo organizzati, qualcuno perlustra il bosco e i sentieri, ma lo sforzo maggiore è stare di vedetta. A volte mi capita il turno di notte, e le ore sembrano non passare mai. Penso a casa, ai miei, a chi ho lascito al paese, ma so che sono qua per una causa giusta, so che il futuro lo costruiremo da qui, dalla nostra resistenza, dalla nostra fatica.
Tempo per pensare ne abbiamo tanto, anche per discutere. Anche ieri abbiamo intavolato una discussione su un tema che a noi, quasi tutti contadini, sta a cuore: quando la guerra sarà finita, come cambieremo le cose? Perché, e di questo nessuno sembra dubitare, non saremo più mezzadri, sfruttati dal padrone… stiamo lottando per la libertà, ma libertà vuol dire anche avere la terra, avere dignità, non doversi più inchinare al sior paron. E poi vogliamo decidere su chi comanderà: il re se ne deve andare, questo è sicuro. Appena la guerra si è messa male è scappato a Brindisi, con Badoglio, lasciando Roma e il Paese allo sbando, senza guida. Il Professore è cauto, però, su cosa verrà dopo i Savoia, sulle scelte che gli italiani dovranno fare: qua in tanti si dicon comunisti ma, dice, siamo sicuri che il comunismo sia la strada giusta? E allora i toni si alzano, tutti voglion dire la loro, anch’io. Sono partito ragazzo, pochi mesi fa, ma qui pochi mesi mi han fatto diventare un uomo.
Erto, Febbraio 1945
L’inverno sembra non passare più. E’ l’inazione quello che ci pesa di più. Arrivano notizie, rare: gli alleati son fermi sulla linea Gotica, già da tanto, e mentre si attende che sfondino i tedeschi si vendicano sui civili, bruciano tutto, deportano, ammazzano, donne, vecchi, bambini.
Le giornate trascorrono lente, fredde e buie.
Sono sceso a Longarone, qualche giorno fa, era il mio turno di andare a caccia di provviste. Risalendo, con i miei due compagni e un magro bottino, abbiamo visto traccia di tedeschi: ci siam dovuti accampare per la notte, ripartire all’alba del giorno dopo. All’arrivo al nostro rifugio, stremato, avevo la febbre, alta. Ricordo solo, nel delirio, un volto di donna, giovane, che mi stava vicino. Era Rosa, la sorella di Berto, “Bracco”, ragazza coraggiosa, che quando può ci raggiunge, con qualcosa da mangiare, qualche indumento pesante che le donne dei paesi preparano per noi, qualche notizia. E’ brava anche a sparare, se serve. Se non fossimo qua, a combattere per la libertà, se la mia, le nostre vite non fossero state travolte dalla bufera della guerra, la porterei a ballare, progetterei il mio futuro, con lei. Ma la giovinezza ci è stata tolta, non c’è posto per questi sogni.
Casso, Aprile 1945
Siamo alla macchia, i tedeschi hanno scovato il nostro rifugio, lo hanno bruciato e ora ci braccano, come animali. Animali noi, in fuga, animali loro, che non guardano in faccia niente.
Ogni giorno ci spostiamo a piccoli gruppi: facciamo qualche sortita, appena il nemico si scopre un po’, ci muoviamo rapidi, invisibili.
La guerra ormai è alla fine, gli alleati hanno sfondato, stanno arrivando a nord, a giorni si attende che i tedeschi si arrendano. Ormai la loro guerra è persa, anche la loro capitale, Berlino, è circondata. Che ne sarà dei nazisti? E del duce? E dei fascisti, di quelli che in questi anni hanno potuto fare ciò che volevano, angherie sulla povera gente, ruberie, torture… ne parliamo tante volte, fra noi. Il Professore dice che non bisogna farsi grandi illusioni, la pace si costruirà con fatica, e che non bisogna a tutti i costi cercar vendetta… il futuro non si fonda su questo. Certo, dice, bisognerà che ognuno risponda di ciò che ha fatto, che chi ha sbagliato paghi, ma senza diventare come loro. Sembra farla facile, lui. Io non so cosa farei se mi trovassi a tu per tu con un torturatore o con chi ha ammazzato donne e bambini o con chi ha caricato sui treni povera gente non colpevole, destinata a campi di lavoro del nord.
Roveredo in Piano, Maggio 1945
La guerra è finita, gli angloamericani sono entrati nelle città del Nord, con i partigiani, uomini e donne. Ma il “bocia” non era fra loro.
Pochi giorni dopo la liberazione di Udine e Pordenone un uomo bussa alla porta della casa di Antonio, Toni per i suoi, “bocia” per i suoi compagni in montagna. E’ un uomo stanco, seppure non ancora vecchio, provato dalla guerra. Si presenta, era nel gruppo di Erto, con il loro figliolo.
E’ caduto lassù, in un agguato dei tedeschi, proprio all’ultimo quando forse, e lo dice quasi fosse colpa sua, l’attenzione era venuta meno.
Gli hanno sparato, tedeschi in fuga, mentre si stavano organizzando per scendere a valle.
Non ha sofferto, e se anche soffriva non lo ha dato a vedere, ragazzo coraggioso, il più giovane del gruppo. Lui gli aveva fatto un po’ da padre, specie all’inizio, quando sembrava un po’ smarrito. Ma poi erano diventati compagni, il “bocia” era in gamba, con lui si poteva ragionare.
Aveva grandi progetti, per la sua famiglia e per il suo paese, ma anche per la sua Patria…
Dedicato a quelli che nelle nostre montagne hanno combattuto e che sono caduti perché noi potessimo essere liberi.