La deviazione del portaordini
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”XXV EDIZIONE - Arcade, 4 Gennaio 2020
Segnalato
La deviazione del portaordini
di Davide Bacchilega - Lugo (RA)
Il mondo ha smesso di girare e il cielo si è ritirato dietro un blocco solido di nubi. L’odore è quello dell’inverno che sta per piangere a dirotto il suo malcontento. Il sacco con la posta è arrivato alla nostra postazione appena in tempo: tra pochi minuti nevicherà fitto – conosco quest’aria che pizzica il naso – e l’alpino incaricato a portare il sacco delle missive fin quassù non ce l’avrebbe mai fatta in mezzo alla tormenta.
Un pallido caporale distribuisce le lettere a noi soldati, cercando di abbinare il nome scritto con calligrafia incerta sulla busta a una delle tante facce che lo accerchiano. La fame di speranza in quelle rughe ventenni è seconda solo a quella per il rancio, che ormai arriva sempre più rado e misero. Ogni volta che una busta trova il suo destinatario viene aperta con dolce ferocia, affetto disperato, da dita intirizzite dal freddo quasi incapaci di maneggiare quel dono fragile. Su quelle carte ammollate dall’umidità s’arrampicano le parole di madri e fidanzate, premure e raccomandazioni spedite da remoti villaggi della penisola.
«La mia dov’è?» chiedo al collega dopo la spartizione.
«Finite» fa l’altro spolverando con la mano il fondo del sacco.
«Controlla bene: ci deve essere» insisto.
Il caporale rivolta la tela del sacco come un calzino e la scrolla davanti a me. Ne esce solo una foglia morta.
Non ricevo più lettere da Agnese da almeno due mesi, o forse tre. Quassù, il calendario smarrisce i giorni e le lune nuove. Sono tempi duri per chi si vuole bene: è da anni che siamo in guerra e mi viene da pensare che sia la normalità.
Mi siedo su una roccia fissando il valico di fronte. Di là ci sono i nemici. Di qua ci siamo noi. In mezzo ci dovrebbe essere tutto il nostro odio reciproco. Eppure mi ricordo quando da piccino scavallavo la vetta per andargli incontro. Non parlavamo la stessa lingua, ma ci scambiavamo formaggi. Ora ci scambiamo solo pallottole e bombe a mano.
Il panorama dei miei ricordi è oscurato dall’attendente del colonnello che mi si para davanti.
«Danilo, che fai lì impalato? Ti vuole il colonnello» dice. «Porta uno con te.»
Mi guardo attorno in cerca di un compare, anche se non vorrei essere io a scegliere. Come al solito ci sarà da camminare fino a consumarsi le ginocchia, ma forse è meglio così che stare sotto il fuoco nemico. Metto gli occhi su Beppe, un ragazzo di diciotto anni che sta riguardando la sua lettera stropicciata per la centesima volta. Tutto il suo volto ha la foggia di un sorriso, non solo la piega della bocca. È stato graziato da cinque minuti di rara gioia in mezzo alla follia più devastante.
«Non mi ricordavo che sapessi leggere» gli dico.
«Beh, non bene, quasi niente» mi fa lui. «Ma questa è la sua firma, la riconoscerei fra mille!»
«Marisa?» chiedo io, leggendo lo scarabocchio minuto in fondo alla pagina.
«Proprio lei!» si rallegra Beppe.
Do una scorsa veloce a quelle frasi vergate sul foglio in modo formale, quasi fosse l’atto di un notaio. Quelle parole piccole e graziose dicono a Beppe di non pensare più a lei. Dicono che ogni promessa fatta prima di partire deve ritenersi annullata. Dicono che lei si sposerà con un altro, un signorino di buona famiglia che è stato riformato. Non vuole diventare, lei, Marisa, già vedova prima di sposarsi.
Da vero vigliacco, non dico nulla a Beppe. Gli assesto perfino una pacca sulla schiena per complimentarmi. Come troverebbe la forza per tirare avanti in questo inferno senza il miraggio di una giusta ricompensa?
«Mi ama, vero?» chiede lui accennando alla lettera.
«Sei un uomo fortunato» faccio io. «Vieni con me, ché c’è un lavoro per noi.»
Ci facciamo spiegare dal colonnello la nostra missione: dobbiamo arrivare al comando di divisione per consegnare delle mappe dove è riportato lo schieramento tenuto dai battaglioni.
Chiedo dove si trovi di preciso il comando. Il colonnello, che non è di queste parti, indica con il dito una direzione vaga. «Dovete scavalcare quella montagna e poi scendere fino a valle. Troverete un fiume: seguite il suo corso e vi porterà a destinazione.»
Mentre la notte si avvolge attorno al campo, la tavolozza del cielo ci riserva solo gradazioni di grigio cenere. Tutto sconsiglierebbe di partire adesso, ma non possiamo fare diversamente. Mi infilo il plico del colonnello nella tasca interna del giaccone; recupero poi la mia carabina, qualche galletta ammuffita, scatolette di carne e il telo di una tenda che assicuro con una corda allo zaino.
Osservando il cielo, Beppe prega; io bestemmio. Poi partiamo.
Mi ricordo bene, prima, quando ancora non avevo nemici. Queste montagne erano sì un pericolo, ma puro, come solo la natura sa essere. Gli agguati erano tesi dalle valanghe e dalle frane, non da un cecchino posizionato sul cucuzzolo di fronte. Oggi, che mi hanno assegnato dei nemici, salgo e scendo dalle montagne portando ordini alle compagnie in linea, oppure scivolando verso le retrovie per chiedere rifornimenti di munizioni e viveri. Hanno scelto me perché conosco bene queste asperità, cammino veloce e sono un po’ codardo: piuttosto che combattere in trincea, preferisco scorrazzare lungo i sentieri. Rispetto ai percorsi che facevo da bambino, in guerra ho imparato anche strade nuove e comode scorciatoie. Tutto il reggimento mi conosce: sono il primo a cui chiedono notizie sull’arrivo delle sigarette, sul rancio, sul tempo che farà.
Ho fiuto per il tempo, l’ho sempre avuto. Non mi sorprende allora che fin da subito inizi a nevicare con insistenza, mentre io e Beppe saliamo verso la vetta. Meglio una pioggia di fiocchi ghiacciati che di proiettili di piombo, per carità, ma la guerra si combatte anche contro il meteo.
Per colpa della neve, il sentiero segnato sulla pendice del monte sparisce nel bianco e ben presto il vento trasforma la nevicata in bufera. Riusciamo a vedere appena un metro davanti a noi e quando ci voltiamo le nostre tracce sono già scomparse.
Pochi chilometri dopo ci rendiamo conto che non possiamo più proseguire. Meglio accamparci nel bosco e proteggerci con la tenda. Per non congelare, dovremmo accendere un fuoco, ma ci siamo scordati i fiammiferi.
L’anno scorso ho visto un commilitone sopperire a questa mancanza: dovrei avere imparato l’insegnamento. Dopo aver recuperato dalla macchia qualche manciata di foglie secche, ramoscelli e piccoli tronchi, apro una cartuccia della carabina e faccio uscire la polvere da sparo. Quindi recupero la bacchetta che si usa per ripulire la canna dell’arma e la sfrego velocemente sui pantaloni fino a scaldarla. Quando appoggio la bacchetta alla polvere da sparo, scaturiscono scintille che incendiano le foglie e i ramoscelli, quindi i rami più grossi. Dopo averci soffiato su, le fiamme attecchiscono ai legnetti e iniziano a scaldarci le ossa.
Davanti al fuoco che ora arde vivace, biascichiamo qualche parola. Come sempre, si parla di cosa faremo una volta tornati a casa: io vorrei un mestiere onesto; lui una famiglia numerosa. Anche se non la nomino, lui sa che sto pensando ad Agnese. Anche se non la nomina, io so che sta pensando a Marisa. Gli dovrei dire la verità, ma si perderebbe prima di ritrovarla.
Quando ci svegliamo non c’è ancora il sole. Ha smesso di nevicare e il viaggio può riprendere.
La salita che affrontiamo è piuttosto ripida e man mano che saliamo in alto il bosco si dirada, lasciandoci più soli. Le montagne si spogliano di vegetazione, denudate anche da quel velo di neve fresca che prima le copriva. Private da quel manto, i sentieri battuti tornano a mostrarsi, soprattutto quello che ci porterà su in cima: è una serpentina insidiosa che si spinge fino al passo da valicare. Nel silenzio dell’altitudine, non udiamo segni di vita, neppure di animali.
Una volta giunti sull’altro versante, scendiamo lentamente aggrappandoci dove capita, speroni di roccia o radici. La discesa è tanto ripida quanto lo era la salita dall’altra parte, e la neve che si sta sciogliendo rende il terreno scivoloso. Per evitare una pozzanghera melmosa, faccio un balzo per aggrapparmi a un abete, ma il ramo si spezza e precipito al suolo, scivolando in una scarpata.
Precipitando sbatto contro cespugli, massi e trochi d’albero, finché non mi ritrovo ammaccato qualche decina di metri più in basso. Gli ostacoli che la mia caduta ha incontrato mi hanno evitato di ruzzolare più a fondo, ma si stanno facendo sentire nelle ossa e nella carne. Grido a Beppe che sono ancora vivo, quindi lui scende con cautela lungo la scarpata per venire a recuperarmi.
A parte diversi ematomi, ho una caviglia che sento rotta e forse qualche costola incrinata. Non me la sento di risalire fino al punto da cui sono caduto, al sentiero conosciuto. Decidiamo allora di imboccarne un altro più in basso, sperando di non perdere la rotta. Il risultato è che per un paio d’ore navighiamo alla cieca con il rischio di finire nelle mani dei nemici, assieme alle carte segrete che custodisco nel giaccone.
Il mio passo sciancato rallenta ora la marcia, costringendoci a scommettere su vie sempre più improbabili per evitare tratti troppo duri. Orientandoci con il sole seguiamo la giusta direzione, ma la strada che battiamo potrebbe non essere sicura. A un certo punto ci pare di sentire il rumore di un corso d’acqua provenire da qualche parte sotto di noi. Forse è il fiume di cui parlava il colonnello quando mi ha consegnato l’ordine.
«Tu resta qui, non sforzare la caviglia» mi fa Beppe. «Vado io a vedere.»
Mi siedo su un ceppo d’albero per riposare, mentre Beppe si allontana in direzione di quel rumore liquido. Il ragazzo ha un cuore d’oro, penso tra me, dovrei dirgli la verità. Non faccio in tempo a prendere una decisione che il rumore di una raffica di mitragliatrice cancella ogni proposito.
Imbraccio la carabina e corro con la caviglia a pezzi verso il punto in cui il mio compagno è scomparso. Superato il folto della vegetazione, si apre davanti a me una piccola radura esposta al sole. In mezzo alla radura, Beppe è disteso a terra. Si tiene il fegato sanguinante con entrambe le mani. Esco allo scoperto e lo afferro per le ascelle, cercando di trascinarlo nel bosco. Un’altra sventagliata di mitragliatrice crivella l’erba sotto i nostri piedi, per fortuna senza colpirci.
Una volta rifugiati nella vegetazione, Beppe tira fuori dalla sua giacca la lettera di Marisa.
«Mi ama, vero?» mi fa lui, come chiedendomi di leggere.
«Moltissimo» dico io con quel foglio insanguinato in mano.
Per un attimo lo vedo scuotere la testa. L’attimo dopo non scuote più nulla.
Quando scorgo da lontano una valle profonda e un docile corso d’acqua, il mio istinto intuisce che stavolta è il fiume buono, non quello traditore che è costato la vita a Beppe. Scendo verso la valle che sono tutto un dolore. Oltre il fiume ci sono le tende e le baracche del comando.
Consegno all’aiutante del maggiore il plico sgualcito, conservato per quasi due giorni vicino al cuore. L’uomo mi porta dal maggiore, un tizio dal viso scavato ma dai baffi curati. Quando apre la busta e legge le carte, una smorfia incomprensibile gli macchia la faccia.
«Il tuo compagno?» chiede.
«Morto.»
«Sei ferito?»
«Nulla di grave.»
Il maggiore scrive qualcosa su un biglietto e lo infila nella stessa busta che ho portato. «Da consegnare al signor colonnello» mi dice. «Entro la giornata di domani. Intanto puoi dormire qui.»
Quindi ordina all’aiutante di portarmi nella tenda degli ufficiali, dove ricevo qualcosa da mangiare: una gavetta di rancio caldo e un bicchiere di grappa.
Era da Natale che non mangiavo così.
Poco prima di addormentarmi penso ad Agnese. Il paese in cui vive, in fondo, non è molto distante da qui. Saranno al massimo una ventina di chilometri, forse quindici. Se non avessi la caviglia gonfia arriverei lì in poche ore. Anzi, anche con la caviglia in queste condizioni non ci dovrei poi mettere troppo. Se partissi adesso, saltando il sonno, sarei al paese alle prime luci dell’alba, giusto in tempo per salutarla prima di tornare al mio battaglione. Il tutto entro la giornata, come da ordini ricevuti.
D’altronde che senso ha dormire, se c’è il tuo amore che ti aspetta?
Per tutta la notte cammino attraverso i boschi, scendendo verso la pianura, in direzione del paese in cui abitano Agnese e i suoi genitori. Nel buio, l’unico rumore è il mio respiro affannato, perfino la battaglia dorme. Mi lascio orientare dalle montagne che mi circondano, che qui sono familiari. Se qualcuno cogliesse questa mia piccola deviazione notturna, crederebbe che sono un disertore. Invece sono soltanto un soldato acciaccato che cerca uno spiraglio di casa in un tempo straniero. Il dolore alla caviglia è ormai insopportabile. Quello alle costole, pugnalate continue.
Ma Agnese mi aspetta e non mi posso fermare.
Quando arrivo alla fattoria della famiglia di Agnese, riconosco suo padre mentre zappa la terra accanto a un mulo. «Tonio» lo chiamo.
Lui alza la testa dalle zolle e mi guarda strano. Con gli occhi mi domanda che voglio.
«Sono Danilo» dico allargando le braccia.
«Danilo chi?» fa lui.
«Il fidanzato di Agnese.»
Tonio sgrana gli occhi e poi si appoggia rassegnato al manico della zappa.
Sono cambiato così tanto da quando sono partito? Quanto mi hanno consumato il rancio cattivo, la fatica, le malattie? Se ora mi guardassi con gli occhi di un estraneo, riconoscerei me stesso?
«È finita la guerra?» chiede Tonio.
«C’è ancora.»
«Perché sei qui?»
«Per Agnese.»
L’uomo non dice più nulla e riprende a zappare. Dietro di lui, a cento metri da noi, vedo lei, Agnese, uscire dal fienile con delle ceste in mano. Si ferma in mezzo all’aia guardando verso di noi. Si starà chiedendo chi è quello sporco vagabondo che sta importunando suo padre.
«Vuoi andare da lei?» mi chiede Tonio senza smettere di zappare.
Ho camminato quasi venti chilometri per incontrarla, più tutti quelli prima. Andare da lei è l’unica cosa che voglio in vita mia. Ma se lei ora avesse cambiato idea, se mi trovasse brutto, se si fosse già impegnata con un signorino riformato, o se semplicemente non volesse diventare una fidanzata già vedova, come potrei trovare ancora la forza di tirare avanti, di salire e scendere quelle montagne per una guerra intera senza la speranza di tornare da lei?
Voglio andare da lei, ma non ci andrò.
Volto allora le spalle alla fattoria e mi incammino verso la montagna, il posto a cui appartengo.
Appena la via inizia a salire, però, un crepaccio mi si apre nel petto.