La promessa - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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La promessa

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XVI EDIZIONE - Treviso, 6 gennaio 2011
Segnalato

La promessa

di Donatella Tenderini - Venezia



Erano stati gli ultimi a partire.
Nella baita era sceso il silenzio. Silenzio di futuro negato. Silenzio di emozioni e ricordi sepolti.
Il pugno di case incastrato nella valle era deserto.
La neve caduta per tutto gennaio e il freddo di quell’inverno  crudo avevano forzato anche la sua ferrea volontà di rimanere, costringendolo a issare sulla carretta moglie e figli, quattro carabattole essenziali  e ad andarsene, non appena la strada sterrata si era fatta praticabile, più a sud e più sotto di almeno cinque-seicento metri.
Enrico, Rico per tutti fin da quando era bambino, aveva sbarrato le finestre e l’abbaino e, prima di sigillare la porta con le assi di larice, si era inginocchiato in cucina, davanti all’immagine della Vergine. Aveva chiesto protezione per la sua famiglia e per la casa che rimaneva deserta e muta a custodire le storie, i segreti, i sogni. E aveva fatto una promessa: - Non sarà per sempre-
Rico aveva due figli maschi e una figlia femmina. Erano nati tutti e tre, a distanza di due anni uno dall’altro, nella casa della valle, in tempo di guerra. Sua moglie li aveva partoriti da sola, senza medico e senza levatrice, come succedeva di solito a tutte le donne della montagna; nella valle si nasceva, ci si ammalava, ci si curava, si moriva, da soli. Era una fortuna se capitava di domenica mattina perchè, soprattutto nella bella stagione, veniva il prete a dir Messa nella chiesetta dedicata alla Madonna e poteva benedire i nati da poco , i morti e i moribondi.
Ma era bella, la valle. Uno slargo di terra verde, il ruscello che gorgogliava riflessi di sole a primavera, i bottoni gialli dei fiori e l’azzurrino dei minuscoli “occhi della Madonna” a rompere l’erba, e il sentiero che conduceva alle vette di roccia...tutto questo faceva dimenticare la fatica e il disagio di viverci.  
Durante la guerra era stata il nascondiglio più indicato per i partigiani feriti. I Tedeschi, subodorando la collaborazione di quel piccolo popolo tenace con la Resistenza, per rappresaglia, avevano raso al suolo la cappella e fucilato una decina di uomini, vecchi per lo più essendo i soli a girare per la valle durante il giorno. “Come avvertimento” avevano sbraitato, in un italiano che delle sue dolci cadenze non manteneva nulla.
Poi la guerra era diventata un ricordo, nè pallido nè sterile, doloroso sì, straziante, ma un ricordo.
I valligiani si erano rimboccati le maniche per ricostruire la chiesa e riprendersi la vita ma la sorte li aveva castigati. Due stagioni senza frutti dalla terra, senza cibo per le bestie...
Una famiglia per volta, lento e inesorabile, si era consumato l’esodo.
La guerra era finita da due anni e anche il Rico con la Vendramina, senza lacrime ma col cuore gonfio, se n’erano andati.
Dopo qualche anno di fiacca resistenza a lavorare come bracciante una terra che non ti appartiene, su in collina, era andato a finire in fabbrica. Finestrelle con le grate, batti sempre gli stessi chiodi, torni la sera che non ti ricordi più il colore del cielo.
Ma il Rico non si lamentava mai. La Vergine certamente vegliava su di lui e sui suoi cari perchè il lavoro non gli era mai mancato, nemmeno nel difficile dopoguerra, e di pane, magari poco, ma ce n’era stato sempre.
La Vendramina, che chissà da dove le arrivava quel nome, aveva sfornato un altro figlio, questa volta con tanto di levatrice che l’assisteva, maschio pure quello e al Rico gli era venuta la voglia di farli studiare, i figli, almeno quelli maschi.
I primi due, però, non avevano una grande propensione per i libri e la ragazza pensava più a  farsi la dote e a maritarsi che ad altro. La sua speranza stava tutta in quell’ultimo nato, nato cittadino, il solo a non aver mai abitato la sua valle, a non conoscere nè l’asprezza del viverci nè la magia di un legame fatto di niente.
Spesso Rico, la domenica, prendeva l’autobus e andava su, in collina, per stare un poco in mezzo al verde, per respirare l’aria buona.
E allora si abbandonava al passato e rievocava la fatica dei giorni della giovinezza ma anche la forza del suo corpo vigoroso, il profumo del fieno, la freschezza dell’acqua sorgiva, le corse tra i campi con la Vendramina e le fragole di bosco, piccole e dolci, che lui le offriva rubandole carezze e baci proibiti... e ricordava la promessa fatta, in ginocchio davanti alla Vergine Maria, e gli veniva una grande nostalgia e un desiderio intenso di tornare.
A volte ne parlava con la moglie e con i figli. La Vendramina lo ascoltava attenta e un poco malinconica ma tutto sommato senza troppa voglia di abbandonare le piccole-grandi comodità della città: la luce elettrica, l’acqua corrente... sembrava poi che avessero inventato una diavoleria moderna chiamata frigorifero. Lei di freddo ne aveva patito tanto e le sembrava assurdo mettersi in casa un mobile che “faceva il ghiaccio” ma d’estate, col caldo che c’era in pianura, era utile e tutte le brave massaie ne parlavano.
I figli non ricordavano la casa fatta di sassi, con l’abbaino che guardava la corolla di monti intorno alla valle, il piccolo lavatoio appena fuori e la panca dove il Rico e la Vendramina si sedevano al tramonto. Troppo piccoli quando se n’erano andati. E neppure a loro interessava più di tanto ritornare.
Ma Leonardo, l’ultimo nato, stava attento ai racconti del padre. Sveglio, curioso, ogni libro che gli capitava a tiro era una festa, soprattutto quelli pieni di illustrazioni. Rico sapeva appena leggere e scrivere ma su quel figlio aveva deciso di investire i suoi sogni.
La laurea in agraria no, non se la sarebbe mai immaginata. Andava al di là di qualsiasi aspettativa. Leonardo sembrava avere nel sangue le tensioni paterne e voler piantare, singolare eredità, le sue stesse radici.
Rico non era più giovane e disperava di poter mantenere la promessa. Pure era convinto che la baita era ancora là, vuota e silenziosa ma resistente agli anni e alle intemperie,  incrollabile nel suo compito anacronistico di conservare gelosamente un tempo e una storia che lui continuava a raccontare, anche a orecchie distratte, anche restando lontano.
Il tempo era trascorso, inesorabile e sordo, lasciando che i sogni restassero sogni.
Rico non lavorava più in fabbrica e la Vendramina non poteva più mettere al mondo figli.
Si era comprata il frigorifero e pure il televisore, andava orgogliosa di tutto questo e dei suoi figli e dei nipoti che le avevano dato.
Anche il Rico era soddisfatto ma per lui era diverso; nel suo sguardo persisteva una sottile amarezza, un velo impalpabile di malinconia che nascondeva immagini sfocate ma indelebili, quelle della sua terra.
Leonardo aveva fatto, a suo tempo, una promessa. L’aveva fatta a se stesso il giorno in cui aveva discusso la sua tesi di laurea su “ Terre aspre e terre feconde: la montagna e il superamento dei suoi limiti”.
Lui voleva impedire che i sogni restassero sogni.
Era salito in macchina con una certa diffidenza.
Sempre, quando doveva utilizzare i mezzi di trasporto che lui definiva moderni, si sentiva crescere dentro uno strano formicolio  e rimpiangeva un poco il suo caracollante carretto.
Capiva che non si può e non si deve sfuggire al progresso ma ugualmente rimaneva, nella sostanza, quello che era sempre stato: un uomo semplice.
Leonardo si era messo alla guida senza proferire parola.
- Dove mi porti? – gli aveva chiesto Rico.
Gli occhi gli erano diventati lucidi non appena aveva intuito il percorso.
Quando l’automobile aveva aggredito l’ultimo tornante di una strada asfaltata che lui non poteva ricordare, si era trovato di fronte il piccolo paese ancora e per sempre incastrato nella valle e lo sguardo appannato si era sciolto in lacrime silenziose e di ringraziamento.
Quell’anfratto di mondo sembrava una distrazione del tempo, deciso forse a fare una pausa a favore degli uomini. Alcuni dei rustici che lui conosceva così bene erano stati sì ristrutturati ma con garbo, e con un rispetto che solo la convinzione profonda e l’amore possono esercitare.
L’ultimo, quello più a monte di tutti, era il suo. Tetto d’ardesia, pareti di sasso appena ripulite, scuri di legno...
Leonardo lo aveva aiutato a scendere e gli aveva porto la chiave grossa e pesante, la stessa che lui aveva nascosto sotto il masso prima di andare; poi, lo aveva lasciato solo.
All’interno, dopo il tempo di una vita, ancora una volta si era inginocchiato davanti all’immagine della Vergine che, chissà perchè, adesso, gli sembrava sorridente. Nella penombra aveva lasciato che gli occhi vagassero intorno, a riappropiarsi del vecchio, a registrare il nuovo, a commuoversi ancora per quello strano miracolo del ritornare. Si era deciso a salire la breve scala di  legno grezzo che portava al soppalco, dove dormivano i suoi figli bambini, aveva aperto le finestre e permesso al sole di entrare senza ostacoli. Leonardo aveva fatto davvero un bel lavoro, senza stravolgere l’essenza di quel piccolo paradiso, lasciando intatto ciò che era testimonianza del passato e nel contempo ridando vita a ciò che era stato abbandonato.
L’incanto della valle, i colori, i profumi, le brezze, i silenzi tornavano ad appartenergli...
Fuori, nella luce bianca del primo pomeriggio, Leonardo attendeva, conteso tra orgoglio e timore.
Seduto sulla panca dove il Rico riposava al tramonto con la Vendramina, lo interrogava con gli occhi, cercandogli in viso quello che non avrebbe mai detto a parole.
Entrambi, ciascuno a suo modo, avevano mantenuto la promessa.
Suo padre si era sistemato accanto a lui sulla panca, un sospiro liberatorio, lo sguardo perso oltre l’orizzonte.
Il Rico non era uomo dai grandi discorsi. Aveva mormorato soltanto:
- Era qui che volevo tornare, dove il tempo si ferma -
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