La guerra di chi resta
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”XVIII EDIZIONE - Arcade, 5 gennaio 2013
Segnalato
La guerra di chi resta
di Katia Tormen - Trichiana (BL)
Aspetto, seduto da solo sull'ultimo banco della piccola chiesa. Non c'è molta gente, quasi nessuno la conosceva. Aspetto di salutarla per l'ultima volta, e intanto i miei pensieri viaggiano a ritroso, vanno indietro di pochi mesi, di tanti anni, di una vita ...
La riconobbi subito, nonostante il tempo trascorso.
Per via degli occhi. Di un verde così, non ne avevo mai più visti, e anche se ora erano un po' appannati e nascosti da un paio di occhiali, avrei scommesso la testa che si trattava proprio di Renata.
Mi sfuggì un sorriso, pur se amaro: la vita ha strade tortuose e tempi lunghi ma sa sempre come sorprendere!
Il drappello di persone che accompagnava la donna si fermò poco oltre l'ingresso dove fu accolto dalla solerte direttrice della struttura. Strette di mano di circostanza, benvenuta signora, vedrà che si troverà bene, le mostro la stanza, bla bla bla ... Finte lacrime dei figli con le valigie in mano, promesse di tornare spesso che non saranno mantenute, qui starai meglio, sei più tranquilla e balle simili.
Stavo in questo posto da troppo tempo, oramai conoscevo il copione, sapevo che sarebbe stato puntualmente rispettato. Osservai le porte dell'ascensore chiudersi sulla schiena curva di Renata.
Non la vidi quella sera a cena e nemmeno la mattina seguente. Scese solo all'ora di pranzo, reggendosi all'infermiera come un naufrago a un relitto e fu fatta accomodare al posto occupato fino a qualche giorno prima dalla compianta contessa Morini. La osservai piluccare qualcosa senza mai sollevare gli occhi dal piatto, la sentii rispondere a monosillabi alle domande delle sue commensali. Sapevo quello che stava provando, i pensieri che le affollavano la mente, la paura che le serrava lo stomaco. Ci ero passato anch'io e molto prima di lei, nonostante fossi più giovane.
Una volta raggiunta l'età della pensione, dopo una vita passata in giro per il mondo, non avevo fatto mistero circa la mia intenzione di voler ritornare al mio paese natio. Ma la mia vecchia casa, quella dove ero cresciuto, era stata venduta anni prima e sinceramente non me la sarei comunque sentita di vivere solo come un eremita.
Così avevo chiesto aiuto a un lontano cugino, il quale si era mostrato subito disponibile e felice di ospitarmi in cambio di qualche piccolo lavoro nella sua azienda agricola. Peccato però che alla prima difficoltà, un femore rotto, mi avesse portato alla casa di soggiorno "Anni Sereni" con la promessa di riprendermi con sé una volta che mi fossi ristabilito. Da allora sono trascorsi otto anni e non l'ho più visto né sentito. Inutile dire che nemmeno io l'ho più cercato.
Dopo aver bevuto il caffè, corretto con un poco di vino rosso, decisi di fare una passeggiata fino alla piazzetta del paese, tanto per evadere un po' da quella gabbia di matti.
Ma quando la vidi in giardino, parcheggiata su una panchina all'ombra del vecchio faggio, sola, le mani in grembo come chi cerca non farsi notare, trassi un profondo respiro e andai a sedermi lì pure io.
Lei mi guardò in tralice, dubbiosa, finché, d'improvviso, gli occhi sembrarono uscirle dalle orbite: "Tonio!"- esclamò con la voce rotta. Le presi le mani e vidi il verde dei suoi occhi sciogliersi in lacrime.
Il paese era molto più piccolo, allora, durante la seconda guerra. Un pugno di case raccolte attorno alla chiesa dal tetto aguzzo e qualche altra nascosta tra i boschi sulle pendici della montagna. Renata ed io eravamo entrambi figli di contadini e, come molti altri con i quali condividevamo la sorte di avere familiari al fronte, aiutavamo le nostre famiglie nei campi o conducendo le bestie al pascolo. Ci incontravamo, qualche volta, alla fontana dove portavamo le mucche ad abbeverarsi. Lei chiedeva notizie di mio fratello maggiore Pietro. lo, che ero poco più di un bambino, qualche volta me le inventavo per non darle dispiacere. Sapevo che i due "si parlavano", come si diceva allora e speravo proprio che, a guerra finita, si sarebbero sposati, mi stava simpatica quella ragazza dagli occhi smeraldo. Ballammo insieme la sera dell'armistizio, sul sagrato della chiesa. Renata era elettrizzata, diceva che Pietro sarebbe tornato presto, che avremmo fatto un'altra festa, ancora più bella.
Poi, era arrivato l'autunno, le mucche erano tornate nelle stalle e lei non l'avevo vista più. Fino a quel giorno, nel bosco.
Mi piaceva andare a funghi e, quand'era la stagione giusta, lo facevo non appena aveva un po' di tempo libero. Amavo vagare nei boschi con lo sguardo a terra, in quelle ore lasciavo volare la mia fervida fantasia di ragazzino inventandomi storie dove io ero l'eroe e immaginando il mio futuro senza la guerra. Ero orgoglioso quando tornavo da mia madre con il cestello pieno di porcini, galletti e di tutte le varietà di funghi commestibili che mio padre mi aveva insegnato a riconoscere fin da piccolo.
Quel giorno, come al solito, mi addentrai nel sottobosco con un bastone per aiutarmi nel cammino e un tascapane a tracolla. I miei occhi si abituarono subito alla scarsa luce, il mio naso fu impregnato degli odori del muschio, delle foglie e della terra umida. Le orecchie tese a captare ogni rumore che potesse indicare pericolo, camminavo lento, scrutando a destra e sinistra, sollevando i rami bassi. Adoravo quei momenti di solitudine immerso nella natura, quando il tempo sembrava rimanere sospeso e il resto del mondo lontano e quasi insignificante. Poche persone si avventuravano fin lì, era facile perdere l'orientamento tra i sentieri appena tracciati dagli animali e i colori uniformati dalla scarsa luce che filtrava tra i rami.
Per questo, in un primo momento, credetti trattarsi del lamento di un animale ferito. Ugualmente mi immobilizzai, tutti i sensi in allerta: la guerra non era ancora finita, i tedeschi continuavano a rastrellare la zona a caccia di partigiani. Sebbene fossi solo un ragazzino, incontrarne uno non rientrava tra le esperienze che desideravo fare nella vita, quasi sicuramente mi avrebbe scambiato per una staffetta, con conseguenze che non osavo nemmeno immaginare. Cercando di non fare rumore, mossi alcuni passi nella direzione da cui avevo sentito provenire il lamento. Lo udii di nuovo, più forte stavolta, amplificato dal silenzio della foresta. Intravidi la sagoma di una persona fra i tronchi e mi accucciai lesto dietro ad un masso, pregando. Ora il pianto, perché di questo si trattava, era continuo e disperato. Improvvisamente cessò. Nel silenzio totale, sentivo solo il mio cuore battere all'impazzate nel petto. Quando trovai il coraggio necessario, sporsi la testa fuori dal nascondiglio e quello che vidi mi lasciò senza fiato. Renata, non c'era dubbio che fosse lei, nessun'altro aveva quegli occhi, teneva un grosso coltello insanguinato tra le mani. Senza pensare a ciò che stavo facendo, temendo che la ragazza fosse ferita, balzai in piedi e le corsi incontro.
La vidi impallidire e indietreggiare contro il fusto resinoso di un abete. Il coltello scivolò tra le foglie secche, vicino a ciò mi sembrò essere un animale. "Era un tedesco... "-farfugliò la giovane prima di rannicchiarsi a terra tra le lacrime.
Non capivo: "Dove, un tedesco?"- chiesi guardandomi attorno. Lei puntò l'indice della mano tremante. Solo allora realizzai che quella cosa per terra era il corpicino di un bambino, dilaniato da svariate coltellate. Indietreggiai di alcuni passi e mi vomitai sulle scarpe.
Restammo alcuni minuti a guardarci senza parlare. Il vento che scuoteva i rami non riusciva a fare altrettanto con le nostre coscienze.
Alla fine fui io a prendere l'iniziativa.
Scavammo una buca alla bell'e meglio e vi gettammo il cadavere, coprendo poi la terra smossa con rami e foglie secche. Renata avrebbe voluto lasciarlo lì, in preda agli animali, ma io non ne ebbi cuore. Lavorammo in silenzio, a testa bassa, senza parlare. Poi tornammo al paese a passo spedito, ognuno per proprio conto.
Da allora, ci rincontrammo quel giorno, sulla panchina della casa di riposo.
"Erano arrivati come furie convinti che nel fienile mia madre nascondesse alcuni partigiani. Non era vero, non so chi avesse dato loro quell'informazione. Gridando che non erano saliti fin lì per niente mi presero e mi violentarono a turno. Un paio di mesi più tardi scoprii di essere incinta."
Parlava a testa bassa, Renata, senza interruzioni, come un fiume che ha rotto gli argini. Sembrava ancora più minuta di quanto era in realtà. Era la prima volta che sentivo quella storia. La famiglia di lei aveva giustificato la sua scomparsa dal paese con un'ottima occasione di lavoro giunta da Milano e un conseguente matrimonio con un giovanotto benestante. Da parte mia, non avevo mai fatto parola con nessuno di ciò che era successo quel giorno nel bosco, neanche con Pietro, tornato infine a casa con l'unico desiderio di sposare la ragazza amata e rimasto invece solo per il resto della sua vita.
Tenevo ancora le sue mani tra le mie e le sentivo tremare ad ogni sospiro.
"Mi davo pugni sulla pancia, mi ubriacavo di vino, non volevo che quel bambino nascesse, sapevo che lo avrei odiato. Litigai con i miei genitori, col prete che mi diceva che ogni vita è un dono di Dio, tentai anche il suicidio. Ma alla fine il bambino nacque. Ricordo il suo pianto nella stanza silenziosa, la levatrice che tenta di avvicinarlo al mio viso e io che mi giro dall'altra parte. Non lo volevo vedere, ma mia madre mi costrinse a farlo. Per tre giorni mi obbligò ad attaccare al seno quell'essere che avevo generato e che non sentivo mio, per tre giorni mi sorvegliò costantemente. Alla prima occasione buona scappai da casa e il resto lo sai. Loro videro il sangue sui miei vestiti e capirono tutto. Mi mandarono via. Non mi hanno mai perdonato."
Mi guardò, accennando un sorriso. Ricambiai, anche se avrei voluto dirle che nemmeno io l'ho perdonata per molto tempo. Avrei voluto rinfacciarle le notti infestate da incubi che mi hanno tormentato per anni, avrei voluto incolparla dell'angoscia che mi assale ogni volta che incontro un bambino, avrei voluto dirle dello strazio di mio fratello tornato dalla guerra per sposarla. Però sapevo che le mie pene erano nulla se confrontate con le sue. Ora capivo quel gesto e tante altre cose.
"Me lo chiedo, sai? Me lo chiedo tante volte... Chissà chi sarebbe diventato quel bambino. Lo avevano battezzato Andrea. Era bello e paffuto... Ma io avevo il terrore di rivedere il volto di una di quelle bestie quando fosse cresciuto. Invece chissà, forse sarebbe somigliato a me o a mio padre. Avrebbe fatto l'ingegnere il calciatore o il pilota di formula uno. Mi avrebbe dato dei nipotini!" "Non ne hai?" - chiesi stupito - "Eppure i tuoi figli mi sembrano già adulti!". Lei sospirò più forte, il labbro inferiore tremava: "Non sono i miei figli, sono quelli del mio defunto marito, era un vedovo. Il Signore ha voluto punirmi, Tonio, non me ne ha fatti avere più!" Scoppiò di nuovo in lacrime e affondò la testa sulla mia spalla. Le accarezzai i capelli bianchi, non aspettai le sue domande. "Nemmeno io ne ho avuti, non mi sono nemmeno sposato. Me ne sono andato a vent'anni in cerca di fortuna e ho girato il mondo senza trovarla mai. Sono voluto tornare a morire qui, tra le mie montagne. Vado ancora a funghi ogni tanto, sai? Ma non dirlo alle infermiere ... " Non le confessai che ogni tanto torno lì, e poso un fiore, come ho fatto per anni dopo che lei se ne era andata. Non è distante, hanno costruito tante case da allora, sulle pendici della montagna, non c'è più tanto bosco da attraversare.
"lo e mio marito non siamo mai andati tanto d'accordo. Non mi andava di stargli vicino anche da morta, così ho detto che volevo venire qui, dove sono nata. Almeno sarò vicina a mio figlio." Gli occhi verdi si perdevano lontano, tra le fronde dei pini. D'improvviso si illuminarono: "E tuo fratello? Che ne è stato di lui?"
Non sapevo se dirglielo o raccontarle una piccola bugia, come facevo allora. Poiché lei era stata sincera, decisi di ripagarla con la stessa moneta. "E' morto anni fa, un incidente d'auto." La vidi serrare le labbra, incurvarsi ancora di più. Sapevo che c'erano domande inespresse che non trovava il coraggio di fare. E allora la precedetti: "Non si è più sposato nemmeno lui. Credo che in tutte le ragazze con cui è uscito dopo abbia sempre cercato te senza mai trovarti. lo non gli ho mai raccontato del nostro incontro nel bosco, ha sempre creduto che tu non avessi avuto la pazienza di aspettarlo." Notai una lacrima farsi strada tra le rughe della guancia.
Mi chiesi se tra le vittime della guerra si dovessero contare solo i morti o anche quelli che, loro malgrado, erano sopravvissuti portandosi addosso cicatrici profonde e indelebili. Mi chiesi che senso avessero avuto le nostre vite, la mia, quella di Renata e quella di Pietro, ma anche quella del piccolo Andrea. Vite interrotte, dalla guerra prima, dalla morte poi. Vite non vissute, troppo brevi o troppo lunghe, segnate dalle bugie, dalle menzogne.
Ora eravamo tutti lì, di nuovo assieme, a breve distanza l'uno dall'altro. Il piccolo cimitero, dove riposava mio fratello e dove anche noi saremmo finiti, si intravedeva verso valle oltre il muro di cinta.
La brezza che arrivava dalla montagna portava odore di muschio.
Le parole del prete mi riportano al presente. La bara entra, mi passa accanto, una rosa cade ai miei piedi. La raccolgo e la poso sulla panca: più tardi la porterò con me, farò un giretto a funghi.
Anche se non è stagione.