Portatrici - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Portatrici

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XXI EDIZIONE - Arcade, 5 Gennaio 2016
Secondo classificato

Portatrici

di Simonetta Cancian - San Donà di Piave (VE)



Sappada, autunno 1915

Sali, Maria.
Come Antonia, Lucia, Anna e le altre, sei nata con la gerla. La riempivi di fieno, prima. Salivi i pendii come uno scoiattolo fin da bambina. Ti è stato insegnato a renderti utile e la gerla te la sei ritrovata sulle spalle quasi per gioco. Tua madre e tua nonna l’avevano usata prima di te. A portare, si sa, sono state sempre le donne: così ti hanno detto e all’inizio non avevi neppure capito il senso di quell’affermazione. Poi avevi cominciato con i carichi: fieno, patate, legna. Come capitava.
Con l’arrivo della guerra, nella gerla hai infilato viveri, medicinali, munizioni. Il peso è sempre quello, trenta chili sulla tua schiena robusta di montanara. Per renderti utile, tu e le altre.
Lì in paese, la guerra nessuno l’aveva mai vista. Qualcuno però ne aveva raccontato particolari atroci, forse tratti dai libri o uditi nelle storie tramandate dai vecchi.
Fino a quel momento, per Maria era stata soprattutto solitudine. Da quando Pietro era partito per il fronte, fiero della sua divisa grigioverde e del cappello da alpino, si era trovata di colpo tutto sulle spalle. I figli piccoli, la vecchia suocera, le bestie, la casa.
Lavorare, aveva sempre lavorato. Ma quel groviglio  che si portava appresso – un impasto di sgomento, ansia, impotenza –  rendeva tutto più difficile.
La notte, quando il sonno non veniva, si rigirava tutto dentro, ingoiando le lacrime. Il mattino stringeva a sé i piccoli, incollava alle labbra un sorriso e ripartiva.
Quello delle tue montagne è un orizzonte di serenità. Ti circondano come in un abbraccio e lo sguardo si perde da sempre sul loro profilo, ora morbido, ora dentellato. Sta in alto Sappada, il paese tuo e dei tuoi avi, presenti nel piccolo cimitero addossato alla chiesa. Il centro abitato si è sviluppato in lunghezza, si susseguono 15 borgate, ognuna un piccolo mondo a sé stante, anche se poi tutti conoscono tutti, fatiche e gioie sono le stesse. Si lavora, si prega, si sorride, si accetta ogni cosa. Si andava in Olbe, d’estate, fino a poco tempo fa. A far fieno. Era bello sentire sul viso la carezza dell’aria fine d’alta quota.
Adesso è tutto diverso: ci sono i soldati, appostati sui tuoi monti.
Oggi salirai fin dove si combatte. Li vedrai da vicino, quegli uomini in divisa che tanto somigliano a Pietro. Oggi, Maria, la guerra diventerà più tua.
Da quando il conflitto era iniziato, il paese si era fatto più silenzioso. Pareva segnato a lutto. All’alba, Maria mungeva le mucche e portava il latte nella vicina latteria. Accendeva il fuoco, scaldava l’acqua nel paiolo, cuoceva una polentina leggera e nutriente per la colazione di tutti. La figlia maggiore, di dieci anni, le dava una mano nei lavori di casa. La media badava al piccolo di appena un anno, che lei allattava ancora. Sulla suocera poteva contare per sorvegliare i bambini, quando era costretta ad allontanarsi per far legna, far fieno o accudire le bestie, nella stalla addossata alla casa.
Di Pietro non aveva avuto notizie, dopo la partenza. Non se ne meravigliava, assuefatta com’era all’isolamento tipico della montagna . Nessuno aveva udito spari o avuto notizia di bombardamenti. Eppure gli eserciti erano a breve distanza dal paese.  Sul monte Lastroni erano appostati gli Italiani, sul Peralba gli Austriaci.
A quell’altitudine, d’estate non c’erano grossi problemi, ma l’autunno e l’inverno erano tutt’altra cosa. C’era il rischio concreto di congelare, non serviva nemmeno che il nemico sparasse.
La voce era circolata una domenica, dopo la Messa. Il Comando militare di zona cercava persone che salissero a piedi fino alle prime linee. Che conoscessero i sentieri e fossero abili nel cammino e nel trasporto. Qualcuno, insomma, che sostituisse i muli. Gli animali, fin lassù non volevano saperne di arrivare. Ci sarebbe stato pure un compenso: una lira e 50 centesimi a viaggio. Non una grande cifra, certo, ma qualcosa che poteva sempre tornare utile, in tempi di fame. C’era la consapevolezza, soprattutto, di collaborare attivamente, portando generi di conforto a quei soldati che avrebbero potuto essere fratelli, fidanzati, mariti e anche, talvolta, figli.
Si cercavano donne, soprattutto. Donne con gerle da caricare. Allenate ai dislivelli della montagna e della vita.
Sei diventata portatrice. Ti hanno insegnato che è questa, la parola che definisce ciò che fai. Oggi, domani, dopodomani: quando serve, ti hanno detto. Ti hanno consegnato un libretto in cui viene annotato di volta in volta il tuo carico. Granate, cartucce, una botticella di grappa, medicinali. Al braccio, portate tutte un nastro rosso con un numero stampato, in segno di riconoscimento. Ma non è un lasciapassare e non dà nessuna garanzia. Occorre stare all’erta, una volta raggiunte le postazioni dei nostri. Mettetevi al riparo al primo fischio di pallottola, vi hanno raccomandato. I cecchini austriaci hanno una buona mira.
Tu e le altre, diciannove in tutto, partite in gruppo quando è notte fonda. A guardarvi da lontano, la vostra sembra una processione di formiche. Nere, veloci, instancabili. Identiche, con quel fazzoletto annodato sulla nuca, le gonne lunghe e scure, le scarpe leggere e inadatte alla salita da affrontare, la gerla enorme.
Attraversate il paese in fila indiana e, giunte a Cima, imboccate la via che porta alle sorgenti, attraversando la Val Sesis.  Per farvi coraggio recitate il rosario, mentre le gambe si muovono veloci. Salite rapidamente fin dove il percorso si fa più scosceso.
Niente chiacchiere, ora: meglio risparmiare il fiato, pensando al momento in cui posare finalmente il carico che minaccia di schiacciarvi. La schiena è allenata, ma è pur sempre parte di un corpo di donna e a volte ogni movimento fa male e occorre appellarsi alla volontà. Volare col pensiero a chi attende. A chi è lontano. A chi combatte per gli altri, anche per te.
La notizia si era diffusa per vie misteriose e tutti continuavano a parlarne anche se l’azione bellica si era ormai conclusa da tempo.
Un gruppo di volontari, al seguito di due guide esperte, aveva tentato nel mese di agosto un colpo di mano per occupare il Peralba, strappandolo agli Austriaci.
Gli uomini si erano arrampicati in silenzio, senza scarponi, i piedi fasciati per non fare rumore, attenti a non far rotolare le pietre. Erano riusciti ad annientare la terza postazione e a occupare la seconda, quando erano stati avvistati. Due di loro erano caduti sotto il fuoco nemico. Gli altri erano arrivati fin sulla vetta, ma qui si erano ritrovati senza munizioni a fronteggiare i sopraggiunti rinforzi austriaci.
Non era rimasto loro che ritirarsi, affrontando una discesa di mille metri su spuntoni rocciosi. Si raccontava di volontari giunti sfiniti, con i piedi maciullati dalle sporgenze della roccia. I corpi dei due militari uccisi erano rimasti in alto e tutto era tornato come prima. Italiani e Austriaci a fronteggiarsi, in attesa dell’arrivo dell’inverno. Allora sarebbe stato il gelo, ad avere l’ultima parola.
“Hai paura?”, hai chiesto a Rosa una delle prime volte, durante la salita.
Tra tutte, Rosa è la più giovane, 15 anni appena. Si capisce che per lei questo compito è ancora più gravoso. Te ne accorgi dal fatto che ti sta troppo appresso, come avesse timore di smarrirsi.
La ragazza ha alzato le spalle, cucendosi sulle labbra un mezzo sorriso.
“No”, ha risposto secca.
“Brava”, l’hai incoraggiata, “vedrai che arriviamo a casa prima che faccia buio”.
Lei ti ha fissata con quei suoi occhi grandi, inespressivi, senza aggiungere più nulla e tu hai pensato: “Ecco un’altra che ha già imparato a tenersi dentro tutto”.
Tutto quanto può spaventare, ferire, fiaccare.
Così giovane, Rosa è già una di voi.
A volte il corpo sembra non voler ubbidire, indugia al calore delle coperte, rifiutandosi di affrontare il freddo pungente della notte autunnale. Allora torna il pensiero del tuo Pietro, ti sembra di sentire la sua voce. Vai, Maria. Anche oggi. Sbrigati.
Allunghi una carezza alle figlie che dormono con te e scosti le coperte. Sei subito pronta. Giunta al deposito, ti guardi intorno e ti rendi conto che nessuna manca all’appello. La fila si compone e attraversa il paese addormentato. Le dita stringono la corona del rosario. Ave Maria, Santa Maria.
All’improvviso, in alto, un bagliore. Un altro, un altro ancora.
“Sparano”, sussurra qualcuna, interrompendo la preghiera. Non era mai successo prima. Non avevate mai assistito a un attacco. Ed è proprio là che dovete andare. Le gambe avanzano da sole, mentre gli strani lampi si susseguono.
A un tratto ti trovi accanto Rosa, che ti prende per mano.
“ Ho paura”, mormora in modo che senta solo tu. “Maria, oggi ho paura…”.
“Tutte abbiamo paura”, la rassicuri. “Ma andiamo avanti. Pensa a quei poveretti che sono lassù…”.
Le allunghi una carezza e ti accorgi che ha la guancia rigata di lacrime.
“Torniamo giù anche oggi, vedrai”.
Ave Maria, Santa Maria. Riprendete a pregare.
Pregavano anche i vecchi rimasti in paese. Che quella guerra finisse presto.
Ricordavano le loro lontane origini austriache, il dialetto che consentiva uno scambio reciproco e soprattutto il tradizionale rito del pellegrinaggio in Austria, a Maria Luggau la terza domenica di settembre, ora interrotto a causa delle ostilità.
Si sentivano un solo gregge, i sappadini, mentre salivano verso Passo Sesis, per poi ridiscendere oltre confine, verso St. Lorenzen, fino a giungere in processione solenne alla maestosa basilica di Maria Luggau, dove li attendeva una statua lignea della Vergine dalle antiche origini.
Mai come in quel cammino di preghiera sperimentavano un forte senso di appartenenza. Era ogni volta una rinascita per tutti.
Cosa ne sarebbe stato del paese? E soprattutto della gente. La guerra disperde, anziché unire.
Gli anziani temevano che quella ferita non si sarebbe rimarginata tanto presto.
Schiena e gambe sono di piombo. Il sole è alto, il sudore scende a rivoli sul viso e lungo il collo. Un momento di sosta per la merenda: siete ansanti.
Posata la gerla, sedete vicine sull’erba della radura, aprendo ognuna il proprio involto. Hai con te polenta gialla, un pezzo di ricotta salata e speck affumicato. Ma prima di assaggiare qualcosa, butti l’occhio verso Anna, dal cui tovagliolo sbucano due magre fette di polenta e nient’altro. Lo sapevi, lo sapevate tutte, del resto. Per una madre vedova con famiglia numerosa, la vita quassù è ancora più difficile. Le allunghi in silenzio un pezzo di speck. La salita non è ancora terminata, l’energia è indispensabile. Lei ringrazia con un sorriso e un cenno del capo. Non chiede mai niente per sé. Le hanno insegnato così. Tu e le altre avete imparato a osservarvi a vicenda, prevenendo, se possibile, ogni richiesta.
Qualcuna è riuscita perfino a fare la calza, durante la salita e ora si appresta agli ultimi punti. Al rientro in paese, nel pomeriggio, saranno terminate entrambe.
Quel giorno, appena al di sotto della prima linea, c’erano ad aspettarle dei soldati, che iniziarono subito a svuotare le gerle, accantonando i materiali.
Maria e le altre ne approfittarono per prendere fiato. Anna si fece consegnare un fagotto di biancheria sporca: l’avrebbe riportata tra qualche giorno, lavata e stirata, ricevendo in cambio un piccolo compenso.
Di solito, le portatrici s’intrattenevano per qualche chiacchiera. I soldati s’informavano sulle novità del paese, consegnavano lettere da spedire, a volte si lasciavano andare alle confidenze. Le donne ascoltavano, soprattutto.
Un gemito interruppe d’un tratto la pausa di spensieratezza.
In un riparo tra le rocce era posata una barella con un ferito. Una sigaretta accesa, alle prime luci dell’alba, aveva attirato lo sparo di un cecchino. Il soldato era stato colpito a una spalla. Delirava. Occorreva portarlo giù fino a Cima, spiegarono i compagni. Lì era stato allestito un piccolo ospedale da campo, dove operavano un medico e dei volontari. Con un po’ di fortuna, il ragazzo avrebbe potuto cavarsela.
Oggi la pausa è stata più breve, a causa di questo ferito, ora affidato alle vostre mani. Occorre scendere con cautela per il sentiero ripido: ogni sobbalzo gli strappa un gemito. Deve avere la febbre alta. Tiene gli occhi chiusi, ha la fronte sudata, la fasciatura provvisoria è già zuppa di sangue.
Vi turnate a trasportare la barella e non ridete più. Di solito la discesa è allegra. Vi raccontate un sacco di cose divertenti, a volte cantate, le più giovani si raccontano dei fidanzati.
Ma oggi è tutt’altra atmosfera. Ecco cos’erano i bagliori che vi avevano spaventato attraversando il paese. Fino a quando non la vediamo coi nostri occhi, sembra quasi che la guerra non ci sia. Che quegli uomini stiano appostati sulle cime quasi per gioco.
Ti avvicini alla barella per guardare da vicino il soldato e ti si stringe il cuore: è ancora Pietro, a tornarti in mente.
“Cecilia! Cecilia…”. Ti afferra improvvisamente una mano, stringendola con una forza di cui non sembrerebbe capace. Tenti inutilmente di sottrarla, poi decidi di stare al gioco. Nel delirio vede in te un’altra donna, gli escono frasi sconnesse che non riesci a decifrare. Ti sembra che il cuore possa fermarsi da un momento all’altro.
“Forza, forza. Ti stiamo portando all’ospedale. Ce la farai”.
“Non piangere, Maria”, ti sussurra Rosa all’orecchio, “lui penserà che sta per morire…”.
Avvicinandovi a Cima accelerate spontaneamente l’andatura, anche se siete spossate. Le gerle vuote pesano più che in salita.
Era pomeriggio inoltrato, quando le portatrici giunsero in paese, accolte da un familiare aroma di fieno e dai primi riccioli di fumo che si levavano dai camini. Un senso di pace avvolgeva le borgate: solo il gorgoglio incessante delle fontane rompeva il silenzio per raccontare le fatiche quotidiane. Un’immagine rassicurante, lontana anni luce dalla realtà della guerra.
Ora puoi posare la gerla, Maria, per sollevare tuo figlio, che subito cerca il seno. Vi stringete, ed è un conforto reciproco. Mentre lo allatti, al calore della stube, senti il corpo pesante e l’anima ancor di più.
Provi a scostare da te le immagini che oggi  si sono impresse in quel tuo spazio indifeso invisibile all’esterno. La sofferenza di un altro che in ogni momento potrebbe diventare la tua, perché così è la vita e così è la guerra. Ora conosci entrambe, sai bene cosa possono portare.
E’ il dolore, l’unico carico che nessuno ti ha insegnato a reggere.
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