Lettera dal crepuscolo - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Lettera dal crepuscolo

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XXI EDIZIONE - Arcade, 5 Gennaio 2016
Primo classificato

Lettera dal crepuscolo

di Flavio Moro - Casnigo (BG)




Ciao Mario,
ormai sono vecchio, mi trema la mano e un po’ anche la mente. Quando sono entrato nella vita, ho pianto le lacrime del bambino che non conosce il mondo, adesso che sto per uscirne, ho scoperto il sorriso dell’indifferenza, ironico, si, ma che ti concilia con l’aldilà.
Così io, attaccato com’ero alla vita terrena e dimentico dell’altra, adesso credo che anche un defunto come te possa essere così vicino tanto da ascoltarmi o addirittura leggere questa lettera dove vorrei scrivere ciò che ho sempre voluto ricordare con il solo pensiero. Forse fra pochi mesi te la consegno io stesso, intanto ne ho molte altre da preparare.
Ricordi Mario?
Abitavi nel paese vicino, ma ti ho incontrato quando si aveva diciott’anni, lassù fra l’erba dei prati d’altura, dove le colline si spogliano come le belle donne per mostrare le rocce nude delle nostre montagne.
Era un mattino luminoso d’aprile, te ne stavi accanto alla sorgiva a cui mi stavo dissetando e tenevi le mani in tasca e il petto in fuori come ad affermare le certezze della nostra giovane età.
Fissavi i miei piedi ed io non capivo perché, mentre ti osservavo nel controluce del primo sole, quello che di solito molesta l’ultima rugiada di una notte piena di stelle, ed esaminavo i tratti del tuo volto cercando di indovinare il nome e l’età. Capelli folti, scuri e ondulati, barba appena accennata, occhi neri e furbi, naso sottile e troppo evidente sul volto minuto, si poteva forse essere coetanei?
Quando ho capito che il mio sguardo ti infastidiva, sono arrossito un poco, ma tu mi hai parlato come fossi l’amico di sempre, nel nostro dialetto che adesso non so scrivere, e mi hai fatto quella domanda che, lì per lì, mi era sembrata un po’ stupida:
“hai mai calpestato una stella alpina?”.
In quel momento, sai, non riuscivo proprio a capire.
Ricordo di aver alzato lo sguardo al sentiero di montagna che divide l’ultima erba prima di scomparire fra i tronchi dei pini, per ritrovarlo più su a fendere le prime rocce e il nevaio di quella montagna che mi ha sempre mostrato con generosità lo spettacolo della natura. Ma stelle alpine non ce n’erano.
Tu, intanto, stavi lì con un mezzo sorriso di sfida e mi fissavi quasi divertito dalla mia confusione. Forse avevi notato il mio imbarazzo, perché ricordo che hai ammiccato ed hai piegato un po’ il capo come per darmi una pacca sulla spalla.
Allora ho guardato il prato e mi sono stupito di quanti fiori si stessero aprendo al tepore di una luce che loro sentono ma non vedono, ed ho avuto il sospetto.
Ho alzato il piede e l’ho vista.
Era lì, al centro della mia orma, ne faceva parte con il gambo ritorto ed i petali appiattiti sulla pietra come fosse uscita dalle pagine di un libro.
Un fiore di quella specie, a quell’altitudine non ci doveva stare, eppure...
Attorno a noi il coro della vita, ai piedi un’agonia silenziosa.
Ti ricordi Mario? Hai indicato quella stella alpina senza più quel mezzo sorriso: “guarda, guarda che succede…”.
L’ho fissata con curiosità e sono rimasto in attesa.
Improvvisamente uno scatto muto, poi il breve sussulto della corolla che pare levarsi di dosso l’erba sottile e intrecciata come la ragnatela sulla mosca. Non si sa perché, non si spiega come quel fiore possa muoversi senza l’alito del vento, ma succede che i petali si scollano dal suolo e la corolla riacquista la terza dimensione. È un processo lento, da osservare con pazienza e in armonia con i tempi dettati dalla natura, ma ne vale la pena.
Qualche minuto ed è ancora un po’ curva con la postura di una vecchia appisolata, ma è lì attaccata alla vita con l’orgoglio e la dignità dei deboli.
Quella stella pareva sfidarmi: io dall’alto della mia statura, lei dal basso della sua rinascita. Chissà quanti altri fiori avevo calpestato nell’andar per montagne e non mi ero mai fermato a guardare.
Ma ora lo so, Mario, tu me l’hai insegnato.
So che tutte le stelle alpine calpestate, le guardi o no, sanno rialzare la testa verso il sole che le chiama col sussurro della vita.

Quel maledetto otto settembre del quarantatre ci ha fatto incontrare di nuovo.
Alpini appena andati in guerra e, senza sparare un colpo, catturati da quattro tedeschi imbestialiti.
Mario, sai per quanti anni e per quante lunghe notti ho rivissuto quegli istanti?
È cominciato tutto da lì ed è per questo che mi hanno sempre tormentato. Chiudevo gli occhi e li riaprivo che ero lì...
Sento ancora il tonfo del portello e il clangore del chiavistello.
Il sussulto del vagone, i corpi dei prigionieri che ondeggiano e si reggono a vicenda, il treno che prende velocità verso una destinazione ignota: un luogo e un tempo dove perdere i nostri diciannove anni di vita spensierata. Siamo almeno in cinquanta nel vagone che hanno già usato per il trasporto di animali. Ormai abbiamo capito che il treno è diretto a nord, prima o poi lascia il suolo della patria e macina chilometri verso il cuore di una terra straniera.
Le ore passano lente, scandite dalle giunture di rotaia, con le gambe a dolere per lo sforzo di trovare l’equilibrio. A turno ci si siede nei pochi angoli del vagone, e in quella posizione ti viene più facile pensare, di quei pensieri che fanno male perché partono dalla famiglia, passano per il volto della madre, scorgono i borghi del paese, i giorni felici, la libertà, per poi arrivare, come in un circolo vizioso, alla paura che sta viaggiando con te.
Niente acqua, niente cibo, solo caldo e sudore, qualcuno si ricorderà pure di noi!
Oh, Madonna santa, devo liberare la pancia, che vergogna, non ce la faccio più…
Passa il tempo e scorrono i chilometri. Li ricordo uno per uno, così come i miei pensieri. Si, ma chi se ne frega, adesso devo mettermi in fila.
Nell’angolo più lontano i ragazzi hanno improvvisato la latrina e la stanno usando a turno. Hanno divelto un asse dalla parete del vagone e lo hanno poggiato su due pietre in modo da tenere il sedere rialzato. L’urina scorre di lato e si perde tra le giunture del pianale. Il lezzo è insopportabile ma il ventre non duole più.
Fuori fa scuro e nel vagone si scorgono a malapena le sagome dei soldati che ondeggiano come larici ai refoli notturni della foresta.
Le feritoie nelle pareti sono sottili, orizzontali e poste in alto, alla giusta altezza per un vagone pensato per il trasporto delle vacche, e lasciano entrare l’eco metallico delle ruote.
Tu-tum tu-tum tu-tum...
Qualche gemito, una preghiera ed un pianto sommesso, per il resto è silenzio, e il silenzio in un drappello di giovani è sgomento. La notte esige il riposo, ma in quella calca umana il sonno dispensa i sogni dell’orrore e i risvegli nel panico. Dev’essere per questo che qualche ragazzo urla nel buio, si agita come un naufrago a ridosso degli scogli, poi si placa con il conforto dei compagni e torna ad assopirsi mentre sussurra il nome di una donna. Forse ha ripreso a sognare il volto della madre oppure il bacio alla sua ragazza.
Che brutti momenti, amico mio!
Poi la luce, finalmente. Torna a filtrare dalle feritoie e attraverso le fessure nelle pareti, a ridare un volto alle sagome della notte.
Ti scorgo alla mia sinistra.
Ricordi Mario? Ti ho chiamato e non hai risposto subito, tant’è che con quella barba lunga e quella cera da vecchio m’è subito montato il dubbio. Non è lui, non può essere. Lui ha diciannove anni e il petto in fuori, forse mi confondo, anche perché l’ho visto una volta sola, davanti ad una stella alpina.
Hai sollevato il capo e raddrizzato la gobba, mentre il petto se ne tornava all’infuori, mi hai fissato con lo sguardo capace di illuminare il fondo di un pozzo e il mezzo sorriso ha confermato la gioia di aver ritrovato un volto amico.
Non ci siamo abbracciati, perché eravamo in cinquanta in quel vagone e tenevamo l’equilibrio appoggiandoci gli uni agli altri, con gli scarponi ormai in ammollo nell’urina.
Ci siamo parlati solamente con lo sguardo: “chissà, chissà se la mamma sapesse…

Poi ci hanno tolto tutto, in quei campi di prigionia di Lukenwalde, anche il nome, mentre si iniziava a combattere senz’armi in casa del nemico.
Ci hanno provato anche con la dignità, ma non ce l’hanno strappata perché l’abbiamo tenuta nascosta nell’anima.
La piastrina che ci hanno messo al collo diceva che io ero il 117315 e tu, Mario, il 117318.
Se fanno l’appello, sei il 117315. Se vieni chiamato al lavoro, sei il 117315. Se devi essere punito, sei il 117315. Se crepi, eri il 117315, e puoi sperare di avere la fortuna che una mano pietosa incida il tuo vero nome sulla croce della tomba. Hai capito a cosa serviva un numero in mezzo a quella babele di nomi e cognomi italiani?
hundertsiebzehn dreihundertfünfzehn !
Quando la guardia urlava il mio, tu ridevi di nascosto perché dicevi che quel crucco sputava come un vecchio incazzato e senza denti. Cosa ci vuoi fare, Mario, in fondo erano di quello stampo gli unici momenti di serenità nella dannazione dello Stalag.
Poi i mesi della prigionia, della nostalgia e della paura.
Non ti faccio la solita domanda, perché li devi ricordare per forza.
D’altronde come si potrebbero dimenticare la vita in baracca, le urla delle guardie tedesche, il latrato dei cani, il lavoro fra le macerie e il filo spinato sul quale i nostri compagni disperati andavano a morire?
Volevamo andar per monti, soldati con la penna in testa, ad arrampicare pareti e guidare muli, ma siamo finiti oltre, fino alle piane di una terra ostile e piena di lager.
Acqua e freddo, fango e lavoro, bombe e fame, speranze e delusioni, un tugurio di sofferenze che suonava come una condanna. Ma per cosa? Per quale colpa?
Non s’è mai capito, ma ti posso assicurare che un po’ di bella vita l’abbiamo conquistata per i nostri figli.
Quando, adesso, ho la pancia piena e mi ficco nel letto, la mente scorda quei momenti del passato, ma mi resta la paura. Ho paura che non ci sia più cibo nella dispensa, e che i miei figli debbano provare i crampi che ci pressavano lo stomaco quando si era sdraiati sulle tavole della branda, e che si debba correre da un momento all’altro nel rifugio, e che uno scoppio ci tolga la vita...
Pensa un po’, Mario, a guerra finita, per un paio d’estati mia madre mi tirava fuori da sotto il letto tutte le volte che scoppiava il fulmine di un temporale.
Queste cose ce le raccontiamo ancora tra vecchi alpini perché, sai, tutti gli anni ci ritroviamo insieme in trattoria a festeggiare. A dirla tutta, non so bene cosa, forse il fatto che siamo caduti all’inferno troppo giovani e che abbiamo avuto una di quelle fortune che nessuno vorrebbe mai avere, ma che ci è servita per tornare a casa e in famiglia.
Meglio riderci sopra e fare baldoria, ché tanto certe cose sono impossibili da scordare.
Siamo tutti dei paesi vicini, tutti gli scampati ai lager di Germania, e alla festa ci portiamo anche le famiglie. Si parte con il pranzo e poi si finisce a cantare tra il vino che non manca e la fisarmonica del Piero, il padrone del locale.
Lo ricordi il Piero, quello che sentivamo piangere di notte in baracca e che prendevi in giro per via del naso a patata e del buco fra i denti per via del pugno di una guardia?

C’è chi le vere difficoltà della vita le ha vissute solo per sentito dire, lui, invece, è uno di quelli che le può raccontare.
Quando si finisce di cantare Lili Marlene, Piero poggia lo strumento e tira fuori tutti i suoi ricordi di prigionia, che poi sono anche i nostri, e racconta e racconta, e ride con quella bocca sdentata e le gengive più rosse dell’anguria troppo matura, va avanti per un bel pezzo, e poi gli vengono le lacrime agli occhi. Fa una smorfia quasi ridicola e le lacrime non le vedi più perché si perdono tra le pieghe delle rughe e dentro alle labbra sottili e umide di una bocca svuotata dal tempo.
Così si finisce un po’ tutti a piangere.
I nipotini smettono di giocare tra i tavoli e ci guardano a bocca aperta, senza capire, ma forse imparano che anche i grandi hanno tanti motivi per piangere.
A proposito di feste, ricordi quella volta che ti ho invitato a pranzo? Avevo rovistato nella sacco della spazzatura davanti ad una casa bombardata tirando fuori bucce di patate e rape marce, poi avevo buttato tutto in una scatola di latta con acqua piovana e avevo fatto bollire con l’aggiunta di un po’ d’erba del giardino. Non ti ho mai svelato gli ingredienti. Adesso mi vien da ridere pensando a come avevi mangiato con gusto, seduto fra i cadaveri di quella casa. Si, adesso rido, ma quei momenti erano l’inferno.
Ci han fatto capire perché i lupi escono dalla foresta.
E infine un altro giorno maledetto, il 5 agosto del ‘44, l’allarme che suona e si corre tutti ai rifugi prima che le bombe degli Alleati incomincino a sventrare i palazzi. Ho infilato di corsa il primo sulla destra di via Ziegelstrasse e tu il terzo, sul lato opposto.
Era forse la prima volta che noi due non si entrava nello stesso rifugio, e me ne sono accorto quando ormai le pareti tremavano sotto i colpi.
Quando sono uscito, il terzo rifugio sul lato sinistro di via Ziegelstrasse non c’era più.
Ho preso un secchio e, come tante altre volte, ho iniziato a raccattare i resti di quei poveri disgraziati, proprio come quando le guardie ci mandavano a spalare le macerie e si faceva a gara a chi trovava il pezzo più grosso. Ricordi Mario? Con tutta quella calce, di sangue ce n’era poco, ma tiravi su ora un femore insanguinato, ora una testa con la bocca spalancata e vincevi quasi sempre tu, ma non te ne facevi un vanto. Quando si tirava fuori un bambino, poi alla sera era dura chiudere occhio sulle quattro tavole della branda.
Un lembo di carne con la piastrina mi ha fatto sobbalzare, per la verità il numero inciso. Il dolore che ho provato in quell’istante si è un po’ sopito in tutti questi anni, e mi è difficile descriverlo, anche perché mi è rimasta sempre l’immagine di un Mario tutto intero, amico per pochi mesi in una prigionia che ci ha reso fratelli.
Vuoi sapere come ho fatto a ritrovare tutti i tuoi pezzi? Ho cercato quelli avvolti nel panno verde, quello della divisa dell’alpino. Forse non ti ho ritrovato per intero, Mario, ma ho ridato forma al tuo corpo perché la tua anima potesse restituirgli la dignità nascosta.
E sulla tomba i crucchi hanno stampato il 117318, ma io ci ho messo sotto il tuo nome.

Perché ti scrivo queste cose, amico mio? Te l’ho già detto, prima avevo la mia vita da vivere, invece adesso siamo di nuovo vicini, anche il dottore me l’ha confidato. Penso di riuscire ancora una volta a trascinarmi su quei prati di montagna per guardarmi l’ultimo tramonto. Fai conto che questa lettera è un po’ come se te la scrivessi dal crepuscolo. Ma è uno di quelli colorati di arancione che si vedono dalle montagne e che, se vai più su, verso la vetta, sono forse più belli da ammirare perché puoi ancora vedere l’ultimo pezzo di sole che ti scorre addosso come l’acqua tiepida.

Tu hai smesso da un bel po’ di vedere l’alba del giorno dopo, ma che ci vuoi fare, Mario? In fondo anche la vita, com’è stata poi la mia, a volte va avanti come su quella carrozza per bestie, un po’ più comoda in verità, e ti porta comunque all’ultima stazione.
Se il buon Dio ci vorrà ancora insieme ma all’inferno, be’ pazienza, mal che vada si chiamerà Luckenwalde, un posto che conosciamo già.
A proposito di confidenze, non mi avevi mai detto della tua ragazza.
Nella tasca attaccata alla tua coscia sinistra ho scoperto una fotografia. C’eri tu, col cappello dell’alpino, che sorridevi abbracciato ad una bella signorina. Dietro avevi scritto il suo nome e l’indirizzo, e la frase  “se muoio, ditelo a lei”.
Adesso, Mario, te lo posso confidare: da lei ci sono poi andato, a guerra finita, e le ho dato la fotografia.
È passato un mucchio di tempo, ma ricordo che è scoppiata in pianto. Ti voleva un sacco di bene.
L’ho abbracciata mentre versava tutte quelle lacrime per te, uno di quegli abbracci che servono al conforto, tranquillo, non pensare altro.
Quando si è calmata, le ho sollevato il mento e sai, Mario, cosa le ho detto?
Non tirare fuori quel tuo mezzo sorriso eh?
M’è venuto così, pensando al mattino d’aprile di mille anni fa:
“hai mai calpestato una stella alpina?”.
A presto, tuo amico per sempre 117315
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