La resistenza delle radici - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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La resistenza delle radici

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XXV EDIZIONE - Arcade, 4 Gennaio 2020
Premio speciale
Rosa d'Argento Alpino Carlo Tognarelli

La resistenza delle radici

di Cosetta Endrizzi - Scprzè (VE)



Hai presente quando dormi e sogni di
correre
ma non ci riesci?
Ecco bene, io per una volta ci vorrei
Riuscire
             (Thegiornalisti)

Il carabiniere, arrancando lungo la mulattiera appicciato alla divisa, la vide appoggiata ad uno stipite della porta d’ingresso al grande casolare di pietra. Avvicinandosi, si mostrava in tutta la sua fierezza di donna di trentacinque anni che donna pareva fin da quando di anni ne aveva dieci, perché dieci in più ne aveva sempre mostrati e vissuti. Era solida, il viso proteso verso il cielo di giorni più caldi di quelli conosciuti fra i boschi incamminati sulle ultime Dolomiti bellunesi prima di passare in Carnia. Pareva lei stessa pilastro a reggere il muro, come reggeva senza sosta i prati e i boschi dov’erano calati il pascolo, i maiali e gli animali da cortile, la casa destinata ad agriturismo con alcune camere, l’area attrezzata per il campeggio. Sempre lei faceva girare un sistema di altri 5 ingranaggi: suo marito e la scala dei suoi quattro figli, di età sedici, quattordici, tredici, undici.
Nel silenzio alto millecento metri, quasi a valicare in Friuli attraverso il Passo della Mauria, pareva di stare in uno spazio infinito. Spazio fatto di aria che odorava di pulito nelle narici e di luce continua diffusa nelle pupille dilatate, adagiato su terreni ondeggianti lungo i tornanti che salivano all’ultimo lembo veneto del Cadore, in territorio Lorenzago.
Il dramma che il quattro agosto la forza di gravità aveva scaricato da lassù lambendo il paese subito dopo averlo scosso, facendo accartocciare la contrada di Villa, non aveva toccato il paradiso di quella donna. Lì ogni cosa era rimasta al suo posto, mentre a schizzare era stato ciò che le cose contenevano: il vino dal bicchiere, l’acqua dal secchiaio; gli animali dalle stalle; le sedie dal pavimento, gli uomini dalle sedie; il materasso dal letto e quella donna dal materasso… L’epicentro della scossa le stava perfettamente sotto ai piedi, talmente vicino da saltare lei, famiglia, animali e opere, facendo precipitare il moto dell’onda là dove le opere erano già fantasmi di un passato ora rimasto anche senza gli ultimi testimoni.
Cellulare all’orecchio, Alba fissava le mucche nel verde; l’apparecchio era l’ancora della sua scelta: «Da qui non mi sposto, non ci spostiamo.»
Passò la voce conosciuta di rimando anche all’udito della divisa nera bloccata a pochi passi: «Fai quello che ti dico io, così mi lasci fare il sindaco!»
Alba cercò l’aria che apriva i polmoni e un attimo prima di scaricare il pollice sul telefono rosso del display, lo placò: «E’ arrivato anche il secondo dei due ospiti che mi hai mandato. Manchi tu per il caffè.» e girando le spalle al militare di fuori, entrò senza far accoglienza nella cucina in penombra.
Un tecnico del Dipartimento di Prevenzione dell’ULSS 1 Dolomiti stava già appollaiato su uno sgabello basso quel tanto da non conferire autorevolezza al ruolo per il quale era venuto. Il carabiniere invece se n’era venuto avanti a sindaco quasi subito arrivato. I due si erano infilati a centro stanza, dove stava un grande tavolo. Il piano era ingombro di cassette di mele piccole e verdi nelle loro forme irregolari, raccolte da piante nodose che crescevano senza una ragione umana sui declivi più dolci, girando attorno a Lorenzago, pronte per prendere sostanza di marmellata nei vasi di vetro a terra.
Alba si era messa a versare caffè e a tagliare crostata, oggi di mirtilli raccolti ieri dai figli incamminati dove la boscaglia cadorina verso il Passo Mauria diradava in cuscini di rododendri.
Il perito Franchetti, col culo intorpidito per lo stare insaccato sulle tre zampe di legno, pensava a come rompere la fissità di sguardi che affondavano insieme alla lama nel dolce. Del resto non era mai banale affrontare direttamente gli occhi azzurri della normanna (così era venuto di soprannominare Alba alle prime teste girate in paese, anche se “aveva gli occhi azzurri molto belli, la bella del Cadore” semplicemente presi dalla generazione in cui lo cantava a San Remo il V posto Ugo Molinari).
Impugnando lo scudo delle parole tecniche, il perito si decise a caricare: «Sono salito da Belluno per ribadire come manchi un monitoraggio di carattere qualitativo delle acque.» Alzò la voce con Alba: «Ha letto o no la nostra Raccomandata! Devo prelevare un campione» Subito si ripigliò il tono giusto, componendosi sullo sgabello: «Col terremoto, rocce e terreno franati, fluidificati da acque d’infiltrazione, sono colati nelle depressioni scavate dalla scossa sul vostro versante. Questo materiale organico minerale e vegetale ha portato ad emissione di acque torbide, lentamente - e fece un’enfatica pausa concentrandosi sul faccione cereo del sindaco per trovare le ultime parolone – molto lentamente eliminabili dai batteri aerobi.» Poi, afferrando un pezzo di crostata per sciogliersi la lingua, chiuse a bocca piena: «L’acqua è sicuramente inquinata qui, non la potete usare.»
Alba si era messa a sbucciare mele. Le tagliava a pezzi grossolani che buttava nel pentolone per fare la conserva. Continuava a tagliare e buttare metodicamente, a testa bassa.
Ora toccava al carabiniere. Era Stefano. Con Alba c’era stato in veste di ragazzino quando, fine anni novanta, passavano in squadra i pomeriggi invernali imitando il grande Hockey Club Auronzo, serie A2, vittorioso contro il Como, scope in mano sul ghiaccio della pozza dietro al vecchio cimitero in paese. In tutt’altra veste ora stava di stazione a Pelos e, in nome delle leali partite di un tempo, sapeva che era inutile adesso giocare sporco. Fissò il sindaco, ma chiamò gentilmente in causa la terza persona plurale: «Mi hanno mandato ad atterrarti con la storia che non state rispettando il regolamento edilizio comunale. Uno dei vostri ricoveri di materiali agricoli non tiene le distanze regolamentari dall’argine del Rio Borbe.» A quel punto affondò: «Dovrei notificarti la multa e l’obbligo di abbattimento. Dovrei darti un altro colpo, per spingerti via come vanno tutti da questi posti. Invece non dico niente. Non ho detto né visto niente. E che mi mandino a fare qualcosa di meglio finché c’è ancora chi vuol vivere di questa montagna.»
Le mosche, ingestibili in quella proprietà regolata solo dalla natura, nel loro andirivieni s’infilavano tra la stanza e il silenzio cucito ora tra i tre uomini, scansando la carta moschicida che pendeva dal lampadario.
Alba smise di contare i cucchiai di zucchero con cui copriva le mele in pentola. Si pulì le mani sul grembiule e ne fece uscire un foglio che spiegò davanti alla faccia inespressiva del sindaco: «Eccoti le analisi dell’acqua, buona come lo è sempre stata qui per la famiglia e per gli animali. Non aspetto certo le vostre a farmi la concessione di restare.»
Stefano si sistemò il cappello d’ordinanza insieme al sorriso, a chiuderla così. Il sindaco, che a differenza di Alba non aveva carte da giocare, salutò ironico: «Devo augurare buona giornata a chi resta?» e andò con Stefano.
I figli di Alba intanto entravano spintonandosi. Flora, la più grande, teneva un sacchetto di pigne. Raccontarono. Erano stati a camminare, avanzando verso il Cridola, alla prima lingua di ghiaione dove cominciavano i mughi. Avevano evitato i sentieri, divertendosi a salire ripidi, tra gli abeti dalla corteccia nera. Avevano sbirciato da rari spazi chiari, un tempo postazioni di difesa dei confini tracciati dall’Unita d’Italia, l’inespugnabile Tudaio su Vigo. Fino a quando si erano infilati in una galleria scavata nella roccia e l’avevano percorsa come avevano fatti i bersaglieri attaccati dagli austro-ungarici nei giorni della ritirata di Caporetto, sbucando nella caserma sul Monte Miaron, con le sue pietre a vista ad onorare i soldati che passarono durante la Prima Guerra.
Il perito dell’ULSS si avvicinò al maschio, Michele, lanciando le mani sulle sue spalle alte per i suoi undici anni: «Ma cosa fate qua, tutto il giorno per boschi, tagliati fuori dal mondo.»
Alba si scaldò girando la frutta bollente: «Questo come lo chiami? Cosa mi offre un altro mondo possibile? Impegnare le mie giornate chiudendomi in paese, mio marito a fare da su a giù per un posto a stipendio fisso. Io a fare pulizie a casa di altri per arrotondare. E correre i pomeriggi in città per portare i miei figli a inglese, chitarra, calcio, danza, e metterli per mezze giornate in pullman perché raggiungano le scuole che li porteranno ad un’università e ad un lavoro via da qua.»
Flora orgogliosa, prese sotto braccio la madre: «Impariamo ogni giorno dalla montagna, ma studiamo anche quello che la scuola insegna e ogni anno diamo gli esami. E’ qui che restiamo perché quello che facciamo ci piace e piace a quelli che vengono a conoscere cosa offriamo.»
Alba sapeva che il paese che stava sotto i loro prati era vivo prima che lei nascesse. La gente negli anni settanta andava e veniva nelle borgate. Tra le stalle ad allevare le mucche, sui prati a falciare, tra i pini a tagliare, nelle falegnamerie a segare, nelle cave di pietra a tagliare blocchi, negli orti sui ripiani a raccogliere verdure e fiori. Tra asilo, scuole elementari e medie, grandi case multifamiliari a piani, con negozi, supermercati, bar, ristoranti e alberghi.
In estate arrivavano veneziani e trevigiani, intere famiglie con nonni, zii, cugini, e i fuori regione, che salivano col treno o con le loro popolari Fiat 127, 128, 500, 850. Le case e gli alberghi erano pieni da giugno a settembre. Capannelli di giovani si affrontavano in piazza Calvi, la sera col cornetto seduti sul muretto che dava sulla Statale 52 che imboccava il centro, mentre la gente era in fila alle cabine SIP, con i gettoni per la chiamata a chi soffriva la calura in pianura. Ruotando tra il continuo di massicci dolomitici che giravano intorno al paese, si mescolavano i nomi del Cridola, dell’Antelao, delle Marmarole con il Pupo, del Tudaio.
Lorenzago era la “Venezia alta” che verso Venezia ricadeva, dolcemente diretto con i suoi falsipiani al lago di Centro Cadore, rotto in vallette solcate da rii usciti dal Piave o dal suo neonato Tagliamento.
A due passi dall’abitato ogni percorso portava a una natura pura: ciclamini e mazze di tamburo sotto ai pini e tra i cuscini d’erba, lepri, scendendo al lago; gialletti e porcini, lamponi, felci, picchi, camminando sul morbido tappeto d’aghi del Parco dei Sogni; fusti infiniti per gufi e civette verso il Castello di Mirabello, a far cerchio intorno allo spettacolo della loro Regina del bosco; lo stelo lungo di gigli bianchi e arancioni e cavallette mimetizzate sui cespugli di sambuco allo slargo delle Miandre. Se anche pioveva, si camminava con l’ombrello tra i vicoli, in angoli tra le fontane i lavatoi, sbirciando ville dietro alle cancellate, giardini dietro ai muretti, raccogliendo lumache, annusando l’umidità impregnata di fumo, di polenta, di funghi, fermandosi all’ingresso dei fienili.
Entrò Mario a chiudere la visione di Alba, accennando con la testa un saluto all’ultimo fuori luogo presente. Le mani caddero pesanti sul tavolo che sua moglie stava liberando dalle bucce per apparecchiare: «Ancora qui venite, sempre a tentare di farci cagare addosso?»
«Le valige in paese le hanno fatte eccome. Sono scesi negli alberghi sicuri, a loro disposizione. Mica stanno ad aspettare tra le rovine, come certi montanari, che la montagna scivoli ancora», vomitò Franchetti con aria di sopportazione.
Mario era fermo: «Noi alla gente, con le sue forze, avevamo detto di salire, che qui - ci vedi - siamo in piedi, e di posto ce n’è. E’ la nostra montagna, lasciarla è morire.»
Erica e Rosa aprirono la tovaglia sul tavolo da venti posti. Alba ascoltava mentre tagliava il pane cotto la mattina.
«Mettiamo un posto anche per Gian. Resta, sta ancora pulendo i funghi alla vasca», fece Erica dando di gomito alla madre. «Dice che da quando sta di più quassù che seduto giù al bar, ha sempre meno bisogno dell’ossigeno per l’asma!»
«I quarti di vitello sono pronti.» cambiò discorso Mario. Settimanalmente macellava col bollo di autorizzazione veterinaria. Alba sarebbe partita anche quel prossimo martedì col furgone, per la consueta consegna alle macellerie trevigiane.
«Se ci lasci anche domani, stiamo fuori di più e dai mughi della Caserma risaliamo da soli al Bivacco Vaccari, e magari fino alla Forca del Cridola. E’ fantastico quel sentiero tra cenge e canalini, con il ghiaione e la paretina!» Per Michele era un percorso non difficile, con dislivelli adatti al quotidiano allenamento e ai passi pesati suoi e dei fratelli.
Alba invitò Franchetti, placato dal via-vai di discorsi, a risedersi: «Si mangia la pasta avanzata dalla festa di ieri, ripassata al forno. Poi se ne torna in ufficio, buon cibo in pancia e idee chiare in testa. Noi non perdiamo la partita.»
I giorni di Alba sarebbero continuati con la notte di poche ore tra il letto e la sveglia. A impastare il pane e mungere la vacca da latte. A portare la carne allevata ai negozi in pianura, mentre in paese mangiavano le cotolette precotte tolte dal cellophane. Ad accogliere le tende di appassionati che scendevano la sera per proseguire da Lorenzago e andare lungo il cammino spirituale che invia ai “paesi dei Papi”, luoghi di fede, fino a Vittorio Veneto, a Riese Pio X; venticinque euro, pernotto più cena in cucina con quello che c’era, colazione del giorno dopo offerta. A mettere via verdure, raccogliere frutta, fare conserve, accudire e macellare le bestie, prendere prenotazioni, accogliere campeggiatori e ospiti, insegnare ai figli. E quello che non avrebbe potuto il marito avrebbe potuto lei, quello che non avrebbe potuto lei avrebbero potuto i figli. Alba avanzava con l’amore per la terra che le apparteneva, che le si aggrappava alle unghie e di cui non si era mai stancata. Non era stanca neanche adesso che intorno franava. Non lo era neanche prima, quando tanti altri avevano creduto che tenere prati, fienili, mucche, orti, legna non fosse più vita da fare, che fosse meglio andare a montare viti sulle stanghette dove a pochi chilometri da lì erano sorte le grandi fabbriche di occhiali, che affittare i loro appartamenti estivi sarebbe bastato anche ad arrotondare. Non presagivano che non curando più le radici lentamente la bellezza del loro paese si sarebbe spolpata e non si sarebbe rinnovata. Intanto la delocalizzazione chiudeva i loro stipendi fissi e altre montagne dalla custodita bellezza lasciavano sfitte le loro case. Intanto si spingevano verso altri luoghi ideali senza accorgersi che il loro bene era lì, aggrappato alle unghie di Alba per rivivere.
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