Otto settembre
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”XIV EDIZIONE - Arcade, 5 gennaio 2009
Segnalato
Otto settembre
di Flavio Moro - Casnigo (MI)
Mille volte. Più o meno, si sa, un bambino può aver ascoltato la stessa favola almeno un migliaio di volte per voce di genitori e nonni. Non ricordi di averla mai ascoltata? Sicuramente si, altrimenti non sei mai stato bambino e hai sprecato l’opportunità di diventare uomo. Guardavi le labbra del tuo papà, i loro movimenti, ora sinuosi ora improvvisi e rapidi, guidavano la tua fantasia fra le trame di una storia già sentita chissà per quante volte. La tua attenzione era profonda, sincera e non veniva meno neanche quando qualche schizzo di saliva ti colpiva la palpebra. Il narratore provava a variare gli avvenimenti, magari per renderla meno noiosa e prevedibile, ma tu ti irritavi e lo correggevi con una punta di fastidio. Forse sapeva già del tuo dissenso e l’aveva fatto apposta per farti arrabbiare. Poi il finale. Lo aspettavi da troppi minuti, ma finalmente arriva, lieto, rassicurante, gioioso, radioso come il tuo sorriso e quello del papà. Ora lo sai. Sai che le favole dei padri, come le belle melodie, sono sempre le stesse ma non stancano mai. Otto settembre millenovecentocinquantuno: Luigi diventa padre. Dopo un lungo travaglio tipico del primogenito, la moglie dà alla luce una bambina tanto intelligente quanto capricciosa. Si dice che la bimba piangesse già nel pancione appena accennato, e che la gestante ne orinasse le lacrime con una frequenza fastidiosa. Forse ha pianto addirittura al concepimento. Dalle cronache delle zie, pare che la sequenza del parto sia iniziata con le lacrime, seguite dagli occhi azzurri e da tutto il resto. Per la prima volta nella sua lunga opera di assistenza a domicilio, l’ostetrica del paese non assestò la pacca sul sedere di un neonato: piangeva già, quindi respirava. Eccome! Luigi, invece, rideva. Un sorriso non troppo convinto, sospeso tra la gioia e la paura di essere genitore, reso vacuo dal senso di incredulità che può suscitare un avvenimento ritenuto improbabile per i lunghi anni di una tormentata gioventù. Una gioventù per certi versi generosa, che gli aveva procurato una fetta di vita da ficcare nelle storie da raccontare ai figli. Forse fissava il cordone ombelicale che evocava un legame ben più tragico con un altro otto settembre...
Otto settembre millenovecentoquarantatre: la storia italiana, già difficile e tormentata, volta pagina per scrivere un capitolo pervaso interamente dalla tragedia. Per la natura fu un giorno come tutti gli altri, con l’ultimo sole d’estate a tingere d’oro le vette alpine dal Carso via via fino al Moncenisio, ad accendere il verde della dorsale appenninica, ad intiepidire le acque del Mediterraneo, a baciare la fronte di tanti poveri innocenti che volgono lo sguardo al creato alla ricerca disperata di un improbabile conforto, dopo aver smarrito la speranza nell’essere umano… Per gli italiani no, non fu un giorno qualsiasi. La data dell’otto settembre quarantatre, ordinaria ed insignificante per la natura, si stampò di prepotenza nelle menti dei futuri superstiti, in quelle dei loro figli e sulla pagina dei libri di storia che introduce quel capitolo pervaso interamente dalla tragedia. Così, il giorno dopo, Luigi iniziò la sua guerra, un’odissea di prigionia raccontata emulando un Omero assai provato dall’esperienza vissuta in prima persona, senza lo strumento a corda ma con un diario fra le mani. L’otto settembre millenovecentocinquantaquattro Luigi teneva la figlioletta sulle ginocchia, stringeva le piccole mani con la presa sicura del genitore, e raccontava la sua storia. Non c’era nel suo diario di guerra, ma la piccola lo fissava con la certezza che quel grande papà l’aveva veramente vissuta. Era iniziata con una filastrocca un po’ stonata, poi la voce s’era fatta grave e ritmata. Gli occhi della piccola si erano dilatati, e una minuscola nube di angoscia aveva offuscato quei due frammenti di cielo. Per un adulto era la comicità dell’esagerazione, per lei la normalità di un eroe. C’era una volta l’alpino Luigi che stava in un bosco fitto e buio. Con lui c’era Abramo, il suo inseparabile amico e compagno di battaglia. Si sentivano soffocare dalla cattiveria della guerra, ma loro non avevano paura. Si guardarono attorno e videro tutti i compagni di battaglia per terra, morti stecchiti. Ormai erano soli, circondati da dieci soldati tedeschi con le armi spianate che li fissavano come leoni pronti a mangiarli. Nel fucile, solo due pallottole. Che fare? All’improvviso Luigi ebbe un’idea. Ricordò di essere circondato non solo dai soldati nemici, ma anche dai monti amici. E, se li chiami, i monti ti rispondono e ti aiutano. Anche loro hanno una voce, si chiama eco. Voltò la testa a sinistra, mise le mani sulla bocca e urlò con tutto il fiato che aveva in gola:“Achtung, soldaten!”. Subito la montagna rispose con le stesse parole, ma più forte, molto più forte: “Achtuung, soldaatennn…”. Tutti e dieci i tedeschi girarono di scatto la testa verso quel richiamo della montagna, quasi impauriti. Luigi rifece l’urlo, però alla sua destra, e l’eco tornò a chiamare i nemici:“Aachtuung, soldaateennn…”. Anche stavolta i dieci si girarono di scatto dall’altra parte. Così fecero i soldati Luigi ed Abramo per tante e tante volte, e per tante e tante volte i cattivi soldati tedeschi girarono la testa a destra e a sinistra, poi ancora, ancora e ancora finché… tac, tac, tac… le dieci teste si staccarono dai corpi e i nemici morirono all’istante. Così, l’alpino Luigi-senza-paura fu libero e vincitore. Luigi dovette liberare le braccia della figlioletta perché era contenta, e aveva da battere le mani. Era la centesima replica di quel finale, ma ancora una volta il sole tornò nei due frammenti di cielo. L’otto settembre millenovecentoquarantaquattro Luigi, l’alpino, stringeva fra le mani la grossa patata con la presa guardinga dell’affamato. Non ricordava di aver visto un tubero così grosso da quando era iniziato il calvario della prigionia in terra tedesca, quella terra così speciale e famosa per la coltivazione delle patate. Ma non l’aveva raccolta nella tranquilla vastità di un campo. Un contadino l’aveva coltivata, ma chissà come era finita lì, nel centro di Berlino, nell’angoscia della distruzione.
Ora la stringeva con avidità, bianca di calce fra le mani nere di fuliggine. La distruzione di un palazzo di tre piani durava il lampo di una bomba, poi il fuoco iniziava la sua lenta azione di consumo, nel silenzio della morte e fra le urla del dolore. Di un palazzo divelto dalle bombe, restava il bianco delle tonnellate di calce, l’odore acre della carne bruciata e il nero del legname arso. Gli alpini del quinto reggimento avevano imparato a riconoscere i palazzi dalle loro rovine. Ne vedevano tutti i giorni, lì, nel centro di Berlino, dove le guardie del lager li conducevano per scavare, ramazzare e sgombrare tutta quella porcheria che congelava fra i rigori dell’inverno per poi imputridire sotto la pioggia di primavera. I prigionieri arrivavano a gruppi e si sparpagliavano subito alla ricerca dei punti più vantaggiosi per lavorare. Troppo legno indicava una casa modesta o già fatiscente, corrimani in ferro battuto, tappeti e cadaveri ben vestiti, invece, denotavano l’abitazione di una famiglia agiata. E proprio lì, sotto alle loro macerie, i palazzi più belli custodivano i tesori migliori. A volte gli alpini li trovavano, li rivoltavano fra le mani sotto lo sguardo annoiato delle guardie e dei loro fucili e li infilavano di fretta nel tascapane. Al rientro al campo di prigionia, se la fortuna voleva che non vi fossero perquisizioni, li portavano in baracca, ben nascosti fra le assi del giaciglio, da consumare nel cuore della notte quando i compagni dormivano il sonno agitato dei dannati. Luigi scrollò la polvere dalla patata e incrociò lo sguardo fugace di Abramo, a metà tra il famelico e l’ammonitore. Un mese prima l’amico era incappato in una perquisizione e gli avevano trovato addosso una patata piccola quanto una ciliegia. Era il bottino magro di un’intera giornata di lavoro, il tesoro insperato che cancella il niente, ma la guardia l’aveva colpito al volto facendogli sputare un dente. Adesso, quel buco nel sorriso stava lì ad allarmare Luigi mentre pensava a come infilare la patata nella tasca della giubba. Era talmente grossa che pur valeva il rischio di un dente. Un urlo lo fece sussultare, era simile ad un latrato. “Achtung, was macht ihr?”. Il tono della guardia e il fucile puntato ora su Luigi, ora su Abramo, non lasciavano alcun dubbio sulle sue intenzioni. Il pensiero di una pallottola nel ventre bastava a rinunciare a riempirlo con una patata. Fu un attimo, quel secondo gravido di pensieri agghiaccianti che riaffiorano solo a posteriori, solo se quello non è l’istante che ti prende la vita. Entrambi lessero nello sguardo del tedesco la voglia sadica di castigare, di inveire e di picchiare con un pretesto che valeva la sentenza. Luigi fissò le labbra schiuse dell’amico e immaginò la punizione rapportata alla dimensione della patata. Dovevano scappare, subito. Forse la guardia avrebbe confuso i loro volti fra le centinaia di poveri disgraziati unti, ispidi e resi scarni e tutti uguali da mesi di lavoro e digiuno. Si girarono e presero a correre, su e giù dai cumuli di detriti, arrancando e scivolando fra resti di muro e corpi umani, ingobbiti dalla sensazione di sentire la fitta imminente della pallottola fra le scapole. Abramo era là, davanti, a guidare la fuga verso l’ingresso di un edificio crollato per metà, a voltarsi per esortare l’amico a correre più in fretta perché la guardia lo stava per raggiungere. Luigi avvertì il fiato pesante dell’inseguitore e maledisse quella tosse che lo perseguitava da mesi e gli chiudeva la gola ad ogni sforzo. Era facile per Abramo, lui che aveva una salute di ferro e che da ragazzo aveva vinto tante gare di corsa in montagna. Poi, finalmente, la porta divelta, i gradini di una scala, forse la salvezza. Il colpo alla schiena lo colse mentre afferrava il corrimano, e sentì qualcosa spezzarsi sotto i muscoli insieme alla speranza. Quando ti calano con violenza il calcio di un moschetto sulla schiena, senti un’atroce fitta renale che ti piega le gambe e ti sbatte faccia a terra. Solo la paura e l’istinto di reazione ti fanno rialzare. Luigi arrancò sui gradini con la rabbia dell’animale ferito, sputò la polvere che non aveva ingoiato e riprese a salire sperando che l’inseguitore non mettesse dito al grilletto.
Mentre montava i gradini a due per volta, ne sentiva l’incalzare del passo ritmico, quasi in sintonia col battito del cuore. Sempre dietro, quel tedesco, accidenti, e Abramo già arrivato al terzo piano che gli tendeva la mano per l’ultimo balzo verso la salvezza. I due amici si ritrovarono così, inermi e sgomenti all’ultimo piano del palazzo bombardato, più su il cielo, nient’altro. Ora dove potevano scappare? I muri dell’appartamento erano letteralmente scoppiati lasciando spazio ad un vasto monolocale invaso dai detriti, e il muro laterale era precipitato nel cortile. Vi gettarono un’occhiata, e quindici metri più in basso videro solo cumuli di macerie senza alcuna via di scampo. Chissà cosa passava per la testa di quella guardia, qual era il fine che avrebbe motivato l’epilogo dell’inseguimento. Abramo e Luigi pensarono al fucile che imbracciava e immaginarono la loro esecuzione per mano di una guardia tedesca che aveva l’autorizzazione a ergersi quale testimone, giudice e boia. Sarebbe bastato l’attimo di due colpi per chiudere la loro giovinezza in quello schifo di mondo. Due colpi, già… doveva spararne due, quel bastardo. Di sicuro fra uno e l’altro si poteva tentare la reazione, magari buttarlo di sotto a marcire con i cani morti nel crollo della casa. Non poteva, non doveva finire lì la loro vita, se non gli era dato di conquistare il mondo, almeno il loro futuro si, ne avevano tutta la brama e il diritto. Bastò il solito sguardo d’intesa per agire e disporsi ai lati della sommità della scala. La guardia affrontò l’ultima rampa a testa china, attenta a non inciampare sui gradini diroccati o a cozzare il calcio del fucile, poi alzò lo sguardo e li vide. Fu ancora quell’attimo gravido di pensieri agghiaccianti, ma stavolta parve l’eternità. Il tedesco si arrestò per valutare la situazione: il prigioniero colpito alla schiena a sinistra, l’altro, quello veloce come un felino, a destra, sul lato del cortile. Entrambi avevano un atteggiamento troppo sfrontato, quasi di sfida, e lo fissavano dritto negli occhi come se anche loro stessero puntando la canna di un moschetto. Abramo, gli occhi ridotti a una fessura, gettò uno sguardo fugace al baratro verso il cortile, poi lo riportò sul tedesco e gli fece un cenno lento ma inequivocabile con la mano:“komm, komm!”. Luigi, col medesimo cenno, gli fece eco:“vieni… vieni avanti…”. E la guardia si girò di scatto. L’amico tentò di disorientarlo con un tono più stentoreo:“komm, herein !”. Di nuovo il volto del tedesco si girò repentino mostrando i segni della preoccupazione, e Luigi cominciò a sperare. Forse il bastardo stava pensando quel che volevano, forse dovevano solo continuare a sollecitarlo e disorientarlo... che gli si staccasse quella testa da crucco, accidenti! Di sicuro stava per effettuare una scelta, loro l’avevano già fatto. Ora il silenzio permeava l’attesa sulla soglia di quel locale ma fuori, là nel tumulto della distruzione, si udivano i lamenti dei feriti, il cigolio dei carri degli sfollati, l’eco sordo e lontano delle bombe e un vento di insperata umanità: il pianto di un bambino. Uno dei cento pensieri che ti pervadono la mente nell’attimo del pericolo, placò le paure di Luigi. Chissà, forse un giorno anche lui avrebbe avuto un figlio, un bambino a cui raccontare le sue brutte avventure di gioventù. O forse no, le avrebbe taciute, magari trasformandole in quelle storie di eroi che piacciono tanto ai bambini. Il tedesco decise. Puntò il moschetto verso l’alto e lentamente, come un tiranno che discosta l’ampio mantello, infilò la fibbia sulla spalla e lo appese con mano un poco tremante. Il suo volto di nordico, chiaro e ben rasato, si rilassò in un mezzo sorriso. Poi si voltò e prese a scendere i gradini fischiettando le note di “Lili Marleen”. Uscì di scena con il fare di un attore al termine di un dramma.
L’otto settembre millenovecentonovantasette c’è già il verdetto. L’ha emesso il primario, dice che è stato un susseguirsi di complicazioni, dalla TBC renale al miocardio, al sistema immunitario e via fino all’epilogo che sarà letale. Tutta colpa di un brutto colpo alla schiena, probabilmente molti anni fa, forse in gioventù... Due frammenti di cielo, eterei ed invisibili nella penombra della stanza, fissano il petto del padre. Si alza lento, greve, poi scende di colpo ad espirare l’aria in un ritmo che non è quasi più umano. A lato, un monitor verde testimonia che il cuore batte ancora. La figlia lo immagina vigoroso, vermiglio e grande come quello dell’alpino generoso ed impavido che imperava nei racconti di guerra di mille anni prima. Pare che il solo pensiero basti ad aiutarlo, a farlo contrarre ancora una volta dopo che la natura ha deciso il contrario. L’angolo di mente ancora bambina lo crede possibile, quello di donna matura sa che durerà ancora per poco. D’improvviso un fischio breve. Gli occhi puntati al monitor, poi, di scatto, verso il torace del padre. Un altro fischio, e lo sguardo di nuovo sullo strumento. Poi altre volte, e ancora, sempre più di frequente, con la testa a mulinare a destra e a sinistra nell’attesa dell’evento incombente ed inevitabile. La natura ha deciso. Il fischio continuo è superfluo, le basta notare che la mano poggiata sul petto del padre è immobile. Luigi stringe ancora le mani di sua figlia, ma non lo sa. Ora lei è una donna, ma piange ancora. Sono lacrime del cuore, quelle che velano gli occhi ma non hanno la sostanza della goccia, sono li li per cadere e stanno a comprovare un pianto discreto, appena accennato, nulla a che fare con i lucciconi versati a bocca aperta nel suo primo anno di vita. Il senso d’impotenza svuota l’anima e lascia spazio ai ricordi di fanciulla. Forse quel tedesco, in cima alla scala, aveva provato la stessa impotenza che era valsa a salvare una vita. Forse anche i dieci crucchi nella foresta avevano perso la testa per lo stesso motivo. No, papà, guarda che adesso sono grande, ora ti posso dire che non s’è mai vista una testa rotolare dal collo senza un colpo di lama, ma non ti preoccupare, per me resti sempre un eroe. E suo padre, l’alpino, l’eroe, esce dalla scena della vita con il fare di un protagonista al termine di una favola. Ma, si sa, una favola può essere raccontata ancora mille volte.