La mia anima nel vento delle Orobie
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”XVII EDIZIONE - Arcade, 5 gennaio 2012
Segnalato
La mia anima nel vento delle Orobie
di Aurora Cantini - Nembro (BG)
Mio padre mi accoglie sulla porta dell’antica casa colonica dove sono nato e dove ancora lui vive con mia madre e le ultime mucche nella stalla. Oggi che compio quarant’anni sono ritornato quassù, dove tutto è cominciato e dove la mia anima ancora si libra nel vento, per chiedergli perdono.
Sono nato negli anni Sessanta in una valle incuneata come un graffio di roccia tra le Orobie Bergamasche, nella contrada Porta, frazione a monte di Carona, un gruppo di case addossate le une alle altre a guardia e portale dell’alta Valle Brembana. I miei occhi di bambino hanno giocato con i profili del Monte Cabianca a est e del monte Pegherolo a ovest, imponenti sopra il cielo, unica compagnia al rumoreggiare del torrente Brembo nelle sue rapide irrequiete.
L’austero Arera incombeva su di me e io, aggrappato ai rami più alti degli alberi di ciliegie selvatiche, sognavo di evaporare via da lì come un’aquila in volo, come i caprioli inghiottiti dal folto fogliame.
Mi volto verso la finestra e osservo la vallata, solo uno spicchio di cielo azzurro oltre le nuvole, il lago mosso dal vento, quasi in fremita attesa di fuggire verso la pianura, il profilo della chiesa, lo scuro arco del bosco fondo che circonda il costone, la cresta frastagliata e cristallina dei monti, silenziosi e arcigni nel loro ergersi contro il vento.
Con un gesto deciso allontano la sedia e mi alzo. Mio padre resta seduto, immobile come la roccia di cui fa parte, scolpito nel grigio dell’inverno.
Me ne sono andato con le nebbie. A quindici anni non ne potevo più di stare qui, sepolto tra le montagne come la neve che si accumula nei lunghi e freddi mesi invernali.
Mi sentivo in gabbia, morto prima del tempo. Vedevo gli altri ragazzi, i milanesi, i villeggianti, venire quassù in vacanza, senza alcun pensiero, portando vita e movimento al paese, pronti a scoprire il Sentiero dei fiori e delle farfalle, o salire ansanti fino al Rifugio Calvi, oppure rimirare estasiati le rive dell’ Isola di Fronda, e poi ancora Branzi, Foppolo.
«Come siete fortunati voi che vivete qui» esclamavano pieni di stupore, mentre noi del paese eravamo sempre indaffarati nelle mille incombenze della stagione estiva o nei campi per il fieno, tra temporali e mandrie all’aperto.
Arrivavano anche i miei cuginetti, come le rondinelle che ogni anno tornavano ad occupare il nido sotto il tetto del fienile, vaporosi come i soffioni, gli occhi luccicanti di attese e di avventure. Arrivavano e catturavano l’attenzione di mia madre. Per me e mio fratello doppio lavoro, perché lei sarebbe stata occupata a preparare merende e torte ai piccoli ospiti, ad ascoltare le loro vicende scolastiche, a ricevere le ultime notizie, ad essere abbracciata e strizzata. «Mmmh, come sei morbida, zia! Sai di burro e zucchero!»
“Sì, mamma, come eri morbida e dolce” rifletto appoggiato al davanzale di legno. “Con loro. I figli di tuo fratello emigrato in bassa valle.”
«Dai Nando» mi esortava «vai con Antonio e Alfio al torrente, potrete giocare nella pozza, l’acqua è limpida. Avete voglia di fare un bagno?»
«Si!!» urlavano loro. «Grazie zia Rosetta! Andiamo!»
Quei pomeriggi di svago li avrei pagati portando a spalle i covoni di fieno fino a notte insieme agli altri, dalla radura alla porta del fieno, andata e ritorno, in fila indiana, silenziose formichine operose.
Allunga la mano verso la ciotola sul tavolo e con delicatezza prende una ciliegia selvatica. «Tu eri una ciliegia per me, pieno di sole e di vento, resistente alla fatica e alla bufera, tenace come la gente di montagna. Come le ciliegie volevi afferrare una stella e poi un’altra, e un’altra ancora. Seguivi l’ombra del giorno, ti riempivi di orizzonti. Eri la mia vita, ma non potevo legarti alla terra, tu che volavi sopra di essa.»
Già, le marinelle: risento la ruvidezza del tronco, mentre scalavo un ramo dopo l’altro fino a raggiungere le piccole perle color rubino, il respiro leggero e regolare per non perdere il ritmo, il sole caldo sulla nuca luccicante di sudore.
«Non mollare, Nando» mi incitavano dal basso i miei soci. «Ci sei quasi!» Con i piedi ben incastrati tra i rami, la pancia appoggiata al tronco, allungavo le mani libere, pronto a farne man bassa.
«Non tutte tu! Dai, ci siamo anche noi!» si lamentavano gli altri, impazienti.
Mi volto verso mio padre, ancora seduto al tavolo, incorniciato dalla credenza con i bicchieri allineati, la zuppiera della festa, dove mia madre deponeva i casoncelli filanti.
«Questo Parco, aspro e perenne, che tu hai sorvegliato e accudito in tutti questi anni come se fosse un tuo secondo figlio, mi ha atteso per tutto questo tempo, qui, dove la roccia si fonde alla terra e genera l’eternità. Solo ora capisco che anche io sono sempre rimasto qui, con la mente e il pensiero, in questo Parco. Sono sceso dalla strada a tornanti solo per portare laggiù la voce di tutti coloro che su queste montagne hanno faticato e lottato per una vita di dignitosa povertà.»
Mi imprimo nella mente ogni ruga del suo volto.
Tocco il legno liscio e caldo del davanzale e ritorno bambino, a rigirarmi nel letto scricchiolante di foglie di pannocchie in preda a lancinanti dolori alla schiena, senza trovare una posizione. Il giorno dopo da capo.
Poi a settembre arrivavano le nuvole basse, che si portavano via la luce e la vivacità: tutto ritornava silenzioso, immobile, come già in letargo. Anche il lago si chetava dei bagnanti, diventava spento e opaco, come senza riflesso.
Io mi recavo al costone e sognavo di librarmi sopra l’orizzonte, giù verso Branzi e oltre, fino a svanire lontano. Finché convinsi mio padre a darmi ascolto: volevo studiare nella grande città, volevo realizzarmi.
«Guardandoti così, fisso verso un punto lontano, mi sembra ieri che eri un bambino» esordisce lui, con voce rotonda e densa. «Eri così deciso», esita come perso nei ricordi «così forte per la tua età, Nando.»
«Non ero forte, mi vergognavo» ribatto lapidario. «Mi sentivo addosso la puzza di mucca anche quando ero in chiesa o quando andavo con Alfio e Antonio a fare un giro al mercato di Carona.» Esito impacciato. «Per non parlare delle ragazze.»
«Lo so.»
Guardo quest’uomo seduto al vecchio tavolo della cucina di sua madre, e della madre prima di lei. Guardo quest’uomo, i suoi occhi liquidi, appannati dietro gli occhiali, la barba ancora rasata con la lama e il pennello davanti alla specchiera, in cucina, dove c’è più luce. Quante volte avrà compiuto i soliti gesti rituali, all’alba, per mille albe, da quando io me ne ero andato. Quante volte!
«Papà.,. » balbetto.
«Non preoccuparti, Nando.»
«Ho sempre pensato di averti deluso, te e la mamma, per questa mia fretta di togliere dagli occhi ogni ricordo della vita quassù. Ma non ero davvero felice, mi mancava qualcosa. Qui ero qualcuno, là nessuno, solo uno dei tanti.»
Mio padre riflette. «Non sei stato il primo che voleva scoprire cosa ci fosse oltre il limite del campo, oltre il solito piatto di polenta o di zuppa. I giovani che, dopo la guerra, partivano dalla Valle Brembana per cercare lavoro all’estero, si sentivano lacerati, in colpa, divisi tra due mondi, ma nello stesso tempo desiderosi di andare, di scoprire. Anche io sono partito, lo sai, senza che né il pianto di tua nonna, né le grida di mio padre, perché lo lasciavo solo ad occuparsi di tutto il lavoro con le bestie, riuscissero a farmi cambiare idea. Ero deciso, tenace, baldanzoso: volevo cambiare la mia condizione. Quando sono tornato è stato come riscoprire la mia vera identità, e da quel giorno ne sono stato pienamente consapevole ed orgoglioso. Ho indossato la divisa di guardia forestale e non me la sono più tolta.» Sposta la sedia e si alza.
«Dai, prepariamo il caffè, fra poco la mamma sarà di ritorno dalla chiesa.»
Con gesti sicuri apre la madia e toglie la scatola di orzo solubile, riempie il boccale di acqua calda e lo appoggia sulla stufa, poi apre lo sportello per aggiungere legna; anche se siamo a giugno le sere sono fresche. Ancora tutto uguale, lento, regolare. La cucina si sta facendo buia, le prime ombre calano dietro il costone.
C’era un bambino un tempo, là fuori, a giocare con le mucche al pascolo, a rincorrere maggiolini tra l’erba, a raccogliere narcisi da vendere ai villeggianti. C’era un bambino amato, là fuori, con gli zii che gli sorreggevano i secchi d’acqua, che gli portavano a valle la zangola per fare il burro.
Non era mai solo, quel bambino. In realtà non era mai triste.
Nell’aria si spande il dolce e ricco profumo di caffè, ancora preparato col pentolino, proprio come quando gustavo la colazione con la grossa scodella di ceramica colma di latte e inzuppavo il pane del giorno prima. Sul fondo rimaneva lo zucchero marrone che raccoglievo col cucchiaio. Squisito!
Lui si avvicina, tra le mani ancora la mia vecchia scodella. Il suo viso è illuminato da un sorriso che gli increspa gli occhi.
«Papà...» Non riesco più a frenare il pianto. Anni di rimorso, secoli di rimpianto in quelle lacrime purificatrici.
La sua mano callosa mi grava sulla spalla. «Il tempo risana, il tempo cura, il tempo rincuora. Non avere fretta. Tutto trova il suo posto.»
Sento le voci degli antichi abitanti di questa terra riempire il mio cuore e capisco di non essere più solo, né inquieto. La sua parola dà voce ai sentimenti legati ad un mondo in cui la vita è ogni giorno una lotta, da condurre fino in fondo, senza autocommiserazioni.
Il Parco è tutto intorno a me, vive in ogni respiro di questa valle aspra ma nello stesso tempo indifesa e io non lo deluderò. Mi sento come l’antica flora e fauna che, sospinte dalla lenta ma inesorabile invasione dei ghiacci, furono costrette a migrare e a spostarsi sempre più a sud, per non soccombere alla morsa del gelo. Molte specie sono scomparse, altre invece sono sopravvissute, riguadagnando lentamente gli antichi territori e risalendo la valle mari mano che il clima intiepidiva. Non mi sento più intrappolato tra le cime delle Orobie. Questo mio cuore, come un relitto glaciale, ha ripreso a battere al respiro della montagna.
Sono pronto.