Piccolo bianco fior - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Piccolo bianco fior

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XXIII EDIZIONE - Vittorio Veneto, 7 Gennaio 2018
Segnalato

Piccolo, bianco fior

di Jacopo Azzimondi - Sant'Ilario d'Enza (RE)



Nevicava. L’alba invisibile era sorta da poco, da qualche parte dietro le montagne. I fiocchi ondeggiavano lievi nell’aria gelida del mattino, oltre il vetro. Gianni guardava fuori, lo sguardo perso in tutto quel bianco, senza sapere cosa dire. Le strade, i campi, le case…sembrava che tutto stesse lentamente scomparendo sotto un sudario. Come suo padre.
Si allontanò dalla finestra e si sedette sul materasso. Lui era sdraiato sul letto, immobile sotto al lenzuolo funebre e alla coperta di lana con cui mamma si era ostinata a coprirlo. Accanto al suo capezzale, sul comodino di legno, era accartocciato un fazzoletto di stoffa bianca su cui era fiorita una macchia di sangue secco. Per parecchie settimane una tosse roca e strozzata aveva tormentato suo padre impedendogli di parlare, ma quella mattina Gianni, nonostante l’enorme vuoto che sentiva nel cuore, non poté fare a meno di pensare che la morte lo avesse reso più sereno.
Tese una mano verso l’orlo del lenzuolo e scoprì il viso consunto dell’uomo che un tempo, quando ancora apparteneva agli alpini, era stato fiero e pronto al sorriso. Per un breve istante risentì la sua voce profonda che gli cantava qualche canzone da montanari davanti al fuoco, durante le serate invernali, mentre mamma tagliava le verdure per la cena. Ricordò i soldatini intagliati con cui aveva giocato per anni, le battute di caccia alla lepre durante le quali aveva quasi imparato a sparare, il cappello con la penna nera troppo largo.
Scoprì di avere gli occhi umidi e se li asciugò rabbiosamente con una manica. Non era più un bambino, e le lacrime erano da bambini. Si alzò dal letto e tornò alla finestra. Un fugace riflesso nel vetro però, lo costrinse a voltarsi. Si immobilizzò di colpo.
Seduta sul letto con le mani intrecciate a quelle ormai fredde di suo padre, una donna vestita di neve piangeva.

Tre anni dopo
Avanzavano nella trincea a testa china, con il viso incollato alla schiena del compagno davanti. Una fila di elmetti grigiastri che serpeggiava a fatica nel fossato ingombro di cumuli di neve sudicia. Occhi cerchiati dall’insonnia, labbra spaccate dal freddo. I corpi ossuti celati da mantellacci luridi, le dita serrate convulsamente per non perdere i fucili. Di tanto in tanto, qualcuno borbottava un’imprecazione contro il cielo gravido di neve o gli austriaci in agguato fra i dirupi che incombevano su di loro.
Gianni si fermò con il naso all’insù, contemplando il panorama. Aveva imparato ad amare quelle montagne fin da bambino grazie a suo padre e non riusciva a credere che ora quel paradiso si fosse tramutato in inferno: un luogo in cui le rocce si sbriciolavano sotto i bombardamenti e gli uomini venivano falciati a centinaia dalle scariche di mitragliatrice.
“Ragazzo, tieni giù quella testa” lo mise in guardia il soldato dietro di lui, tirandolo per il mantello, “se non vuoi che te la porti via un cecchino”.
Gianni gli rivolse un sorriso grato. “Grazie per il consiglio” disse, avanzando lungo il terrapieno.
“Figurati. Prima volta qui?”
“Beh, da soldato sì. E’ così evidente?”
L’altro rise. “Abbastanza. Tieni quel fucile come se fosse una scopa e a differenza di noialtri non mi sembra di vedere molte cicatrici su di te. Quanti anni hai?”
Gianni esitò. “Ne faccio diciotto fra pochi giorni.”
“Per la miseria, sei giovane! Che ci fai qui?”
“Pare che al fronte non ci siano abbastanza uomini, così lo Stato Maggiore ha deciso di mandare anche noi. Non sono stati a guardare chi sapeva combattere e chi no.”
“Tu quindi non sai combattere.”
Gianni scosse la testa. “No. Mio padre mi ha insegnato a sparare a lepri e pernici, ma agli uomini mai.”
“Ci farai l’abitudine, ragazzo” ribatté l’altro, “Scoprirai che non è poi molto diverso.”
Dopo una buona mezz’ora di silenzio, iniziarono ad apparire i primi corpi. Immobili, riversi nel fango rossastro della trincea, senza volto. Il vecchio alpino che seguiva Gianni scavalcò un cadavere e si toccò l’elmetto piumato in segno di rispetto. “Beh ecco qui lepri e pernici, ragazzo. Benvenuto sul Monte Grappa.”

Arrivarono a destinazione nel pomeriggio, quando il sole non si vedeva ma una strana luce si rifletteva sulle distese innevate e faceva male agli occhi. Il candore del panorama era inquinato da due file di trincee scavate a difesa di un modesto rifugio in pietra dal quale usciva un esile filo di fumo. I soldati in testa alla scarna colonna vennero fatti entrare. Gianni, in fila fra gli ultimi, non vedeva l’ora di trangugiare zuppa fumante e di scaldarsi le mani davanti a una stufa, ma ebbe una brutta sorpresa vedendo che la porta del rifugio si richiudeva tagliando fuori metà della compagnia.
“Che succede?” chiese al vecchio soldato, “Come mai non ci fanno entrare?”
L’altro alzò le spalle. “Questioni di spazio probabilmente. Qui è stanziata un’armata da parecchi mesi: tra sani e feriti non devono certo essere in pochi”.
“Quindi che si fa ora?”
“Troviamo un posto riparato in cui mangiare qualcosa. Seguimi.”
Decisero di appostarsi sotto una tettoia in mezzo al terrapieno. Dalla loro postazione potevano controllare gran parte dell’altopiano. Mentre il suo compagno si sedeva borbottando sopra un cumulo di neve, Gianni lanciò un’occhiata alle barriere di filo spinato che emergevano dalla neve poco più avanti. C’erano alcuni corpi incastrati fra le spire d’acciaio, con le uniformi austriache ridotte a brandelli.
“Ti stai godendo il panorama, eh?”
Gianni distolse lo sguardo. “Non esattamente, no.”
Il vecchio soldato estrasse un coltellino e lo usò per aprire una scatoletta di carne fredda. Gianni frugò nella sacca e riuscì a racimolare alcune gallette rinsecchite e un pezzo di cioccolato avanzato. Iniziarono a mangiare in silenzio, uno accanto all’altro, le dita arrossate dal gelo.
“Non mi hai detto come ti chiami, ragazzo.”
“Giovanni, ma tutti mi chiamano Gianni. E tu?”
“Puoi chiamarmi Beppin” rispose lui, sfilando una piccola fiasca di liquore da sotto il mantello. “Ne vuoi un po’?”
“Perché no?”
Gianni allungò la mano.
“Aspetta…” disse Beppin, “Lo senti anche tu?”
Gianni tese le orecchie. “Che cosa?”
Poi un rombo lontano, il sibilo di qualcosa che sferzava il cielo.
“A TERRA!” urlò Beppin, lasciando cadere la fiaschetta e gettandosi su Gianni.
A pochi metri dal terrapieno, il terreno venne squarciato da un’esplosione. Frammenti di neve e detriti piovvero sui due soldati con il viso nel fango mentre un’ondata di calore bruciante li investiva. Mentre altre granate scoppiavano intorno a loro, Gianni aveva le mani affondate nella melma, nel tentativo di aggrapparsi disperatamente alla terra. Sentiva la pressione del corpo di Beppin che lo schiacciava e la trincea che tremava e sembrava dimenarsi come un animale in agonia. Eppure lui non udiva nulla, tutti i suoni erano come ovattati. Le bombe esplodevano senza rumore, lui urlava ma il suo grido era silenzioso. Poi, oltre il terriccio e le lacrime salate che gli offuscavano gli occhi, la vide.
Era immobile con i bianchi piedi nel fango, la veste che pareva fatta di neve risplendeva in mezzo al fumo acre delle esplosioni. Aveva lunghi capelli neri e piangeva.

“Undici.”
“Dannazione, così tanti?”
“Purtroppo sì signore, il bombardamento ci ha colti alla sprovvista e l’assalto degli austriaci è stato particolarmente violento. Sono penetrati all’interno della prima linea difensiva ma siamo riusciti a scacciarli. Cosa speravano di ottenere attaccando in pieno giorno?”
“Sentono il fiato sul collo, sergente. Diaz sta radunando le truppe, lentamente ci stiamo riprendendo le nostre montagne e l’unica possibilità che hanno quei maledetti è di riuscire a sfondare qui sul Grappa. Che mi dici dei feriti?”
“Una ventina signore. Nessuno di essi è particolarmente grave, hanno solo bisogno di un po’ di riposo.”
“Ti ringrazio sergente, sei congedato. Occupati di riorganizzare gli uomini rimasti all’esterno, non possiamo escludere l’eventualità di una nuova offensiva.”
Gianni socchiuse gli occhi e vide le sagome sfuocate dei due uomini che si allontanavano. Realizzò di essere nudo sotto una coperta di lana e si mise a sedere. Si trovava in una stanza di modeste dimensioni insieme ad altri uomini sdraiati sotto mucchi di coperte o accucciati con una tazza fumante fra le mani.
Vedendolo sveglio, un alpino che aveva sul braccio la fascia da medico, gli si avvicinò. “Come stai, soldato?” gli chiese, mettendogli una mano sulla spalla.
“Mi sento meglio, grazie. Che mi è successo?”
“Durante il bombardamento hai perso i sensi e qualche minuto dopo gli austriaci ci hanno attaccato. Eri in prima linea con il caporale Beppin, devi ringraziare lui se sei ancora vivo. Ha tenuto la posizione più che ha potuto, abbattendo una mezza dozzina di austriaci, dicono. Poi ti ha caricato sulle spalle e portato qui.”
“Dov’è ora?” volle sapere Gianni.
“Oltre le trincee: è partito.”
“Che cosa?” esclamò, “E per dove?”
“Missione di ricognizione. Da quello che so, il tenente vuole scoprire più informazioni che può sugli avamposti austriaci prima dell’attacco di domani.”
“Vuole attaccare domani? Non gli basta avere perso tutti questi uomini oggi?”
“E’ rischioso, ma se riusciamo a infliggere un’altra pesante sconfitta al nemico avremo la vittoria in pugno.”
Gianni scosse la testa senza dire nulla. Gettò di lato le coperte e si rivestì in fretta, poi prese il fucile e uscì all’esterno.

Fuori nevicava violentemente e le zanne della notte si erano chiuse sulle cime dei monti. Mentre Gianni passava a testa china, vide le sentinelle vegliare in corrispondenza delle feritoie con lo sguardo fisso nel buio. Il loro fiato usciva da sotto le sciarpe e si condensava nell’aria fredda. Percorse i camminamenti senza fermarsi fino a quando non raggiunse la prima linea. Nel terreno si aprivano gli squarci circolari delle esplosioni, fra cadaveri austriaci e italiani coperti da un sottile velo di neve. Un soldato di guardia lo vide e alzò una mano.
“Alt! Chi è là?”
“Sono italiano.”
“Perché hai abbandonato il tuo posto?”
“Non ero di sentinella.”
“Ti conviene tornare dentro, allora: tra non molto ci pioverà dritta in testa una dannata bufera.”
“Devo fare una cosa, prima. Oltre il muro.”
“Che cosa? Sei impazzito? Se non ti prenderanno gli austriaci, lo farà la neve. Qualunque cosa sia, lascia perdere, è troppo pericoloso.”
“Mi dispiace, non posso. Si tratta di un amico.”
Gianni non attese una risposta e superò il commilitone senza voltarsi indietro. Superata una curva, vide che la parete del terrapieno era franata. Si arrampicò fino alla spaccatura e si sporse: una fila di orme quasi del tutto ricoperte dalla pesante nevicata si snodava sull’altopiano oltre il filo spinato. Beppin era passato di lì. Doveva fare in fretta.
Controllò rapidamente che il fucile fosse carico e si allacciò l’elmetto sotto al mento. Si riempì i polmoni dell’aria gelida della notte, sollevò la sciarpa e scavalcò il terrapieno.
Immediatamente, una folata di vento minacciò di strappargli il mantello di dosso e il ragazzo fu costretto ad avanzare ripiegato su se stesso come una foglia accartocciata. Affondava nella neve fin quasi al ginocchio e ogni raffica di vento gli pungeva il viso con minuscoli cristalli di ghiaccio. Strinse i denti e si inoltrò nella terra di nessuno.

Lo trovò molte ore più tardi, quando ormai stava iniziando a perdere le speranze.
Sentiva i muscoli delle gambe rigidi come tronchi, ogni respiro gli procurava una dolorosa fitta al torace e la sua divisa era fradicia e pesante. La neve era caduta senza sosta per tutta la notte, rendendo indistinti i contorni di ogni cosa. Era stato costretto a tornare sui propri passi troppe volte alla ricerca della fila di impronte, per poi scoprire che non c’era più nessuna traccia da seguire. All’improvviso gli era parso di sentire degli spari echeggiare fra le rupi in mezzo all’urlo del vento e si era affidato al suo istinto per cercare di capire da dove provenissero. Quando la tempesta era diminuita, si era imbattuto in un basso muretto di pietre oltre il quale aveva visto emergere decine di rozze croci conficcate nella neve. Un cimitero austriaco.
Beppin era appoggiato al muricciolo di sassi, un’ombra dal cappello piumato e la baionetta spezzata in una mano. I tratti del suo viso incisi da un’accetta e la barba sporca di neve erano illuminati dalla fioca luce rossastra della sigaretta che teneva tra le labbra. Vedendolo arrivare, il vecchio alpino si lasciò sfuggire un mezzo sorriso. Gianni corse verso di lui e gli si inginocchiò accanto. Prese a rovistare febbrilmente nella sacca alla ricerca di bende e disinfettante, ma Beppin lo fermò con uno stanco gesto della mano.
“Lascia stare, ragazzo. Ho un proiettile in un polmone e uno nella gamba, non sprecare il poco tempo che mi resta cercando di curarmi.”
“Tu mi hai salvato la vita. Non ti lascerò morire” replicò Gianni.
“Siamo soldati. Parliamo con la morte ad ogni istante.”
Gianni sbuffò rassegnato e si sedette accanto a lui. Beppin tirò una lunga boccata e la soffiò verso il cielo sempre più chiaro, osservando il fumo disfarsi lentamente man mano che saliva. La neve scendeva dolce.
“Che diavolo ti è saltato in mente di venire qui, ragazzo?”
“Veramente volevo chiederlo a te.”
“Me lo ha ordinato il tenente, non potevo disubbidire. Se lo avessi fatto sarei un disertore e mi avrebbero ammazzato uguale.”
“Non ti avrebbe ammazzato nessuno. C’era la tormenta in arrivo, uscire era troppo pericoloso oltre che inutile.”
“Siamo vicini alla vittoria ragazzo, non capisci?” rispose Beppin, voltandosi verso Gianni. Aveva gli occhi velati di dolore, ma vividi. “I nostri hanno vinto a Sernaglia pochi giorni fa e gli austriaci tra non molto saranno circondati. Quei pochi che resistono sulle montagne dobbiamo cacciarli noi!”
“Non c’è nessun noi, Beppin. Tu stai per morire.”
“Ho fatto la mia parte. Non credere che quei cadaveri che vedi tra le croci fossero lì anche pri...”
Un colpo di tosse lo piegò in due e lo costrinse a sputare la sigaretta. Respirava a stento e fissava oltre la cortina di fiocchi.
“Beppin, cosa succede? Che c’è?”
“E’ arrivata, ragazzo” mormorò, “La fata della neve sta piangendo per me.”
Gianni alzò gli occhi e la vide avanzare lentamente fra le croci silenziose. I suoi lunghi capelli neri ondeggiavano ad ogni passo, i delicati piedi nudi sfioravano la neve irrorata di sangue e il suo vestito bianco risplendeva come una stella. Aveva le guance rigate di lacrime ma sorrideva.
Ad ogni lacrima che cadeva, sulla crosta di neve rossastra sbocciava un piccolo fiore bianco.
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