ll mare di Bastianin
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”XVI EDIZIONE - Treviso, 6 gennaio 2011
Segnalato
Il mare di Bastianin
di Walter Ferrari - Tortona (AL)
Dalle finestre spalancate arrivava lo sciabordio turbinoso della ruota del mulino di Guston che annegava le pale nelle acque del Curone e il cricchiare, complicato, degli ingranaggi e delle macine; nell’aria il velo impalpabile delle farine e il ronzio delle vespe sui grappoli mielosi delle robinie, i dodici tocchi della campana della chiesa di San Rocco e lo strusciare, sulla terra e i sassi dei sentieri, delle slitte cariche di fieno che tornavano dai campi. Leggeva Rio Bo, il maestro Barbetta, con la voce stridula come il gesso sulla lavagna, in quegli ultimi giorni di scuola nel giugno del sessantadue, ai dieci bambini della quinta elementare “Cesare Battisti” di Montecapraro, il fiocco colorato sfilacciato e il colletto rigido inamidato, la cartella marrone già pronta, con dentro i quaderni sgualciti, le matite spuntate e, nelle menti distratte, la smania di uscire e di correre a casa. Sul fuoco la minestra di patate e sulla tovaglia, pane nero e un pezzo di toma; il nonno, seduto a capotavola, col cappello in testa e la nonna, con la fiaschetta del mischiato, che trafficava nella dispensa. I raggi del sole a scaldare i tetti e le mura e le scale di pietra, nei cortili il razzolare dei polli, le case affastellate con le porte basse e le finestrine, il lastrico delle quattro strade tempestato di boasse, nelle stalle il ruminare paziente dei buoi.
Su quelle montagne d’ Appennino, aspre di roccia bianca come neve e i boschi e le pinete, gli ultimi coltivi di segale e di grano, di vessa e di scandella, i prati sulle cime, le case dei pastori e gli alpeggi e le mulattiere da paesi in miniatura sparsi nella valle, povera gente con la faccia della fatica, le gambe curve e le braccia come unica fortuna.
La televisione stava nel bar albergo Miramonti, una terrazza sulla strada principale, i tavolini e le sedie sotto gli ombrelloni rossi e blu della Cinzano, una radio con le canzoni di Celentano e qualche villeggiante, con gli occhialini sul naso, a sfogliare le pagine sottili della Gazzetta del Popolo. Saliva, da tornanti di polvere, la corriera dei fratelli Cilona, quella delle tredici e venti, e si fermava sulla piazza davanti alla chiesa, un doppio colpo di clacson e dalla bagagliera uscivano cartoni, povere sacche di iuta e finivano nelle mani di donne e di uomini, vestiti di nero e con le scarpe chiodate che tornavano da qualche ospedale o da un parente e s’inerpicavano verso il paese, perdendosi nel labirinto di sasso dei viottoli e dei cantoni. Sebastiano aveva dieci anni, figlio unico di Rosa e Marino, nipote del vecchio col cappello e di nonna Elvira, piccolo di statura, magrino, le orecchie larghe e i capelli castani, impomatati con la brillantina Linetti. Lo chiamavano Bastianin, perché aveva un caratterino nervoso e testardo. Da maggio ad ottobre, in paese, restavano solo famiglie spaiate perché gli uomini forti erano su, ai pascoli, con le vacche da latte e nelle casere le forme di gnusso a maturare. Anche Marino era sull’alpe del Giarolo, sui prati fioriti di giallo delle arniche, i cupolini delle genziane, le ombrelle delle pimpinelle e i pennacchi delle codoline, ai bordi i cespugli untuosi delle ginestre, le nuvole dei tafani, l’odore dell’erba e i silenzi e le punte dei monti, il blu del cielo con i cumuli bianchi simili a gelati di vaniglia, il volteggiare lento dei gheppi e il battito ottuso e vagabondo dei campanacci.
Correva veloce Bastianin, con le sue gambettine da ragno, fino alla bottega a prendere il sale e lo zucchero, la busta di trinciato forte e le cartine per il nonno, e si perdeva dentro a quel bazar ingarbugliato, lo scaffale dei saponi e dell’acqua lavandina, le cassette dei pomodori e delle pesche, sul banco il vaso dei boeri, mezzo prosciutto, candele e zolfanelli e poi, appese al soffitto, come fantasmi, camicie a quadri e reticelle colorate di palloni “supertele”; sulle mensole, in una nicchia di mattoni, bottiglie di vermouth e reliquie polverose ed imbevibili di alpestre Tamburelli; corde, spaghi, spazzole; in un angolo, manici di scopa, i tubi per la stufa; in una vetrinetta, marmellata di cotogne a pezzi e blocchi di cioccolato, due mosche appiccicose a fare festa; una cartolina da Arenzano, bagni Nautilus, incastrata nel bordino di metallo, spedita da un cugino fortunato o, forse, da due sposi in viaggio di nozze.
Giocava Bastianin con la carriola, nascosto nei fienili, appollaiato sui rami frondosi di un’amarena, tirava un carrettino fatto con la latta dell’olio; beveva l’acqua buona della Seita e la gazzosa solo la domenica al Miramonti, qualche ghiacciolino al limone perché non gli andavano gli scozzesi della Chiavacci.
Sognava Bastianin, davanti alla cartolina di Arenzano, quel mare blu e la schiuma delle onde e s’immaginava come fosse grande, molto grande, senza fine, e profondo, molto profondo, e lontano, troppo lontano da quella cerchia di montagne che non aveva mai lasciato; non c’erano soldi da buttare e con la vespa di suo padre non era comodo viaggiare. Solo grilli per la testa, capricci dell’età, gli dicevano i suoi; “ basta con la storia del mare ! ” ripeteva in dialetto sua madre e nonno Pinotto annuiva, scrollando la testa e sputando per terra.
Ascoltava Bastianin i racconti dei vecchi, seduti al bar Miramonti, con le carte da scopa in mano e nei panni l’odore della concimaia, un caffè corretto grappa, la lingua intorpidita e la memoria antica a riesumare gesta di briganti, alla macchia su quelle montagne, di nome Boio e Salardo, ceffi inguardabili, ladri imprendibili oppure vicende di guerra, i rastrellamenti, gli eccidi o ancora i ricordi romanzati di spiriti, streghe e fattucchiere nascosti tra le rovine di qualche convento abbandonato e poi il Cosfrone, sulla cui sommità, in un punto preciso, vicino una pietra scolpita come una conchiglia, nelle giornate terse e pulite che seguono le tempeste, si poteva vedere il mare, un angolo di Piemonte con la prora verso la Liguria. Chiedeva Bastianin, incuriosito, di come si arrivasse su quel monte e gli parlavano di uno stretto sentiero, ripido, sassoso e di boschi inestricabili, di belve e di pericoli inimmaginabili e poi si mettevano a ridere, con malizia, facendosi l’occhiolino. Sapeva Bastianin dov’ era il Cosfrone, perché dal suo letto vedeva la cinta dei monti, in quella valle chiusa, senza sbocchi e suo padre gli aveva insegnato i loro nomi, da destra a sinistra, come una filastrocca o come una squadra di calcio: Giarolo, Gropà Panà, Cosfrone Ebro Chiappo, Fubinè Rotondo Garavè Bagnolo Boglelio. Quello strano monte, con la maglia numero quattro, duro e arcigno come un mediano, con due gobbe sulla vetta, insuperabile, poco adatto agli animali e agli uomini, impervio, pietroso e più sotto macchie di selve inaccessibili, buie anche d’estate, di un verde scuro intenso, come la notte. Li invidiava Bastianin, quei bambini ben pettinati, con la faccia pulita e i pantaloncini coloniali che arrivavano dalla città, con le seicento azzurre dei papa’ e le mamme, ordinate e ben vestite che sapevano di profumo, e venivano in ferie nel suo paese per togliersi dalla calura della pianura; scrivevano lettere e cartoline, raccontavano di gite e delle prossime vacanze al mare, sotto gli ombrelloni sbattuti dalla brezza, i gabbiani nel cielo, la crema solare da spalmare, la sabbia morbida della battigia e l’acqua salata che ti entra dappertutto quando stai nuotando e la merenda coi krapfen, caldi e pieni di zucchero.
Era fissato Bastianin, un montanaro che voleva vedere il mare, si sarebbe accontentato di vederlo da lontano, e gli sarebbe bastato salire sul Cosfrone e guardare oltre, verso sud, in un giorno di sole, sgombro di nuvole.
Erano sull’alpe del Giarolo, Bastianin e suo padre Marino, nel luglio del sessantadue, il sole a picco e le mucche con le mammelle turgide a pascolare, le ombre dei sorbi e dei faggi, le vasche degli abbeveratoi e le tazze col sale, la malga di pietra sul pianoro della Maraiga. Osservavano in cielo, distesi sul fieno, Bastianin e suo padre, i disegni delle costellazioni, magiche illusioni che mettevano ordine nella notte e passeggiavano tra le stelle con le dita delle mani a cercare, nel buio, figure fantastiche di orsi, di draghi e di cavalli alati. Insisteva Bastianin, per andare sul monte a vedere il mare, cercava di convincere suo padre, un regalino per la promozione, ma non riceveva risposta perché suo padre, vinto dalla fatica, si abbandonava all’incoscienza del sonno, nell’aria il frinire delle cicale e i battiti d’ala delle civette.
Il temporale di grandine e il vento impetuoso, del giorno prima, avevano pulito le linee dell’orizzonte, una mano d’artista aveva colorato il cielo di blu, illuminato i fianchi delle montagne e definito i dettagli dei sentieri e dei boschi. Bastianin pensava che fosse la giornata giusta.
Vedeva suo padre lontano, un puntino nel verde e le chiazze brune dei vitelli e delle vacche e dall’altra parte la strada nel prato, a mezza costa, che andava verso il Cosfrone.
Ai piedi un paio di scarponcini con le stringhe rosse, addosso una camiciola a quadri; nel tascapane, a tracolla, un coltellino, un vasetto di panna, uno scartoccino con lo zucchero, un pezzo di pane secco, la zucchetta per l’acqua e in mano un bastoncino di sambuco, un pellegrino di dieci anni in marcia verso il mare.
Camminava, con passo svelto, Bastianin, in mezzo ai prati alle pendici del Panà, col sole negli occhi, e saliva lentamente di quota, attraversando piccoli boschetti di maggiociondolo e di frassino, evitava con prudenza gli aculei piumosi dei cardi bianchi e guardava dall’alto il suo paese, in fondo alla valle, che si allontanava sempre di più, spariva la sagoma del campanile e le case diventavano briciole.
Iniziava la scalata, Bastianin, su quel sentiero che era diventato stretto e faticoso, ai piedi della montagna con la maglia numero quattro, su una pietraia precaria, infida di vipera, si faceva strada col bastoncino, rallentava per prendere fiato, beveva all’ultima fontana; davanti a lui un bosco da attraversare di abeti e di larici, fitto e scuro come la pece, un’ eclisse da superare, una sfida per arrivare e il cuore, a mille, in gola e la paura, che faceva sentire la sua voce. Entrava Bastianin, con coraggio, in quell’avventura, s’inerpicava nel silenzio spettrale di quel luogo come dentro la bocca vorace di un orco, ogni dieci passi si fermava ad ascoltare i rumori: un fruscio di una volpe, il rugliare di un cinghiale, un colpo di vento nella pineta; incontrava sulla via delle croci di legno, piantate per terra, e si trovava davanti un cippo di marmo con una scritta ”Luigi Callegari di anni 22, partigiano (Tosca), trucidato dai nazisti il 14 dicembre del 1944” e rabbrividiva, ad immaginare, la scena con gli ordini raggelanti dei tedeschi, le urla, le raffiche delle mitragliatrici. Si ricordava delle lezioni di storia del maestro Barbetta e di quello che gli raccontava suo nonno, davanti alla stufa, nei pomeriggi nevosi d’inverno. Si arrampicava Bastianin, sulla pancia di quell’arcigno mediano di nome Cosfrone, gli sembrava di aver udito lo scalpitio degli zoccoli di un cavallo venire dal basso; si era nascosto, impaurito, nel tronco cavo di un pino, si chiedeva se fossero stati quei due briganti di nome Boio e Salardo, tremava e chiudeva gli occhi ma tutto diventava silenzio, era solo la battitura ossessiva del becco robusto di un picchio. Era già in alto bastianin ma quel bosco non voleva finire, le rovine del Brusamonica da valicare, resti di quello che doveva essere un castello, un eremo o un convento, la storia di fatti segreti scolpiti nelle leggende, i saraceni a fare scempio di povere monache oppure i roghi assassini che bruciavano le streghe e il demonio. Urlava forte, Bastianin, per annullare le paure e superare l’ultimo ostacolo, era fuori dal bosco delle angosce, sulle spalle forti del mediano numero quattro, qualche salto e stava sulla testa pelata del monte Cosfrone cercando, con ansia, quella pietra, modellata dal vento, che gli avrebbe permesso di vedere il mare. Più in alto solo l’azzurro del cielo, il sole in faccia, una folata di vento che gli distendeva la camiciola a quadri e la suola degli scarponcini di cuoio appoggiati a quella conchiglia di montagna, con lo sguardo perso all’orizzonte, gli occhi a spaziare lontano in quella direzione e poi, all’improvviso, un bagliore, un riflesso d’argento, uno specchio, la linea tormentata della costa, un’isoletta, le ombre delle vele e degli scafi, l’impercettibile movimento delle onde e quel blu intenso, largo, senza fine.
A bocca aperta, immobile come una sentinella, Bastianin ammirava, per la prima volta, seppur da lontano, quell’infinito di mare che aveva tanto desiderato.
Scendeva Bastianin, di corsa, da quella montagna, con le sue gambette da ragno e cantava e rideva, il bosco gli sembrava più luminoso, aveva scacciato tante paure, credeva di avere già sedici anni, rotolava fuori nel prato e davanti alla fontana del Cisù si era, improvvisamente, fermato. Aveva lasciato i vestiti e le scarpe sull’erba; dal tascapane aveva preso il pezzo di pane, immergendolo nell’acqua e polverizzandolo di zucchero; si era spalmato, con cura, sulla pelle del viso e sulle spalle la panna che aveva nel vasetto; i piedi nudi affondavano, mollemente, nel fango e si era tuffato nella grande vasca dell’abbeveratoio. Nuotava Bastianin, dentro al suo mare, gli sembrava che l’acqua fosse veramente salata, si era messo la crema solare, aveva camminato sulla battigia, il pezzo di pane zuccherato era diventato un krapfen, per ombrellone aveva le foglie leggere di un faggio e nel cielo, al posto dei gabbiani, stridevano le ghiandaie. Com’era contento Bastianin, mentre scendeva verso l’alpeggio, alle sue spalle le mucche immergevano il muso pieno di sale nell’acqua della vasca; correva incontro a suo padre e pensava che quel mare, che aveva cercato con tanta ostinazione, era sempre stato davanti ai suoi occhi, tra quelle montagne d’Appennino con addosso le maglie numerate di una squadra di calcio e che vedeva dalla finestra della sua camera, da destra verso sinistra, Giarolo,Gropà Panà, Cosfrone…
“Viaggiai per giorni e notti per paesi lontani,
molto spesi per vedere alti monti, grandi mari.
E non avevo gli occhi per vedere, a due passi da casa,
la goccia di rugiada sulla spiga del grano”
Rabindranath Tagore