La vetta degli Angeli
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”XVI EDIZIONE - Treviso, 6 gennaio 2011
Segnalato
La vetta degli Angeli
di Laura Gatti Casati - Voghera (PV)
A pochi giorni dalla fine della guerra il Comando Centrale dell’Esercito mandò il Generale Ottobiani a presidiare il ritiro dal confine delle truppe del 15° Battaglione Alpini.
Già si respirava aria di casa, tra i soldati, e un frenato clima di festa si mescolava a tanta stanchezza, e tristezza, e nostalgia. Tra tanta morte rinasceva la speranza, e tra i vivi, la vita tornava timidamente a pulsare.
Sfortunatamente, il Generale Ottobiani sembrava non partecipare di quella nuova atmosfera, e chiamando a raccolta i soldati che di lì a poco avrebbe dovuto condurre a casa, illustrò il suo piano strategico.
Da fonti certe era venuto a sapere che un intero battaglione tedesco sarebbe passato due giorni dopo attraverso la Gola del Vento per il rientro in patria. La guerra, sì, era quasi finita, ma il Nemico meritava una lezione, che diamine!
Non sembrava sfiorare la mente del Generale Ottobiani il pensiero che il “Nemico” fosse stato un alleato, soltanto poche settimane prima, e ancora peggio sembrava non sfiorarlo il pensiero dell’inutilità assoluta, oltre che la crudeltà, di quell’azione meramente dimostrativa.
Il Generale Ottobiani non volle sentir ragioni. Doveva scegliere chi, tra i suoi alpini, avrebbe scalato la Cima Grande per atterrare dall’alto a colpi di mitraglia la truppa avversaria.
La Cima Grande era detta comunemente dalla gente della valle “la Vetta degli Angeli”. La chiamavano così perché, dicevano, soltanto tre gradini la separano dal Paradiso.
Mio padre la chiamava così perché, diceva, da lassù si vede il mondo come lo vedono gli angeli.
Mio padre era un esperto alpinista, oltre che un alpino del 15° Battaglione.
Mi insegnava i trucchi della montagna quando io ancora non sapevo allacciare gli scarponi.
E poiché per raggiungere la Vetta degli Angeli, considerata anche la stagione e la scarsa attrezzatura disponibile, occorrevano destrezza e agilità, unite ad una buona conoscenza del luogo, non sorprende che mio padre fu il prescelto per quella spedizione solitaria, per la gloria personale di Sua Altezza il Generale Ottobiani.
Era la notte, quando mio padre partì, il sentiero rischiarato da una luna di ghiaccio, regina incontrastata di un cielo stellato e senza nubi.
Mio padre sapeva camminare senza fare rumore.
Un-due-tre-passo.
Camminare in montagna non era molto diverso dal marciare, per lui.
“Il segreto sta nella regolarità”, mi diceva. “Ma quando cammini in montagna, il ritmo lo scegli tu, e poi - diceva – il tuo passo non deve fare rumore. Non deve ferire la terra che ti sostiene”.
Uno - due - t r e - passo.
Più lento, all’apparenza, ma ugualmente inesorabile.
“Nemmeno la neve è un problema”, mi diceva. “Devi solo fare più attenzione. Puntare lo scarpone – uno. Muovere il peso del corpo solo quando sei sicuro, e poi – due – senza ripensamenti”.
Uno – due.
“Le mani ti servono solo quando affronti la roccia. Ma anche allora, l’importante sono i piedi. Bada di averli sempre ben piantati”. Ed è così che anche arrampicando, lui sembrava danzare. Erano i piedi a dare la spinta, le mani seguivano. Un passo dopo l’altro, come a dondolarsi su una ragnatela.
“Devi essere leggero – diceva – spingere in alto, perché la montagna non ti attiri a sé. Si chiama forza di gravità”.
Lui sfidava la forza di gravità. Non ho mai capito come facesse.
Uno – due, un passo dopo l’altro, un appiglio dopo l’altro, con facilità, verso l’alto.
Fu così che arrivò sulla Vetta degli Angeli. Il sole si era alzato da poco, e il freddo non si era ancora sciolto. Mio padre sistemò la mitraglia, si mise in posizione, e aspettò.
Un’ora, due ore. Il tempo in montagna ha un ritmo tutto suo.
Tre ore.
E poi sentì qualcosa. Una presenza nella montagna. Non li vedeva, non udiva rumori, né parole, ma di certo li sentì. Mio padre diceva che la montagna vibra in modo diverso quando su di lei passano presenze umane. E’ perché non sa se aspettarsi cose buone o cose cattive, e per questo sta all’erta.
Dunque, la montagna vibrò, e mio padre attese.
Erano loro, soldati tedeschi che, come da informazioni certe ricevute dal Generale Ottobiani, attraversavano la Gola del Vento per tornare in Patria.
Non so che cosa fu. Forse mio padre fu colpito dal fatto che passassero in silenzio, senza canti e senza grida, non vincitori e non vinti, solo ragazzi che a dispetto di una guerra persa erano così, vagamente felici perché sì, finalmente tornavano a casa. Forse si immedesimò. Forse fu compassione. Forse fu il freddo, o la stanchezza di un’arrampicata, di un’attesa, stanchezza di una vita, di sparare, di vedere morti e feriti, di vedere corpi cadere, e sentire grida, e percepire la paura, e vedere di nuovo la montagna sporcata di sangue.
Forse, da lassù, vide il mondo come lo vedono gli angeli. Con gli occhi puri. Trasparenti, come quel cielo di primavera che li ricopriva tutti allo stesso modo.
Gli angeli non hanno paura di fare la cosa giusta. Mio padre senz’altro la fece.
Li guardò passare, non visto, a uno a uno, sotto il tiro della sua mitraglia, senza ostacoli frapposti.
E aspettò.
Quando anche l’ultimo soldato fu passato, aspettò ancora. E ancora.
Rimase lassù, ad osservare il mondo come lo osservano gli angeli, a guardare la vallata dalla cima, ad accogliere il sole sulla pelle, e il vento, e godere della libertà degli angeli, che dall’alto osservano e non devono per forza fare qualcosa per sentirsi bene.
Scese mio padre che era già sera inoltrata. Si fece strada sulla roccia che conosceva bene, sicuro il passo, sicura la mano. Tornò al campo con la mitraglia ancora carica, ed io ancora oggi non so perché lo abbia fatto. Sono convinto che se fosse tornato a casa senza passare dal suo battaglione, nessuno sarebbe venuto a cercarlo. La guerra era finita.
Strano come la parola fine possa indicare sollievo, oppure tristezza, a seconda dei casi. Nel nostro caso, significò tragedia.
Mio padre era un alpino, e come tale chiamato all’obbedienza verso i suoi superiori. Forse, vedendo il mondo come lo vedono gli angeli, aveva pensato che la compassione fosse possibile, e con essa, la comprensione e il perdono.
Non li trovò nel Generale Ottobiani, il quale applicò alla lettera la punizione per la disobbedienza ai superiori.
L’esecuzione avvenne all’istante, e finché la notizia non giunse anche da noi a spezzare la speranza, io e mia madre continuammo, a casa, ad aspettare ignari.
Molti inverni sono passati, da allora, e molte estati. Io sono cresciuto, mia madre invecchiata. Faccio parte del servizio di soccorso alpino, e quando mi capita a volte di rispondere all’S.O.S. di qualche mio coetaneo tedesco, mi ritrovo in quell’attimo a guardarlo negli occhi, e ad immaginarmi la sua vita, e a chiedermi se per caso non possa essere il figlio di uno di quei soldati che mio padre lasciò tornare a casa, e sento che tra la vita e la morte, è bene sempre scegliere la vita.
La Vetta degli Angeli è ancora là, alta e silenziosa, ma non è più bianca. L’ultima estate, particolarmente calda, ha sciolto la neve che perenne vi regnava da sempre. Un alpinista là in cima ha ritrovato una gavetta, col nome di mio padre inciso sul lato, e sopra la firma, un pensiero per me, e per mia madre. <<Vi voglio bene, vi sarò sempre vicino>>.
La gente dice che la gavetta è stata riportata alla luce grazie al disgelo, ma io sono convinto che mio padre, dal cielo, abbia percorso i tre gradini che separano il Paradiso dalla Vetta degli Angeli, per lasciarci il suo messaggio.