La conchiglia - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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La conchiglia

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XI EDIZIONE - Arcade, 5 gennaio 2006
Premio speciale
"Trofeo Cav. Ugo Bettiol"

La conchiglia

di Alberto Velluti - Venezia



Leonhard controllò che tutto fosse in ordine. Aveva preparato lo zaino la sera prima, ma una nuova verifica non poteva far male. Tastò la consistenza della corda, aprì e chiuse i moschettoni di ghiera, introdusse il caschetto giallo, regalo del padre, che stava in bella vista sulla sedia, fece attenzione che le scarpette rosse da arrampicata fossero ben annodate allo zaino, infine riempì la borraccia di acqua fresca, si cosparse la crema sul viso, e uscì.
Al piazzale dove parcheggiò la macchina osservò con un lieve sorriso sarcastico una folla chiassosa di gente che si radunava per una gita. Tra poco, pensò, non avrebbe più visto nessuno e si sarebbe ritrovato a contemplare i misteri e la bellezza della natura in beata solitudine, o, al limite, in compagnia di qualche aquila. Galvanizzato da questi pensieri prese lo zaino sulle spalle e s’incamminò. Era una splendida giornata e solo alcune piccole nuvole di passaggio impedivano al cielo di essere del tutto terso. Leonhard, d’altra parte, si era informato alla stazione meteorologica e sapeva che le condizioni climatiche potevano soltanto migliorare; era dunque la giornata ideale per affrontare quell’arrampicata che da tempo aveva programmato.
In lontananza poteva scorgere le linee severe del Monte Magagnone, fin dall’infanzia era rimasto soggiogato dall’incanto di quella maestosa montagna.
“Pochi possono vantarsi di avere raggiunto le vette del Magagnone” gli raccontava il nonno quando era bambino, “sì e no una decina, e tutta gente forte dal cuore di leone come te, mio piccolo Leonhard.”
Respirò a fondo rammentando quelle dolci parole. Quel giorno era finalmente arrivato, suo nonno sarebbe stato fiero di lui.
Guadò un torrente e, dopo averlo costeggiato per alcuni metri, si addentrò in un sentiero che lo avrebbe condotto ai piedi del monte. Con le nuove scarpe da trekking gli sembrava di volare; si era allenato duramente per tutto l’inverno e si sentiva in forma perfetta. Il percorso di avvicinamento, inoltre, lo aiutò a prendere il ritmo e a superare l’emozione iniziale che sempre provava quando si accingeva a un’impresa di tal genere. In circa mezz’ora raggiunse il punto esatto da cui aveva stabilito di iniziare ad arrampicarsi. Si guardò attorno e si accorse che lì nei pressi stava un signore vestito elegante appollaiato su un masso a leggere il giornale. Gli vennero in mente in quel momento i discorsi che gli facevano i vecchi amici del nonno: “Piena di misteri è la montagna e misteriosi sono i suoi abitanti” gli raccontavano tra un bicchiere di grappa e l’altro, “gnomi, folletti, spiriti dei boschi, sciamani che si ritirano sui monti a meditare; e, se per caso un giorno ne incontrerai uno, ricordati di essere gentile con lui e di non distoglierlo dalle proprie occupazioni.”
Leonhard ridendo tra sé osservò questo nuovo tipo di sciamano che imperversava in montagna e che i vecchi amici del nonno non avrebbero forse potuto immaginare di incontrare mai.
Il signore accorgendosi della sua presenza scostò il giornale e lo salutò.
“C’è chi scende e c’è chi sale” sbuffò poi con un sospiro lamentoso riferendosi all’andamento della borsa che stava leggendo. Leonhard ricambiò il saluto e, ricordando gli antichi ammonimenti, cercò di non disturbarlo dalle sue elevate meditazioni.
Dopodiché preparò con cura gli attrezzi; indossò il casco e si cambiò le scarpe. Quella prima parete che doveva affrontare non presentava grandi difficoltà, ma in montagna, si sa, non bisogna sottovalutare nulla; così Leonhard respirò a fondo e salì con estrema concentrazione. In poco tempo ebbe ragione di quel primo ostacolo giungendo in cima con molta agilità, da lì avrebbe dovuto percorrere un lungo sentiero che lo avrebbe condotto alla leggendaria parete nord, meta ambita dai più capaci e temerari alpinisti. Bevve un sorso d’acqua dalla borraccia ed estrasse da una tasca dello zaino la mappa per studiare bene l’itinerario. Il sentiero era ripido e selvaggio e in alcuni punti talmente impervio da renderlo più difficile della breve parete che aveva appena superato. Leonhard lo affrontò con tutta l’attenzione necessaria e camminò per più di due ore. Aveva appena oltrepassato la forcella del lato ovest quando si avvide che tra le pietre ce n’era una con una forma particolare: era bianca con delle striature rosate e si avvolgeva a spirale in una sorta di cono. Nel raccoglierla si rese conto che non si trattava di una pietra, bensì di una conchiglia, e rimase stordito ad ammirarla. Gli venne in mente il fatto che quelle montagne migliaia di anni prima erano state interamente ricoperte dal mare; la cosa lo aveva sempre affascinato. Quella conchiglia che teneva in mano, quindi, doveva avere migliaia di anni e magari gli anelli concentrici e regolari segnati sul guscio ne testimoniavano l’età. Provò un’intensa emozione sentendo di avere fatto una scoperta straordinaria e, pur sapendo che in montagna ogni ritrovamento va lasciato al proprio posto, si risolse di introdurre la conchiglia in un sacchetto di nylon che si era portato via per ogni evenienza, di avvolgerla in un giornale e di deporla con cura nello zaino. L’avrebbe mostrata al direttore del museo archeologico e, se questi lo avesse rimproverato, avrebbe comunque potuto riportarla là dove l’aveva trovata. Per questo si segnò il punto esatto nella mappa; d’altronde, si giustificò tra sé, quello era un evento eccezionale e prima che qualcun altro fosse passato per di lì sarebbe trascorso molto tempo. Con tali pensieri e corroborato dalla consapevolezza di aver fatto un’importante scoperta, raggiunse la tanto agognata parete nord del Magagnone. A vederla così da vicino gli metteva i brividi da come appariva imponente, ma non era quello il momento di avere paura e di farsi sorprendere dalle emozioni. Con calma, un passo alla volta, tentò di  incoraggiarsi, l’avrebbe scalata tutta.
All’inizio gli sembrò perfino più facile del previsto talmente era impegnato nel trovare appigli e fessure per mani e piedi, a trovare la roccia giusta dove piantare i chiodi, che quasi si dimenticò delle difficoltà e del fatto che più saliva più aumentava il vuoto dietro di sé. Della montagna, però, non bisogna mai fidarsi troppo, anche con tutte le precauzioni che si possano prendere l’imprevisto è sempre in agguato. Aveva appena superato la prima metà della parete quando una pietra, staccatasi da chissà dove, lo centrò giusto sul casco e rimbalzando contro la roccia tornò a colpirlo di rimbalzo ferendogli lo zigomo. Leonhard si fermò per un attimo, il cuore prese a pulsargli forte e sentì un forte bruciore là dove la pietra lo aveva colpito. Aveva la sensazione che il sangue gli colasse sulla guancia e sul collo; per fortuna non lo aveva preso nell’occhio. Sollevò lo sguardo, preoccupato che una nuova frana potesse staccarsi, dopodiché, superato il primo momento di timore, riprese a salire. La ferita, invece di bloccarlo, lo rese ancor più euforico; ora sì si sentiva degno degli antichi pionieri che per primi avevano scalato quelle montagne, esplorato nuove vie, e tracciato i sentieri. Con maggior vigore scalò la seconda metà assaporando già la gioia di raggiungere la cima. Ancora pochi sforzi prima di poter abbracciare con una sola occhiata l’intera vallata sottostante, di ammirare dall’alto le creste delle montagne più basse, di immergersi con tutto l’animo nell’immensità dei cieli. Fu proprio quest’ultimo pensiero a fargli venire in mente alcuni versi di una poesia che suo nonno amava spesso recitare:
Son rivà su le cime dei monti
Gò vardà dentro içieli sereni
Vedarò le me vali e i me orti
Là zò sconti da nuvoli neri? [1]

“Vedi mio caro Leonhard” gli spiegava il nonno dopo la breve recita di questi versi, “il bravo alpinista deve sapersi elevare senza tuttavia perdere il contatto con la realtà.”
Memore di questi insegnamenti Leonhard si fece più umile e salì gli ultimi metri cercando quasi di ritardare il momento fatidico della conquista della vetta. Mentre si  avvicinava gli sembrò di udire alcuni suoni particolari, come delle voci in lontananza; gli pareva strano che proprio quel giorno qualcun altro avesse deciso di scalare il leggendario Magagnone, o forse, pensò, si trattava di un’equipe scientifica di esperti alpinisti.
Raggiunta la vetta e mossi i primi due passi sul tetto del monte si fermò all’improvviso come pietrificato lasciando cadere pesantemente al suolo lo zaino; aveva gli occhi azzurri sgranati e la bocca semiaperta, le braccia a penzoloni lungo le ginocchia. No, non era il panorama a suscitare in lui quella ridicola espressione di stupore, né le cime dei monti o i cieli sereni, neppure un’equipe di esperti travestiti da marziani; a renderlo così stupefatto era soltanto una piccola spiaggia con tanto di sdraio e ombrelloni colorati. Si trattava di un’iniziativa di cui i giornali avevano parlato a lungo e c’erano state anche alcune polemiche a riguardo, ma evidentemente al nostro eroe era sfuggita la notizia. Sulle sdraio alcune signore prendevano il sole in bikini chiacchierando ai loro telefonini satellitari, mentre sulla sabbia dorata da riporto giocavano i bambini. C’erano alcuni ragazzi più grandi che si divertivano a lanciare pietre e venivano blandamente ripresi dalle loro madri. Uno di questi si avvicinò a Leonhard chiamandolo.
“Giacomo, lascia in pace il signore” gridò da lontano una giovane e bella signora, ma Giacomo non le diede retta e strattonandolo per un braccio iniziò a parlargli.
“Mi scusi signore” gli chiese il ragazzo, “lei è venuto su dalla parete nord, vero?”
“Certo” rispose Leonhard inorgoglito, “ho appena terminato di scalarla.”
“Anche noi l’abbiamo scalata questa mattina con la guida alpina” replicò quello, “non è poi così difficile come sembra, vero?”
Leonhard non seppe cosa rispondere e si limitò a guardarlo con uno sguardo ostile e triste al tempo stesso.
“La guida ci ha spiegato che una volta aveva tutt’altra considerazione. Oggi è divenuta una classica. Quasi per principianti.” Seguitò imperterrito il ragazzo con tono sempre più saccente, “io non ho avuto alcun problema. L’unica cosa che mi dispiace è di avere perso la conchiglia, era una delle più belle della mia collezione.”
“Ah…” fece Leonhard, ma più di ah non riuscì a pronunciare.
“Senta signore” continuò il ragazzo, “non è che per caso ha trovato una conchiglia durante il tragitto?”
Leonhard senza rispondere si chinò sullo zaino, tirò fuori l’involucro che conteneva la conchiglia e con calma lo scartò. Mentre gliela porgeva avrebbe voluto chiedergli di non lanciare mai più pietre, ma non fece in tempo. Il ragazzo afferrò subito la conchiglia e, senza nemmeno ringraziare, se ne andò via tutto contento.
Una volta rialzatosi Leonhard sentì per la prima volta nella giornata di essere stanco, e non era quella stanchezza dovuta alla fatica dell’arrampicata, bensì a un profondo senso di delusione. Si trascinò fino a uno dei pochi sdrai rimasti liberi.
“Mantenere il contatto con la realtà!” Mormorò tra sé con un risolino amaro lasciandosi cadere sullo sdraio. Si guardò attorno con un’espressione vacua negli occhi tentando di non far caso ai trilli dei telefonini e agli strilli dei bambini. Si tastò la ferita sullo zigomo verificando che non aveva nulla di grave, dopo averla lavata con un po’ d’acqua e asciugata applicò un semplice cerotto.
Aveva appena socchiuso gli occhi quando un uomo gli si avvicinò in silenzio.
“Mi perdoni signore.” Gli disse questi quasi sussurrandogli a un orecchio.
“Sì?” Rispose Leonhard aprendo un occhio solo.
“Per l’affitto dello sdraio” riprese a dire l’uomo con un tono di voce molto garbato, “sono dieci euro.”

[1] Giacomo Noventa, Par vardàr; Versi e Poesie; (Mondadori editore).
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