La leggenda di Nanot
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”VIII EDIZIONE - Arcade, 5 gennaio 2003
Primo classificato
La leggenda di Nanot
di Alessandro Bettero - Mirano (VE)
Era un fresco pomeriggio di fine ottobre quando lo incontrai: appisolato su una panca di larice stagionato, curvo sulla sua vecchiezza quasi centenaria, col mento appoggiato al suo vetusto bastone di faggio, consumato dall’uso, al quale si aggrappavano due mani nodose e increspate più del bastone che stringevano. Appena gli sedetti accanto, nella veranda dell’Osteria della Piera, affacciata sulla propaggine orientale del lago di Misurina, l’uomo sbatté ripetutamente le palpebre come per mettermi a fuoco con quei suoi languidi occhietti vitrei. L’ultimo sole che baluginava sulle Tre Cime di Lavaredo, proiettando a valle aguzze ombre rossastre, attraversava i suoi radi capelli bianchi, fini come la seta, e ne rifletteva le sagome sottili sulla pelle lucida del capo, tesa come quella di un tamburo, disegnando inestricabili arabeschi. Un segno spiccava sulle altre volute, intersecandole con una linea retta. E non poteva essere l’effetto ottico di un teatro delle ombre di crine. Era qualcosa di più: forse una cicatrice, ereditata da chissà quale ferita, rimasta lì a rammentare un dramma antico.
Il vecchio sembrava restio a parlare, chiuso nella sua austera fierezza, ormai distaccato dal mondo e già pronto ad affrontare l’ultimo viaggio della sua vita. Ma quando gli confidai che avevo servito negli alpini, allora il suo orgoglio esplose all’improvviso come se ci fossimo scoperti uniti da un invisibile legame di sangue. Così mi rivelò che negli anni aveva imparato a diffidare della gente. Nel suo sguardo c’era una strana luce: quel magnetismo inspiegabile capace di catturare d’incanto due persone che, pur non essendosi mai viste prima – come noi allora – scoprono, invece, di conoscersi da sempre. Così, anche le più profonde ferite dell’anima si schiudono come un fiore e mostrano i loro petali di tristezza. Il vecchio prese a raccontarmi di essere stato anche lui un alpino, pur non rammentando più in quale guerra: “Tanto che importanza ha – osservò –. Tutte le guerre sono uguali. Si fanno solo per chi scrive i libri di storia, altrimenti il destino dei vincitori e dei vinti, al colmo della vita, sarebbe lo stesso: gli uomini fanno le guerre solo per non essere dimenticati”. Anche gli alpini hanno il proprio libro: un diario fatto di memorie che tramandano le loro epiche battaglie; un’epopea di gente semplice, di eroi solitari, di gesta sconosciute, di storie perdute nei meandri del tempo. La leggenda di Nanot era una di queste…
«Nanot aveva 12 anni, era vivace e intelligente – cominciò a narrare il vecchio –. Il suo vero nome era Giovannino Vecellio. Degli stessi Vecellio usciti dalla fucina avita del più famoso pittore Tiziano. Anche il padre del ragazzo si chiamava Giovanni e, com’era in uso per tutti i primogeniti di quella famiglia, da generazioni, aveva ricevuto in dote anch’egli, accanto al nome, il suffisso di “Nanot”.
Nanot era stato suo nonno; Nanot era stato il padre di suo nonno e ognuno dei loro ascendenti. Chissà perché Nanot visto che erano tutti invariabilmente alti e smilzi. Qualcuno di loro viveva ancora nelle valli del Natisone, in Pusteria e sull’Altopiano di Asiago, segno di una diaspora mai ricomposta.
Era un fresco pomeriggio di fine ottobre del 1918 anche quello in cui il piccolo Nanot era arrivato, stanco e affamato, all’accampamento militare delle prime retrovie del regio esercito italiano, sul Pertica. Il ragazzo ricordava vagamente che suo padre Giovanni era di stanza presso il 27° battaglione degli Alpini, ribattezzato con il poco lusinghiero appellativo di “Superstiti di Caporetto”, aggregati all’artiglieria da montagna. Solo questo. Appena giunto in una piccola piazzaforte abbozzata alla bell’e meglio con vecchie assi di legno e tronchi d’albero, i piantoni di guardia intimarono a Nanot di andarsene, di raggiungere gli sfollati, di allontanarsi in fretta da lì perché il nemico era vicino. Tutt’intorno, infatti, si udivano crepitare i colpi delle artiglierie, degli obici, delle mitragliatrici austriache e italiane, i cui riverberi, di valle in conca, producevano echi funesti in tutto l’Altopiano. Ma Nanot pretendeva assolutamente di vedere suo padre. Risoluto com’erano tutti i Nanot da generazioni, aveva deciso che da lì non si sarebbe mai schiodato. Tanta cocciutaggine colpì a tal punto i fanti italiani che Nanot entrò subito nelle grazie di un vecchio caporale piemontese, burbero come poteva essere solo un contadino delle Langhe. L’uomo parlamentò con un ufficiale di collegamento: si trattava pur sempre di un ragazzo. E l’ufficiale, arricciandosi pensoso i baffoni all’umbertina, si dimostrò stranamente possibilista. Ma Nanot avrebbe dovuto aspettare. E aspettò. Dopo essersi rifocillato con una misera sbobba scodellatagli di nascosto, Nanot si addormentò tra i sacchi di patate marce, in una baracca della cucina da campo, mentre un raggio di sole insinuatosi tra le fessure delle assi del tetto, gli baciava il viso ormai slavato. Quel sole autunnale era morbido e caldo come la mano tenera e profumata di sua madre Adelina, quando l’aveva accarezzato l’ultima volta, prima che lui partisse per quella missione disperata. Adelina stava molto male. Lottava da giorni contro la febbre alta. Un medico di passaggio aveva parlato di un “fiero morbo giunto dalla Spagna: una micidiale influenza dilagata in tutto il mondo; un nemico impietoso che non fa prigionieri”: espressioni così terribilmente tenebrose che Nanot non aveva osato decifrarle. Il ragazzo aveva vegliato sua madre per due giorni e due notti, ininterrottamente. Vivevano in una casa ormai spoglia, alle falde dell’Altopiano di Asiago, in un borgo remoto, già abbandonato dagli sfollati in fuga. Il medico che aveva visitato Adelina aveva detto a Nanot che solo il chinino avrebbe potuto placare quella febbre fatale. Già, il chinino. Ma dove trovarlo? Forse da papà? Aggrappato a quell’unica speranza e con l’angoscia nel cuore, Nanot si era messo in cammino dopo aver promesso a sua madre che lui e Giovanni sarebbero tornati con la medicina il più presto possibile. Mamma Adelina aveva accarezzato il suo ragazzo regalandogli un sorriso promettente nel quale Nanot aveva letto tutto l’amore che una madre può nutrire per il proprio figlio, un amore caldo come il sole che filtrava nella baracca… Fu allora che una mano sfiorò la spalla del ragazzo, scuotendolo dolcemente. Nanot si risvegliò di soprassalto. Era papà. Giovanni lo strinse a sé con quanta più forza poté, riversando in quell’abbraccio l’ardore di un padre che la guerra aveva sottratto a Nanot per sei mesi: dall’ultima volta in cui Giovanni era stato a casa in licenza. Nanot pianse. Versò un torrente di lacrime che si arrestò solo quando Giovanni chiese al piccolo come stesse mamma Adelina. Allora Nanot tacque e si sentì improvvisamente soffocare dal boccone amaro di un destino ineluttabile.
Il capitano Molino, un bolognese sulla quarantina che comandava la piazzaforte, doveva essere un folle o un santo: la “spagnola” gli aveva portato via sua moglie appena qualche settimana prima. Forse per questo rilasciò a Giovanni una licenza straordinaria di dieci giorni, contravvenendo a codici, regolamenti e consuetudini, nonostante fosse già iniziata quella che avrebbe dovuto essere l’ultima controffensiva italiana. Giovanni e Nanot non persero tempo: fecero scorta di chinino all’ospedale da campo e s’incamminarono lungo sentieri impervi, assecondando i mutamenti della linea del fronte. Ma due giorni dopo non erano ancora arrivati, pur senza essersi mai imbattuti nell’esercito italiano né in quello austro-ungarico, né in alcuna colonna di profughi. Nessuno. Sembrava che la guerra si fosse improvvisamente dissolta, e loro si fossero risvegliati da un incubo nel silenzio dilatato di quelle valli lungo le quali Giovanni aveva condotto tante volte Nanot alla scoperta della montagna, in un viaggio iniziatico interrotto solo da una guerra portata da estranei.
Ben presto entrambi realizzarono che pure i sentieri erano stati sfregiati dal conflitto, resi irriconoscibili dai bombardamenti e dalle trincee. E loro si erano smarriti, avvolti in una nebbiolina gelida e pungente che, fin da quando erano partiti, li pedinava come la morte. Eppure nulla, nemmeno il rischio di cadere nelle mani dell’esercito nemico li spaventava più della prospettiva di non riuscire a tornare a casa in tempo per salvare Adelina. Al tramonto del terzo giorno, trovarono riparo in una forcella stretta e scoscesa.
Nanot e Giovanni non potevano saperlo ma erano finiti in un marsupio di roccia, sicuro e inespugnabile più di qualsiasi trincea mai costruita dall’uomo: una fenditura attraversando la quale il nemico avrebbe potuto facilmente far breccia e sbaragliare l’esercito italiano. Sull’altro versante di quell’altura che Giovanni e Nanot avevano aggirato senza avvedersene, c’era infatti un corridoio strategico della nostra prima linea che, lottando contro il tempo, stava tentando frettolosamente di ricomporsi sollecitata dal generale Diaz. Tre giorni sarebbero bastati: tre giorni per consentire all’esercito italiano di lanciare l’ultima offensiva, ricacciando il nemico fin oltre il Tagliamento. Ma i nostri muli arrancavano e i pezzi d’artiglieria del regio esercito italiano erano dieci volte più pesanti da trascinare lungo i crinali e le falde scoscese e scivolose di quelle valli rese impraticabili dal fango e dalla pioggia caduta nelle ultime settimane. Quei tre giorni sarebbero bastati anche agli austriaci per far giungere in prima linea l’ultima armata alla quale il generale von Webenau, nell’ora suprema, aveva affidato il compito decisivo di rintuzzare l’esercito di re Vittorio Emanuele. Se fossero arrivati sul Grappa, avrebbero annientato gli italiani, e in capo ad una settimana, dilagando nella pianura, avrebbero raggiunto Milano e sfilato lungo i suoi viali maestosi inneggiando all’imperatore Carlo I. Allora sì avrebbero avuto in premio le migliori prostitute di Vienna e Salisburgo! Ma occorrevano tre maledettissimi giorni. Un margine sufficiente per cambiare i destini della guerra e, forse, la storia del mondo. Lo intuivano gli italiani; ne erano persuasi gli austriaci anche se nessuno dei due eserciti sapeva che cosa aveva in serbo l’altro; non potevano immaginarlo Giovanni e Nanot che capirono ben presto di essersi appostati in prossimità di uno sterminato accampamento su cui garriva l’orgogliosa aquila nera del nemico. In quell’ansa di roccia a cielo aperto, avevano trovato un barile d’acqua, pacchi di gallette ammuffite e alcune casse di munizioni abbandonate da qualche reparto italiano in rotta. Con un solo fucile “1891” Giovanni non avrebbe potuto resistere a lungo se fosse stato scoperto. Gli sarebbe stato appena sufficiente per tenere la posizione per qualche ora. Erano, ad un tempo, protetti e condannati in quella spelonca senza via di scampo: non potevano arrendersi altrimenti non sarebbero mai tornati da Adelina. Non potevano combattere perché avevano davanti a loro l’élite dell’esercito austriaco. E la mamma? pensava Nanot. E Adelina? si rammaricava Giovanni guardando in modo ossessivo l’involto col chinino che spuntava dalla sua bisaccia. Da sola, in preda alla febbre, Adelina quanto avrebbe resistito?
Quando un esploratore dell’esercito austriaco uscì in perlustrazione, arrivò fino alla sommità della forcella appena in tempo perché i suoi occhi sbalorditi incrociassero quelli terrifici di Giovanni. Entrambi provarono l’identico rassegnato stupore di due animali selvatici che si trovano faccia a faccia senza sapere a chi dei due toccherà il ruolo della preda. L’austriaco scappò via come una lepre. Ma la risposta non si fece attendere. I colpi dei crucchi furono dapprima radi, echeggiando nella valle come ciottoli lanciati nel vuoto. E poi, di ora in ora, si fecero più martellanti e incisivi. I tiri di mortai e obici, piazzati a distanze sempre più ravvicinate, tentavano di espugnare il presidio di Giovanni e Nanot, facendovi precipitare le schegge di roccia sovrastante, sgranata dai proiettili. Ma i due resistevano con ardimento ed eroismo incrollabili. Si erano persuasi, pur senz’alcuna ragionevole avvisaglia, che qualche avanguardia italiana, prima o poi, sarebbe passata di là, udendo il rimbombo di quelle esplosioni che squassavano ormai tutta la valle, fino al torrente, in fondo alla gola.
Giovanni e Nanot tennero la posizione finché l’avversario cambiò tattica divenendo più sottile e malefico. Al tramonto, alcuni tiratori scelti austriaci iniziarono ad arrampicarsi lungo il costone di roccia per appostarsi intorno alla forcella. Giovanni, fin dal corso di addestramento delle reclute, si era fatto apprezzare per la sua ottima mira, e non esitò ad assestare qualcuno dei suoi colpi micidiali. Ma i soldati nemici, sfruttando la loro schiacciante superiorità e le complici ombre della notte, tornarono alla carica. La luna era coperta da nuvole grosse e minacciose che rendevano il cielo più nero della grafite. Nanot si era appena assopito quando in tutta la valle, inatteso, risuonò il colpo limato e asciutto di un proiettile di Mannlicher. La pallottola austriaca centrò qualcosa di duro e liquido, come se fosse stato una scorza di cocomero. Il cecchino pensò di aver colpito al capo il suo bersaglio umano. Per alcuni lunghissimi minuti, il bunker di Giovanni e Nanot parve tacere. Finché uno sprovveduto fante austriaco si sporse ingenuamente da un dirupo, e il “1891” italiano, dopo un “clic” incerto, tornò a far sentire la sua letale voce metallica. La canna del fucile vomitò una fiammata proprio quando un lampo squarciò il cielo quasi a voler dare man forte agli assediati. E agli austriaci parve come un sinistro presagio. Sparute gocce d’acqua, dense e pesanti come sassi, cominciarono a precipitare nella valle a guisa di una pioggia di shrapnel. Le gocce si fecero più fitte e la potenza di mille cascate si riversò dal cielo. Piovve per tutta la notte. Piovve come non si ricordava dai tempi del diluvio. Piovve nella gola e il torrente s’ingrossò gonfiandosi come un fiume in piena finché straripò allagando l’accampamento austriaco. Piovve sui costoni di roccia dove molti soldati nemici persero la presa precipitando nel vuoto. Piovve nel catino di Giovanni e Nanot.
L’indomani gli austriaci ripresero contatto con l’avamposto italiano. Il comando non riusciva a raccapezzarsi del fatto che un solo fucile potesse tenere in scacco un’intera armata. Quanto valeva il soldato che lo imbracciava? Doveva essere un tiratore scelto, un eroe invincibile. Ne avessero avuti così anche loro, la guerra sarebbe già stata vinta da un pezzo! Così martellarono con ogni genere di colpo d’artiglieria quella posizione apparentemente inespugnabile.
Tre giorni e tre notti durò quell’assedio infernale. Finché all’alba del quarto giorno, sotto il crepitante incalzare dell’artiglieria, il “1891” italiano, all’improvviso, tacque, e i suoi colpi vibranti non risuonarono più nella valle. Uno zelante furiere austriaco che da civile aveva lavorato come impiegato amministrativo in una banca di Innsbruck, si era peritato di contarne 9.520! Novemilacinquecentoventi volte quel fucile aveva sparato. Novemilacinquecentoventi volte quella penna nera aveva tenuto in scacco la punta di diamante dell’esercito del fu Francesco Giuseppe.
Solo allora l’avanguardia nemica ebbe un sussulto d’orgoglio e decise di arrampicarsi nuovamente lungo i viscidi costoni di roccia, aggrappandosi ai moschettoni e alle corde ancora fradice abbandonate in precedenza dai commilitoni. Il tempo per l’offensiva stringeva. A fatica i guastatori guadagnarono la sommità della forcella nella quale millenni di erosione avevano scavato il nido di pietra, ormai muto, di Giovanni e Nanot. Quando gli austriaci vi saltarono dentro, baionette in resta, fu grande la loro meraviglia. Nell’incavo della roccia trovarono il piccolo Nanot, ormai senza vita, raggomitolato su se stesso in un lago di sangue, con il petto sfondato dalla scheggia di una bomba di mortaio. Nanot stringeva tra le mani il “1891” ancora caldo. Poco più in là, fuori dalla portata del tiro dei cecchini austriaci, giaceva un alpino italiano. Aveva una ferita profonda che gli attraversava la calotta cranica. L’uomo era vivo, e in un delirio che doveva durare da alcuni giorni, continuava a biascicare parole confuse e incomprensibili. Gli austriaci avevano conquistato la forcella ma era troppo tardi: l’esercito italiano li aveva preceduti e in quelle ore stava già attraversando il Piave. Quella stessa sera, l’Austria avviò le trattative per l’armistizio con l’Italia...».
Questa era la leggenda di Nanot. Non mi so ancora spiegare la ragione per cui la scrissi, riportando fedelmente il racconto del vecchio alpino che lassù, all’Osteria della Piera, me l’aveva narrata «per la prima volta nella sua vita», come tenne a dirmi congedandosi da me.
Ritornai sul lago di Misurina l’anno seguente. Era estate. Le Tre Cime di Lavaredo brillavano al sole accecante di mezzogiorno, fiere e orgogliose come tutti i soldati che, per generazioni, le avevano adorate e benedette. Volevo incontrare di nuovo quel vecchio alpino per farmi raccontare un’altra delle sue storie mirabolanti. Ma la sua panca di legno era desolatamente vuota. Chiesi all’oste dove fosse andato. E l’oste chiamò la Piera, sua moglie: una donna massiccia e rude come tutte le montanare di razza. La Piera si affacciò dalla cucina infilando la testa tra i lacci intrecciati di una tenda che lasciava trapelare zaffate di stufato di capriolo. Il marito le rilanciò la mia domanda. E lei sorrise per compiacenza: “El vecio mat? L’è mort a Pasqua. Polmonite ha dit el dotor”. Poi, passando repentinamente ad un ibrido italiano con quella sbrigativa formalità che toglie poesia e incanto ad ogni dialetto, aggiunse: “Eravate amici?”. “L’ho incontrato l’anno scorso proprio qui fuori. Mi sembrava un brav’uomo”, le dissi. “Sì, era un brav’uomo”, confermò la Piera. “Lo sa che aveva combattuto durante la Grande Guerra? E i crucchi gli avevano sparato un colpo in testa, proprio qui”. La Piera indicò con il suo indice ancora infarinato, un punto indefinito oltre la fronte, tra i capelli. “Mia nonna mi raccontava che era tornato a casa alla fine del ’19, dopo un anno di ospedale. La guerra gli aveva portato via la famiglia. E per molti anni non parlò più. I medici non capirono mai perché. Alora la medicina no l’era miga come ades”. “Come si chiamava?”, le chiesi con una punta di malcelato pudore. La Piera sorrise di nuovo cercando lo sguardo complice del marito come se le avessi rivolto una domanda puerile. Poi, prima di sparire oltre la tenda della cucina, tra pentole e fornelli, mi rispose candidamente: “Giovanni Vecellio”.