La treccia - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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La treccia

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XXVI EDIZIONE - Arcade, 13 Giugno 2021
Segnalato

La treccia

di Antonietti Denise – Feltre (BL)



Era il suo rituale, la mattina, quando ancora tutti erano a dormire.
Elena usciva sulla ghiaia davanti casa, i lunghissimi capelli dello stesso grigio della lama di falce, e si pettinava alle prime luci dell’alba. Quando aveva terminato di annodare la treccia, il sole aveva finito di sorgere, e la vita poteva ricominciare.
Elena era nata in quella generazione che il suo secolo aveva temprato a forza di sventure. Aveva passato la Grande Guerra e la fame da ragazzina, e non ricordava un momento in cui le sue mani non erano state dure di calli e di fatiche.
Dopo che si era sposata, aveva avuto sette figli. Due erano rimasti neonati: li aveva seppelliti senza che avessero mai pianto.
Lei e suo marito avevano comperato un terreno e costruito una casa. Guglielmo veniva dal suo stesso piccolo mondo, ed Elena non seppe mai di dove gli fosse venuta l’idea di andare a lavorare in Africa, per pagare i debiti. Ma era partito, pur senza sapere bene come arrivarci fino alla Somalia. In quanto a tornare, chissà.
Elena era una donna dura, ma pettinandosi i capelli la mattina che suo marito sarebbe partito, la mano che stringeva la spazzola si bagnò di lacrime silenziose. Pianse di nascosto, annodando la treccia, e se ne vergognò anche se non l’aveva vista nessuno. Fece voto alla Madonna che non avrebbe tagliato più i capelli, finché suo marito non fosse tornato.
Quando Guglielmo la salutò con quei suoi modi un po’ bruschi la faccia di lei era di pietra. Non versò una lacrima, e lui ne fu fiero.
I bambini gli corsero dietro fino al paese, senza capire dove se ne andava. Quando tornarono Elena li riempì di legnate perché avevano fatto tardi a scuola.
Si annodava la treccia con tale forza che la testa le faceva male, quei giorni, e sopportava questo e gli altri dolori con orgoglio, perché adesso era sola, e doveva dimostrare di valere abbastanza.
Le lettere erano rare. Elena rispondeva sul retro di quelle che le mandava il marito, in modo che dopo tante settimane potesse tenere il filo del discorso - e perché la carta era poca. Nei cinque anni che fu lontano si scrissero nove volte.
Guglielmo era di poche parole. Elena faceva scrivere una frase a testa ai bambini, per fargli vedere che andavano bene a scuola. Se scrivevano troppo grande li bacchettava, perché c’era poco spazio e non lo dovevano occupare tutto loro.
Una volta lui le mandò una fotografia. Era con due amici che aveva conosciuto sulla nave, due ragazzi siciliani, poveri e sorridenti come lui. Dietro si vedevano dei bambini con la pelle nera. Elena non aveva mai visto degli africani prima di allora, e credette per un attimo che fossero scuri perché spalavano il carbone nelle miniere.
In casa non circolavano abbastanza quattrini per sprecarli per una loro fotografia. Avrebbe voluto saper disegnare per mostrargli che l’orto stava bene, che le vacche erano munte, il fieno nel fienile e la casa a posto. Ma non sapeva farlo, così si limitava a scrivere, le mani ruvide dalla falce, fino a che non finiva le parole.
Non gli disse mai che si sentiva sola, che la vita era faticosa d’estate e dura d’inverno, che le mancava, o che i bambini dovevano fare i compiti sulla carta da zucchero.
Alla fine Guglielmo tornò. Fece prima lui della lettera che lo preannunciava. Era d’estate, e quando arrivò la casa era vuota.
Elena la trovò china nei campi assieme a dei ragazzini che quasi non riconosceva. Quando lo vide lei si fermò, e il rastrello le cadde di mano.
“Sono tornato.” disse lui.
“Ghe n’è del formai e de la polenta entro te la tola.” rispose lei. Poi le scappò un sorriso, e non seppero più che dirsi.
Guglielmo era uno di quei caratteri scolpiti dalla montagna, e la distanza non lo aveva cambiato. Raccontava poco degli anni via. Da quando era tornato aveva sempre freddo, e aveva perso l’appetito. Elena lo guardava insistentemente con i suoi occhi scuri mentre gli toglieva da davanti il piatto quasi intonso, ma non diceva niente.
Stava finendo di farsi la treccia quel mattino quando Guglielmo era uscito assieme a due dei figli e l’aveva salutata.
Le aveva detto che andavano a fare fieno dentro la vallata. “Che cavei longhi.” Aveva commentato poi. “No sta tajarli.” Le aveva detto. Era il suo modo di farle un complimento. Lei aveva sorriso.
Non si sarebbero più detti nient’altro.
Quel giorno, la malaria che lo aveva riaccompagnato a casa dall’Africa gli avrebbe fatto lo sgambetto, spingendolo giù dalla montagna.
Elena vide i figli tornare di corsa e capì subito che qualcosa era successo. Nella sua mente il primo pensiero che balenò fu che era nuovamente sola. Poi pensò alle vacche, sarebbe stata costretta a venderne una.
Aveva trentasei anni compiuti da poco quando buttò tutti i suoi vestiti nel mastello e li tinse di nero.
La notte prima del funerale del marito fu l’ultima volta che pianse nella sua vita.
Passò un’altra guerra, passò la fame, passarono i tedeschi e passò la morte.
Non pianse più, ma nemmeno rise. Non tagliò mai più i capelli.
Ogni volta che rifaceva la treccia, la mattina, pensava alle ultime parole che le aveva detto Guglielmo.
Che cavei longhi. No sta tajarli.
Poi la vita poteva ricominciare.
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