Primo 29
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue genti, le storie di ieri e di oggi”XXIX EDIZIONE Arcade, 5 gennaio 2024
Primo classificato
Edelweiss
di Chiabudini Laura
Pordenone
L’aveva mandata a dormire presto, dopo una cena consumata in silenzio, loro due e la nonna, donne sole perché il padre e il fratello maggiore sono all’estero. Qui di lavoro ce n’è poco e di miseria tanta. Colpa della guerra, ripete spesso la madre e la nonna, che tace sempre, annuisce. La guerra le ha portato via il marito e un figlio e da allora l’unico colore in cui il fisico minuto sconta la pena di vivere è il nero.
La porta si apre e la voce della madre che le dice di alzarsi è dura, senza tenerezza. Sembra ancora in guerra, pensa Maria, ma la guerra è finita da più di dieci anni ormai e sarebbe ora di girare quella pagina. Le dice di muoversi, che non c’è tempo da perdere se vogliono arrivare prima delle altre e trovare i posti migliori, dove le stelle alpine sono più belle.
L’aveva mandata a dormire presto ma lei non riusciva a prender sonno, la sera sapeva di fieno e di fiori, il canto dei grilli e le chiacchiere lontane di chi nel borgo si godeva il fresco fino a tardi invitavano a uscire. Forse tra loro c’era anche Piero, che la guardava sempre a lungo quando s’incontravano alla fontana a prendere l’acqua. Avrebbe voluto essere là, nella piazza del paese con gli altri ragazzi a ridere e scherzare, non pensare alla fatica dell’indomani. Aveva interrogato, tra le ombre della camera, i santini e la Madonna appesa sopra il letto, per sapere quale sarebbe stata la sua vita, se era destino passare l’estate alzandosi nel cuore della notte per andare a raccogliere stelle alpine, o se sarebbe andata in una grande città, a fare la sarta magari, le sarebbe piaciuto, anche se quando andava a scuola la maestra diceva sempre che era brava e doveva continuare a studiare.
“Con quali soldi?” aveva detto la madre, e il discorso era finito lì. Ma nella testa di Maria si era completato con le parole che le aveva sentito dire tante volte, che una femmina deve pensare solo a diventare una brava donna di casa.
Il richiamo della madre la distoglie dai suoi pensieri e dagli ultimi istanti di intimità con un sonno durato troppo poco e vuoto di sogni. Apre l’armadio che sa di legno vecchio e lavanda. Si veste in fretta, dopo essersi lavata il viso con l’acqua del catino. Scende in cucina, beve una tazza di latte e prende la sua cesta.
Fuori la notte di agosto è un’oscurità profonda piena di stelle, la vertigine davanti all’infinito le mozza ogni volta il respiro. Resta incantata, immobile come se qualcuno le avesse rubato l’anima trasportandola in quegli spazi immensi. È ancora la voce della madre a richiamarla. La vede già lontana, un’ombra nera con lo zaino sulle spalle, uno zaino militare, lascito di una guerra passata anche da quelle parti. Si affretta a raggiungerla, sa già che le dirà di stare attenta a dove mette i piedi. Camminano in silenzio su quel sentiero che ormai conosce bene, lasciandosi dietro l’eco dei passi e dei respiri. Maria si volta a guardare il paese muto, i tetti illuminati dalla luna tra i quali c’è anche quello della casa di Piero, dove tutti dormono. La giornata nei campi deve ancora iniziare, ma finita l’estate se ne andrà anche lui, perché qui lavoro non c’è.
All’alba raggiungono i posti dove le stelle alpine crescono più belle, sul versante esposto al sole, tra l’erba rasata dalle mucche al pascolo. Il giorno cresce rapidamente e lei si sente rinascere, rivolge il viso al sole e le sembra che si apra e si distenda come un fiore avido di luce. Attraversare i boschi di notte ogni volta è per lei un’avventura dall’esito incerto, insidiata da creature da cui è meglio star lontani, folletti e anime di morti, neri carbonai emersi da sentieri sprofondati nella terra. Li immagina così da quando si era imbattuta in un tumulo nero che buttava fumo da diverse bocche. Le era sembrato una propaggine d’inferno, luogo di raccolta di anime dannate e con gli occhi dilatati dal terrore aveva guardato la madre. “È una carbonaia,” le aveva spiegato, rassicurandola. Ma quello era il segno che avevano sbagliato strada e dovevano tornare indietro. Poi non era più successo, da allora risalgono sentieri noti e prevedibili, ma lei li percorre sempre tesa e contratta, guardandosi le spalle di tanto in tanto, fermandosi a ogni rumore sospetto, temendo il verso cupo di un rapace alle sue spalle o l’assalto improvviso di un animale selvatico.
Osserva i fiori oscillare sotto il vento che pettina il prato. Accarezza i petali lanosi, indugia nel piacere dei polpastrelli che sfiorano lo spessore di velluto. Recide gli steli facendo attenzione a non sradicare la piantina, forma mazzetti che poi lega insieme con un filo di lana. La madre procede veloce, i mazzi sono riposti nello zaino con rapida maestria.
“Sei troppo lenta” dice osservando la figlia “di questo passo farai notte.”
Lei allora abbandona a malincuore il ritmo calmo che il suo animo accorda con quello di un canto alpino sussurrato a mezza voce, accelera, spezza, raccoglie e lega, ripone nel cesto, cerca di non farsi distrarre dal profumo di fiori portato dal vento, dal profilo dei monti che digradano e sfumano nelle pianure sconosciute, mentre un azzurro intenso colora il cielo. Conta i mazzetti, ne ha ancora tanti da fare.
A sera nonna Orsola immergerà gli steli in acqua e l’indomani Maria potrà fare il lavoro che preferisce, disporre con cura i mazzetti tra i fogli di cartone. Poi i fogli saranno sovrapposti e i fiori pressati sotto il peso di pietre che lei non riesce a sollevare ma la madre sì. Poi verrà il mercante a prenderli.
Osvaldo, il “signor” Osvaldo, come la madre voleva che lo si chiamasse, pagava bene gli edelweiss, perché erano molto richiesti in Austria e Germania. “Cosa se ne fanno?”, aveva chiesto una volta Maria. “Quadretti, cornici, cartoline, cose che si chiamano souvenir.”
Osvaldo portava sempre con sé il figlio Ernesto, con i capelli lisciati come se li avesse spalmati d’olio e le scarpe di vernice, che la scherniva per le sue trecce allentate, gli zoccoli sformati ereditati dal fratello, la puzza di stalla.
“Ma quale puzza di stalla” aveva ribattuto lei, offesa. “Io non vado mai nella stalla.”
La madre le aveva posto una mano sul braccio e il suo sguardo le diceva di tacere, di non essere impertinente.
Hanno torto gli altri e vengo rimproverata io. Il pensiero le si era gonfiato dentro fino a chiuderle la gola, era risalito in forma di nodo pronto a sciogliersi in lacrime, annebbiandole la vista. Allora aveva abbassato la testa, aveva detto scusate e se n’era andata in camera sua, a guardare dalla piccola finestra le montagne e la Topolino nera di Osvaldo che si allontanava carica di edelweiss.
Osvaldo e il figlio non erano più venuti. Si era fatto avanti un altro mercante disposto a pagare di più e la madre non ci aveva pensato due volte.
Maria sistema i mazzetti nella cesta, già piena per tre quarti, quando all’improvviso non si vede più nulla, la madre diventa un’ombra avvolta in una fitta nebbia. Restano ferme, perché in quel bianco privo di riferimenti ci si può perdere.
La nuvola che le ha inghiottite corre lungo i pendii, a tratti meno densa. Il sentiero ricompare e la madre decide di raggiungere la casera, che non è lontana. Maria sente il viso e i capelli bagnarsi in quell’acqua rarefatta che dopo un po’ diventa pioggia, diventa temporale con fulmini che frustano le rocce e scoppiano nelle gole. Madre e figlia affrettano il passo e raggiungono l’edificio di pietra acquattato in una conca, circondato da un recinto di legno.
Il casaro e la madre si conoscono da molto ma parlano poco. Maria indovina i loro pensieri: non c’è nulla da dire. Avverte come, nella prevedibilità scarna delle loro vite, solo i matrimoni, le nascite e le morti facciano notizia. Il resto si sa, non serve parlarne.
“Ti sei fatta grande” dice lui guardando Maria, che arrossisce e abbassa la testa.
“Eh, ha ancora tanto da imparare, è sempre con la testa tra le nuvole” ribatte la madre con un sospiro, mentre da una tasca dello zaino estrae alcune fette di polenta e formaggio. “Approfittiamo per mangiare qualcosa intanto che piove.”
La porta si spalanca e un ragazzo bruno, gocciolante acqua da tutte le parti, entra affannato. Lo ha sorpreso il temporale mentre era al pascolo. Alla vista delle due donne rimane sorpreso, saluta con un cenno, scompare dietro una porta. Maria ha notato le spalle larghe, i muscoli sotto la camicia bagnata. Non ricorda di averlo mai visto. Non è il figlio, che conosce bene e che è andato a lavorare all’estero. Il casaro informa che è un nipote e si chiama Tiziano. Lo aiuta nel lavoro dell’alpeggio, perché da soli è dura. Tiziano rientra dopo essersi cambiato la camicia e si siede di fronte a Maria, che abbassa lo sguardo. Adesso mangiano tutti in silenzio quel poco che la vita offre su una tavola senza tovaglia.
Madre e figlia riprendono il cammino, raggiungono la cima. Vedono le nuvole basse, il tetto della casera, le mucche al pascolo. Maria pensa a Tiziano. Le ha fatto assaggiare il latte appena munto, tiepido e profumato, morbido di panna. La ha regalato una ricotta. Le ha sfiorato una mano mentre le porgeva la cesta con i fiori e le diceva arrivederci con un sorriso, guardandola dritto negli occhi.
Maria raccoglie i fiori e si perde nei pensieri. Tiziano è un nome gonfio di emozione che prende con prepotenza il posto di Piero. Maria è confusa. Di nascosto dallo sguardo della madre interroga i petali di una stella. M’ama non m’ama. Non è una margherita ma forse funziona lo stesso.
All’ora del rientro la cesta è colma. “Attenta a dove metti i piedi” raccomanda la madre. Il sentiero è sassoso, ripido e stretto, costeggia un dirupo. Le parole volano col vento, mentre il piede di Maria prende male un sasso e scivola. Nel tentativo di mantenersi in equilibrio la ragazza ha un movimento scomposto e la cesta finisce nel vuoto.
Il silenzio della madre è colmo di rimprovero, che trabocca dallo sguardo cupo. Dice solo che con i soldi persi non potrà comprarle il cappotto e le scarpe nuove che le aveva promesso. Lacrime di mortificazione e sconforto gonfiano gli occhi di Maria. Ripensa a tutti quei mazzetti che non ci saranno sui fogli di cartone a essiccare in soffitta, a tutto il lavoro andato in fumo, alla sua inettitudine. Cammina davanti alla madre con tutto il peso del suo sguardo sulle spalle, del giudizio impietoso, di un meritato castigo. Mentre si avvicinano al paese pensa che incontreranno altre donne con ceste e zaini pieni e lei sarà l’unica ad arrivare a mani vuote. Il passo rallenta, Maria si ferma e si abbandona a un pianto che non assolve e non libera, semmai aggiunge una nuova pena alla vergogna. La madre la supera senza dire nulla, guarda dritto davanti a sé, procede nel cammino senza variare il ritmo. Nel silenzio che la segue come un lungo strascico Maria avverte tutta la litania dei rimproveri, del giudizio su quella figlia incapace che non si decide a crescere.
Si asciuga le lacrime con il dorso della mano e riprende il cammino, ma si ferma di nuovo, sentendo passi sopraggiungere alle spalle. La voce è quella di Tiziano. La chiama per nome, le si affianca. Le porge la cesta dove tutti i mazzetti hanno ritrovato il loro posto.
“Hai perso questi” le dice con un sorriso.