Primo 30 - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Primo 30

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA


"La Montagna:le sue genti , dalla storia all’ attualità"

XXX EDIZIONE Teviso, 11 gennaio 2025
Primo classificato
Alfonso e Piccenina
di Borin Fiorella
Isola della Giudecca (VE)
 
Nell’infanzia di Nina c’è un giorno più chiaro e luminoso di tutti, un giorno del quale subito intuisce l’importanza.
Nel dormiveglia ha avvertito la presenza di qualcuno accanto al suo letto. Ha socchiuso gli occhi, frugando nella penombra della stanza in cui entrava il primo chiarore dell’alba.
«Alfonso!» ha mormorato, e ha steso le braccia verso il fratello grande, ventun anni e lentiggini sul naso.
«La mia piccenina» ha sussurrato lui, stringendola a sé. Lei ha sentito sulla guancia posarsi un bacio, poi un altro e un altro ancora, con quella che solo anni dopo comprenderà essere la foga dettata da un presentimento. «Torna a dormire, adesso» ha detto Alfonso, ventun anni e la divisa di soldato.
«No!» ed è saltata giù dal letto, ha preso i calzini e i sandaletti, ha afferrato il vestito lasciato sulla sedia, «ti accompagno con la mamma alla stazione!» ha proclamato, gonfiando il torace per sembrare più adulta dei suoi sette anni appena compiuti.
Alfonso si è arreso. «Fai presto, però. La mamma è già pronta, mi ha già preparato il pacco con la roba da portare via.»
Ha fatto prestissimo, Nina: per guadagnare tempo, non si è neanche lavata il collo e le orecchie.
E tutti e tre si sono incamminati verso la stazione. Lungo la strada hanno visto altri alpini.
Chi li accompagnava aveva la faccia rigida, di chi vorrebbe sorridere ma non ce la fa. E così crescevano smorfie sui visi delle mamme, delle morose e di Nina, che per la prima volta in vita sua vedeva la stazione e respirava la fuliggine del treno.
«Mi raccomando, fatti fare una fotografia e mandacela subito» diceva sottovoce la mamma.
«Stai tranquilla, il signor tenente ha una macchinetta e siamo già d’accordo che il piacere me lo fa lui».
«Alfonso, spediscimi una foto tutta per me!» ripeteva Nina, e lui annuiva, la rassicurava, le allungava una carezza e subito distoglieva lo sguardo per non farle capire che aveva la gola chiusa dal pianto.
«Alfonso, stai attento…» mormorava come una litania la mamma.
La bimba invece lo tirava per la giacchetta. «Ricordati di scrivere nell’indirizzo “alla signorina Evelina”, perché vado a scuola e sono grande. Nella foto fammi la dedica, e là sì che puoi scrivere Piccenina, perché tanto è un segreto fra me e te.» Lui, ventun anni e un destino già segnato, biascicava parole di assenso.
Arriva il momento dell’ultimo abbraccio, dell’ultimo bacio sceso sulla fronte di Nina, Evelina per l’anagrafe, Piccenina per quel soldato che non tornerà più.
I giovani salgono sulla tradotta, si affacciano ai finestrini sventolando i cappelli con la penna nera, fanno ciao con la mano, c’è una mamma che solleva in alto il figlioletto neonato, e c’è Nina, che saltella per riuscire a vedere la locomotiva che fischia il suo addio, le carrozze che si muovono, si allontanano, rimpiccioliscono e infine non si vedono più.
Solo allora la tensione può allentarsi. Crollano le difese, gli occhi si riempiono di lacrime, le mani corrono al viso a coprire facce stravolte dalla pena per quel distacco che si annuncia lungo, e devasterà tutte le famiglie dei giovani del battaglione Cividale che va in guerra sul fronte orientale.
Agosto 1942. Nell’aria immobile della calura estiva, accoccolata sul pavimento del tinello, Nina scrive sulla prima pagina del quaderno nuovo: “Alfonso mi a promesso che mi manda la foto con la dedica tuta per me” e sotto disegna un cuore grandissimo, che colorerà con il pastello rosso. Le sembrerà il disegno più bello e più vero che abbia mai fatto. Su quel cuore, riguardato con ammirazione un attimo prima di scivolare nel sonno, si conclude il giorno più chiaro e luminoso dell’infanzia di Nina, quando la parola speranza ha ancora un senso.
Iniziano i giorni dell’attesa. Si aspetta, con il cuore in gola, l’arrivo del portalettere. Lo si spia dalla finestra, dalla soglia di casa, dal cortile, dalla strada, gli si va incontro, alle volte con le buone e alle volte con le cattive, arrivando a strattonarlo, a gridargli che è un imbecille che si perde la posta nei suoi bivacchi all’osteria e non ha riguardo per le famiglie dei soldati, a crollargli in ginocchio davanti, le mani giunte a implorarlo di guardare meglio, perché una lettera di Alfonso ci deve essere, ci deve essere per forza… Ma non c’è. Dalla borsa del postino usciranno in tutto, magre e avare, solo tre cartoline postali con la firma di Alfonso: una al mese. Settembre, ottobre, novembre, poi basta. Lettere, niente. Nessuna busta dal cui ventre miracoloso scaturisca la grazia di una foto.
Quello del 1942 sarà il Natale più triste per Nina; e il più disperato per sua madre, che maledice la loro povertà che non ha consentito mai il lusso di una sosta dal fotografo per scattare una foto a quel figlio che sembra inghiottito dalla Russia.
L’inverno snocciola il suo rosario di giorni freddi, appesantiti da un gelo che si spalma non solo sui monti della Carnia e sulle valli del Natisone, ma anche sulle spalle di tante madri che ora camminano curve, invecchiate di colpo, impaurite da un silenzio che non vuol conoscere rassicurazioni.
Nessuno dei ragazzi del Cividale ha più scritto a casa. E ormai le nevi si stanno sciogliendo, si annuncia la primavera che riporterà in Italia le prime tradotte di reduci dal fronte orientale. Nella casa di Nina arriverà una lettera su carta intestata in cui compare una parola dal suono minaccioso e incomprensibile: Verbale di irreperibilità.
Irreperibile non significa che Alfonso è morto: significa semplicemente che non si trova, non si sa dove sia, potrebbe addirittura avere disertato ed essere la vergogna dell’Italia.
Si onorano i morti. Si compiangono i feriti. Si ammirano gli eroi. Si disprezzano quei centomila irreperibili che con la loro assenza gettano ombre sulla patria invitta e gloriosa.
Centomila. Un numero immenso.
Comincia, per la madre di Nina, la questua di casa in casa, in cerca di notizie. Del Cividale si dice che ne sono morti trecento sul Kalitwa e poi è proseguito lo stillicidio continuo, inesorabile. Ne mancano mille. Solo in duecentocinquanta sono tornati: a chi manca un braccio, a chi i piedi, c’è chi è ridotto all’ombra di se stesso, chi ha cambiato carattere, chi non riesce più a dormire, chi si è chiuso in un mutismo roccioso, da cui non sgorgano parole ma solo sguardi smarriti, come se nella neve di Russia fossero andate perdute tutte le parole che davano un nome e un significato alle cose.
Nell’autunno del ’44 Nina impara una nuova parola: cosacchi. Sono uomini con strani copricapi, e montano cavalli più veloci del vento. Anche la loro lingua è strana, incomprensibile e affilata come gli sguardi che lanciano su tutti loro. C’è un che di antico e selvaggio, in quegli uomini arrivati in Carnia a migliaia, seguiti dalle loro famiglie e dagli armenti. Sono al servizio di Hitler, cercano i partigiani e quando li trovano si sentono grida e spari e l’erba si tinge di rosso. Certe sere si ubriacano e cantano canzoni che sanno di neve, di lontananza, del gelo che si è inghiottito Alfonso.
Le genti della Carnia hanno conosciuto la loro brutalità e tutti ne hanno paura. Lei no: ha smesso di temerli non appena le hanno spiegato che i cosacchi vengono dall’Unione Sovietica. Rimpiange solo di non avere mai ricevuto la fotografia del fratello, perché gliel’avrebbe mostrata, avrebbe chiesto di lui, se lo avevano visto, se per caso avevano bevuto insieme un bicchiere e mangiato una zuppa seduti sul pavimento di un’isba, e se per caso lui aveva parlato, sottovoce, come in un segreto, di quella bimba che solo lui chiamava Piccenina.
È uno strano animale, la memoria. Sonnecchia come un gatto che dorme placido acciambellato su un cuscino. Non lo ridesta lo scroscio del temporale, non lo fa sussultare la porta che sbatte, ma basta un sospiro a fargli drizzare le orecchie e tirare su la testa. Così è per Nina. Il nome del fratello perduto le viene addosso senza preavviso: basta un folata di vento, il profumo dei ciclamini, il volo di una foglia secca, il canto del merlo che saltella sull’ erba, e quel nome le esce di bocca: Alfonso! Lo chiama, lo invoca, lo piange con il suo cuore di bimba.
A volte ha l’impressione che lui le cammini un passo indietro, quando si inerpica per il sentiero che conduce al bosco. Allora si gira di scatto, ma lui non c’è. Delusa e indispettita, si china a cercare le corolle dei colchici, ne raccoglie quattro, cinque, sei, ne fa un mazzetto, sa che sono fiori velenosi, è stato proprio lui a proibirle di accostarli al naso, ma ugualmente se li porta alle labbra: «Alfonso! Guarda! Adesso li mangio!» e pensa che basterà questa minaccia a farlo comparire, attento e paterno come solo Alfonso sapeva essere.
Ma non succede niente.
Alfonso non c’è.
E lei butta via quei fiorellini rosa che fanno venire il mal di testa e potrebbero addirittura uccidere se qualcuno li cucinasse scambiandoli per zafferano. «Tu non mi vuoi più bene» dice fra i singhiozzi. «Se mi volessi bene, torneresti qui».
Non è facile far capire a una bambina così piccola che cosa significhi essere un “disperso”. Evelina sa che qualcuno, lì in paese, un giorno non ha più trovato un vitello, o una capra, o un cane. Allora si è andati tutti nel bosco, si è guardato nei dirupi, si è cercato nei corsi d’acqua, si è urlato a squarciagola il nome dell’animale smarrito. E lo si è ritrovato: magari smagrito, malconcio, azzoppato, ma tutto quel darsi da fare è servito a riportarlo a casa. Si raccontava di un cane che addirittura impiegò due anni per ritrovare la strada, ma alla fine raschiò alla porta e fece così tante feste al padrone da rompersi la coda, tanto la faceva frullare come un mulinello.
Perché Alfonso non torna?
E sì che il suo nome Nina lo ha invocato tante volte: lo ha gridato al bosco, lo ha insegnato alle farfalle, lo ha sussurrato alle formiche, lo ha sillabato alle coccinelle portafortuna che fortuna non le hanno portato. Nina ha urlato il suo nome laddove le montagne creano l’eco e ogni suono si posa sulle rocce e lì rimane per sempre, inudibile, ma abbracciato alla terra, ai fiori, alla rugiada che al mattino saluta il sorgere del nuovo giorno.
Ma non è servito.
Maggio del ’45. La guerra è finita. Radunano le loro cose e levano le tende dalla Carnia i cosacchi: disperati e sconfitti, vanno incontro alla loro sentenza di morte. Stalin non è tipo da perdonare i traditori.
Nel ’46 tornano in patria gli italiani sopravvissuti alla prigionia nei lager sovietici. Se ne aspettavano tanti: ottantamila, settantamila… almeno cinquantamila… Invece no. Diecimila soltanto. E Alfonso non c’è.
Rimane vuoto il portafotografie fatto da Nina, ritagliato nel cartoncino e ingentilito da fiori secchi incollati a ghirlanda. Rimane la pagina del suo quaderno di prima elementare, dove anno dopo anno sbiadisce il rosso acceso del cuore disegnato in quel giorno così chiaro e luminoso dell’agosto del ’42. Rimane la disperazione per quel fratello il cui volto sopravvive solo nella sua memoria: solo nella sua, perché la madre si è lasciata vincere dal dolore e ha chiuso gli occhi invocando il figlio, tendendo le mani verso la porta socchiusa, dove lei sola lo vedeva stagliarsi.
Rimane il dubbio su quella fotografia mai arrivata: Alfonso non è riuscito a spedirla o invece è andata smarrita, distrutta in un treno bombardato, in una stazione incendiata, scivolata in una fessura del pavimento di un disordinato ufficio postale? E il dubbio alimenta l’angoscia; ma al tempo stesso tiene viva la memoria.
E finalmente, il giorno del suo ottantasettesimo compleanno, Evelina prende da parte il nipote e gli dice: «Per favore, trova una foto di mio fratello. Sono vecchia, posso morire da un momento all’altro, ma prima di lasciare questa terra voglio rivederlo. Aveva le lentiggini, i capelli tagliati corti, i denti bianchi, gli occhi miti come quelli di un agnello. Quando arriverò in Paradiso, vecchia come sono, come farà a riconoscermi? Vorrei riconoscerlo io, e abbracciarlo, e dargli tutti i baci che in questi ottant’anni non gli ho potuto dare.»
Il nipote si mette al lavoro. Si iscrive a tutti i gruppi di figli di caduti e di reduci dalla Russia presenti nei social network, espone la richiesta della nonna, racconta di quella vecchietta che ancora tiene sul comodino il portafotografie di cartone tragicamente vuoto. Immediata, scatta la solidarietà. Si mette in moto lo strano meccanismo che fa sì che il dolore e il desiderio di uno diventi la tenerezza di tutti. Vengono postate decine di foto dei ragazzi del Cividale: foto ingiallite, strapazzate, sfocate, ma comunque leggibili, affollate di visi ingenui, alcuni ancora imberbi, di una bellezza e una lontananza indicibili.
Il nipote ingrandisce le foto, le stampa, le consegna alla nonna, che con occhiali, lente d’ingrandimento e mani tremanti le guarda, le studia, le bacia, e tutte se le stringe al petto, tutte, perché Alfonso non c’è in nessuna di quelle foto, ma è come se ci fosse in tutte.
E da tutte quelle labbra ormai chiuse per sempre, lei si sente chiamare Piccenina.
 
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