Primo classificato
Tutte le edizioni > Edizione scuola > 2022-24-09
ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE RISERVATO ALLA SCUOLA
PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna e il suo mondo”II EDIZIONE - Treviso, 24 Settembre 2022
Primo classificato
LA CHIOMA DI BERENICE OVVERO
CATASTERISMO DI UN 149G
Primo classificato
di
Dall’Asta Mattia Breda di Piave ( TV )
III D liceo classico “A. Canova” (TV)
Smembrato, sono trascinato sulla neve fresca che da alcuni giorni ammanta la via per la Val d'Avio, i pezzi, strappati al mio corpo, sono distribuiti sulle slitte, ma non posso vederli, steso inerte sui pattini strattonati in salita. Davanti due file fittissime di penne nere ondeggiano, arrancano sulla coltre profonda compattandola sotto le centinaia di suole consumate, e sopra di me il tetto grigio di nubi lancia di sotto i suoi bianchi coriandoli, coprendo presto le orme di quell'impresa ardita. Dietro la slitta, un artigliere, che non sprofonda come i compagni che trascinano, calcando i piedi freddi e bagnati nei solchi dei pattini, puntella con una pertica la barella che mi sostiene: che non ricada a valle, rendendo vana la fatica sovrumana.
I fiocchi sì depositano sul mio corpo gelido, coprendolo, e vorrei scuotermeli di dosso, ma sono paralizzato, non posso neppure chiedere aiuto aì commilitoni, e debbo attendere che un caporale si accosti, mentre gli alpini traggono un fiato, e passi la mano sulle coperte, invero pochi stracci, che mi avvolgono, gettando via la neve.
E riprendono a trascinare, per tutta la giornata, e non ci si ferma neppure per la notte; anzi, pare che gli ufficiali siano entusiasti dell'oscurità, mormora la truppa: si proseguirà coperti dal buio, ché “Cecco Beppe” non ci vede. Qualcuno, sommessamente, contesta davanti al rancio sfreddato che nemmeno loro ci avrebbero visto e sarebbero finiti con la faccia nella neve o giù dal dirupo; non riceve risposta. Aiutandosi col bastone un sergente, il volto coperto dalla sciarpa di lana sì fa più vicino: da principio direste che sfoggi una folta barba, ma, non appena abbia varcato il confine dell'ombra, superando una roccia sporgente che scherma il poco di luce cerulea, vedete che si tratta dei cristalli glaciali, intrappolati nelle trame ispide della pezza, accumulatisi sino a formare un ammasso voluminoso di protuberanze, il fiato immediatamente pietrificato dal gelo, immortalato nell'ordito grezzo e pungente nel momento stesso in cui il soffio caldo della vita è vinto dall'inverno della montagna.
In marcia! I margini della strada si animano d'un tratto, come le sagome dai riflessi blu si sollevano dal candore senza vita per prendere posto lungo il canapo; come docili animali da soma si impongono essi stessi la cavezza irrigidita dal ghiaccio, che scricchiola agitata e risvegliata dal letargo polare in cui giaceva inerte, abbandonata lungo il sentiero. Soltanto uno si attarda, piegando un foglio di carta misera, talmente sottile da essere penetrato da parte a parte dai raggi bluastri riflessi dal manto nevoso: pare una lettera, quella pagina tremula fra le sue dita intirizzite. Una lettera che viene dalla pianura, che sembra ormai tanto distante dopo l'eterna salita, scandita dai soli gemiti della slitta cui sono allacciato. Un tempo fui anch'io in quella pianura; anzi più lontano ancora. Nacqui a Torino, figlio di operai ingaggiati dalle fabbriche Ansaldo, classe 1896, avevo tanti fratelli, ma in molti fummo strappati alla casa natale, chiamati alla leva del 1911 per la guerra Italo-turca; tornai a Torino un anno più tardi, e vi rimasi, accanto alla famiglia sino al 1915, con la nuova leva; fui allora inquadrato nell'arma di artiglieria, ma già dal gennaio del 1916 non ebbi più notizia dei fratelli, da cui fui separato; andai a combattere in Trentino. Il 9 febbraio dello stesso anno, la tradotta fece tappa a Temù e la risalita ebbe inizio, al fianco di duecento e più compagni, tra loro il capopezzo e i serventi.
Sotto gli occhi divini che scrutano dalle bianche cime fui trascinato dal sacrificio dei tenaci alpini, ma in una triste notte la montagna tradì i suoi animosi figli, seppellendoli sotto di sé, forse credendo, ignara e premurosa madre, di risparmiare loro gli affanni della guerra. Uno, che, al di là del buio striato di neve leggera, mi pare un giovane soldatino biondo, appena più avanti di me, solleva il capo a sinistra, osserva la croda che si staglia imponente sul firmamento, contornata dell'orlo argenteo del barlume lunare: sussulta e si scuote dando l'allarme... rovina! Scende la slavina! Ci investe, ci sommerge, ci soffoca. Spezza la colonna pendula delle penne nere, troncandola dei suoi membri e fratelli, come il corpo cui sia mozzato un arto. Chi dall'erta si volta a guardare, mentre il peso della neve che corre dal crinale gli strappa la corda dalle mani annodate nelle pezze,
depositatosi il pulviscolo celeste, non vede più che una distesa fredda. Non dicono una parola, ma li affidano al Signore con tacita dignità: non c'è al mondo più grande dolore che vedere un alpino morir, ed anche lo sfondo delle vette tace affranto. Io sono sepolto, pur vivo, non odo più le voci dei
compagni, ancora bloccato dalle cinghie sulla slitta. Il mio tronco gela rapidamente, sento ìl freddo risalire dall'estremità; forse passa una notte, forse due. Quando il picchio d'una piccozza e il cigolio dei ramponi mi risvegliano un mattino, sono estratto con una pena ed una fatica enormi, sollevano il mio peso trattenuto dall'avida slavina: i compagni, cui la coltre coprì il definitivo giaciglio, hanno sorte più triste della mia, ed il traino riprende, ma il loro posto lungo il capestro è ora occupato da volti nuovi, eppure sempre uguali: ugualmente gravati dall'amarezza e ugualmente determinati al sacrificio.
Non so per quanti giorni io sia stato tratto alle vette, ma un luccichio vibrante, pur essendo una nullità affogata nella scenografia plumbea del versante candido rischiarato dalla luna, infonde, col suo flebile raggio, una forza che pare alleggerire il mio carico dalle spalle e dai cuori. Si arranca sulle pietre congelate per intere notti, sfidando l'erta ostile del Calvario dove i pattini della slitta restano continuamente piantati tra due macigni e tutta la colonna, cui l'ordine di fermata giunge in ritardo, dà uno strattone, talvolta chi troppo è stremato inciampa su una roccia instabile e nascosta e rovina in ginocchio, rompendo coi gomiti protratti la tela nivea perfettamente stesa; ciononostante non si demorde, chiamati dalla voce amorosa e materna del rifugio Garibaldi, sprofondato nella Val d'Avio, dove le sentinelle delle Alpi disgelano i piedi e rifocillano il morale. lo sono riparato, assieme a molti compagni avvolti nel tabarro, sotto una baracca montata addosso alla parete: percepisco il calore del focolare al di là delle pietre cementate, sento il fumo ardente che risalendo il comignolo fa gocciolare la tettoia spiovente. Esausto, il sonno mi vince.
Solo il rischiarare mattutino dissolve la china della notte, permettendo di leggere la targa incisa sulla parete della casera: "Rifugio Garibaldi" e sotto "2535 metri".
Il gelo ha consolidato la neve e gli alpini, ristorati almeno in parte, fervono intorno alle mie slitte; si adoperano nel tentativo di farmi strisciare fuori dalla baracca, attraverso la porta ostruita dai cumuli farinosi di fiocchi freschi. Durante l'ascesa il cielo si mescola alla terra, dissolvendo l'orizzonte dietro le nubi, troppo umili, persino esse, per innalzarsi alla pari delle cime, finché Io scenario non si tramuta in una tela striata di innumerevoli
sfumature di grigio, tra le rocce, i nembi e il cielo cinereo..
Spunta l'alba del 29 aprile e io mi trovo finalmente eretto, vedetta del Passo del Venerocolo, dopo una notte turbolenta, animata dalle opere instancabili delle piccozze degli alpini che hanno scavato la posizione, e da quelle delle mani ingrassate degli artiglieri, i quali, montato il pezzo al barlume dell'aurora, ora lo approntano al tiro inaugurale. Il portello che serra la culatta si apre con il fischio della vite fissata al volano roteante, i cardini cigolano, e il capopezzo, finalmente, chinandosi guarda su per l'affusto il cerchio celeste che si apre oltre la bocca da fuoco, lo stesso celeste che dal 9 febbraio li aveva sempre sovrastati, eppure profondamente diverso ora che lo scruta attraverso il cilindro rigato. Un 149mm, trascinato in tutti i suoi 45 chilogrammi ed ora maneggiato con gran cura, viene riposto nel mio ventre e dietro si sigilla l'otturatore; i serventi al pezzo coprono le orecchie e ammirano i versanti oltre il Passo, in apnea per l'attesa: con un fragore roboante scaglio il proiettile laddove il collimatore, su cui ha armeggiato il capopezzo, mi indica e il monte dirimpetto sembra essere morso dalla deflagrazione, la quale appare poco più che uno sbuffo da tanta distanza: per la valle rimbalza il brontolio dell'esplosione e il crocchio di ufficiali che presenzia è investita di euforia, poco realista, dal momento che si parla di grande successo prima ancora di aver ottenuto una qualunque vittoria, al netto di un'impresa arditissima ma straziante. Nella giornata supporto con la mia gittata l'impeto dei reparti che discendono la valle per dar l'assalto al Crozzon di Folgorida e continuo a sputare ogive fino alla metà dì maggio, date l'inconcludenza delle manovre di fanteria e la tenacia con cui "Cecco Beppe" trattiene strenuamente la posizione: alla fine persino la più ostinata truppa di montagna abbandona la croda martoriata dai miei colpi, lasciando il passo agli alpini.
Il Comando è ben soddisfatto dell'esito e non attende un momento, presentando immediatamente le pianificazioni ideate per l'offensiva consecutiva: la mia posizione dev'essere avanzata ed innalzata a quota 3276 metri, onde avere un tiro libero su Covento e poter battere le linee di Folletto.
Ancora una volta mi ritrovo spartito nelle mie membra su diverse slitte, ma per i duecento alpini, dopo tante gesta, l'ultimo, estremo, temerario, passo dell'ascesa alle quote del firmamento è fatica di poco conto, affrontata con alto morale e spirito saldo.
Domattina, a sorpresa, accoglierò l'alba delle Alpi, che farà capolino coi suoi timidi raggi oltre il dorso aguzzo di Cresta Croce, aprendo il fuoco.
Ma sino ad allora attenderò coi fratelli, che con me sono ascesi alle eccelse altitudini degli astri, immortalandosi nella storia cosi come il firmamento è eternamente impresso sulle teste degli abitanti della pieve.
Breve commento al titolo
Il titolo fa riferimento all'ancestrale tradizione, diffusa presso molte antiche civiltà, secondo la quale le offerte agli dei, innalzate ai numi per mezzo del sacrificio, sarebbero state accolte nel cielo e trasformate in costellazioni, astri, comete etc. Questo processo di divinizzazione dell'oggetto offerto in voto, detto "processo di catasterismo", trova realizzazione nell'Inno del cirenaico Callimaco (III secolo a.C.) intitolato "La chioma di Berenice". Il titolo del presente testo vuole quindi essere, d'un canto un omaggio alla classicità e agli apici della produzione letteraria classica, dall'altro un'allegoria: infatti, il sacrificio sovrumano degli alpini che trascinarono un cannone 149G sulle vette dell'Adamello ha concretamente innalzato l'oggetto sino al cielo, e, come il firmamento ci sovrasta eterno, l' "Ippopotamo" resta tutt'ora fissato tra i cieli, a perenne memoria della forza e della tenacia di quegli eroi.