La cassetta di zinco - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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La cassetta di zinco

Tutte le edizioni > Edizione18
ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XVIII EDIZIONE - Arcade, 5 gennaio 2013
Segnalato

La cassetta di zinco

di Enrico Brambilla - Almenno San Bartolomeo (BG)



Il profilo delle Salish Mountains tagliava netto il finestrone, un azzurrissimo cielo sospeso nel telaio alto, in basso il candore dell'ultima nevicata che pareva dover tracimare come una valanga da un momento all'altro nel salone. Una luce bianchissima inondava il pavimento, una luce fredda come la neve che si spingeva fino alla montata dell'ampia scala che portava al piano rialzato.
Allungata sugli scalini, il gomito che cominciava a dolere così pesantemente gravato dal fianco che sosteneva, la donna leggeva e rileggeva quella lettera giuntale da una terra lontana che era stata la terra dei suoi anni giovanili ma che ormai aveva quasi del tutto dimenticata di pari passo con la dolce sonorità della lingua nativa. E stupiva, tuttavia, l'italoamericana Libby Passaro Holten del come, mentalmente leggendo, ancora riuscisse a comprendere il senso di quella richiesta di aiuto che una lontana parente dai tratti ormai svaniti nella memoria, ed era una richiesta che si rinnovava puntuale di anno in anno, le faceva pervenire lamentando una povertà endemica sebbene la guerra, laggiù in Italy, fosse finita ormai da tempo.
La signora Libby sospirò levando uno sguardo spazientito all'alto, stropicciò il foglietto che aveva tra le dita e, pur esecrando la petulanza di quei consanguinei italiani, non volendo apparire una donna " heartlessly" s'apprestò a soddisfare la bisogna, la sua dispensa ben fornita d'ogni ben di Dio.
Presto ammucchiati sul tavolo di cucina, s'impilarono come incastri d'un domino barattoli di spamfritters, scatolette di pork in gelatina, cartonati di powdered milk and egg, una profusione di boccacci di marmelade multicolori ed altri generi alimentari che già da qualche mese avevano superato la data di scadenza.
Contemplando il fastello la signora Passaro fece spallucce e borbottò: " Roba scaduta?!... Non avranno l'ardire di fare gli schizzinosi quegli..." ...quegli italiani che certamente fino ad allora s'erano ben adattati alle gallette muffite dell'U.N.N.R.A.
Ed ora, s'era appena preparata con gesti svelti un Martini, la signora Passaro pensava concentrata dove potesse reperire un contenitore per tutta quella roba che aveva intenzione di spedire. Pensò e cadutogli lo sguardo sulla lama di luce che discesa dagli scalini s'era spostata sul fondo della parete, parve d'improvviso soddisfatta con quell' "Ah!...” che fece seguire al primo sorso di liquore.
Lisciò i bordi della cassetta estratta dal polveroso sottoscala, l'italoamericana Libby Passaro sostò con i polpastrelli carezzosi sulla minuscola rosa selvatica incisa dal figlio sull'angolo alto a destra del contenitore, fece poi scattare il fermo e sollevò piano il coperchio, in memoria quasi come un ritornello ossessivo quella frase del figlio pronunciata come estremo saluto prima della sua partenza:
"Dovessi mancarti troppo, ti basterà aprire questa scatola per ritrovarmi... Se non proprio me, almeno le cose che mi sono appartenute...”.
Innanzi agli occhi e tra le mani che rovistavano tremanti si schiusero gli anni passati, fremerono d'un breve palpito di vita le cose che il giovane Robert aveva alla rinfusa ammucchiate lì dentro, ciarpame, cose rotte, inutili ma che erano servite al ragazzo quale viatico d'una gioventù spensierata.
Le mitene sfilacciate, uno scarpone chiodato, il mucchietto di figurine di scalatori famosi, Paul  Preuss detto “il cavaliere solitario”, Hans Duffer, George Leigh Mallory, tenuto assieme da un elastico ingiallito, le ghette sbrindellate, il maglione rosso preferito che le tarme avevano liso, tutte quelle cose insomma che testimoniavano un tempo d'intensa gioventù stavano ancora lì nella cassetta di zinco, malamente avvolte nel grande foglio giallo di carta oleata.
Uno strillo venne dal fuori e la signora Libby sussultò, l'inganno della voce del figlio ragazzo risuonata in giardino come un tempo quel saluto, “Hey, mom!...”, che Robert le mandava prima di varcare la soglia di casa tornando da una delle sue escursioni in montagna. Lo stesso “Hey, mom!…”  che con incosciente baldanza ancora Robert le aveva indirizzato nell'ultimo saluto mentre, prima d'infilare definitivamente la porta, s'infilava nella tasca sul petto della giubba il piccolo libro preferito, l'opera di Henry Thoreau “Walden, ovvero la vita nei boschi”, tra le cui pagine aveva infilato ad appassire il bocciolo di rosa selvatica trovato lassù in una cengia del Salish. Passò una mano sulla fronte, strizzò gli occhi, li riaprì, la signora Libby riprese a rovistare nella cassetta di zinco...
Brillò un barbaglio riflesso nel grande piatto d'argento che reggeva mele di marmo. Per così tanto sole pareva liquido il fuori, il paesaggio che in primavera inoltrata si sfaldava in una mousse di neve, i ghiaccioli ai cornicioni delle case che stillavano un concerto di gocciole argentine, la parte di lago ghiacciato nel fiordo delle Purcell Mountains che si rompeva in pietre di ghiaccio come il pugno di cubetti di rocks buttato nello shaker del corroborante Martini secco quotidiano.
Gifford, nel cristallo della coppetta del cocktail che lady Libby levava alle labbra, diluiva le sue case di legno sepolte dalla neve che imbiancava tutto il fianco della montagna. Ad ogni sorsetto la donna vedeva in una condensa albugina la farm degli Huntington crollare sbilenca, appoggiarsi su un fianco ed affondare senza rumore come una biblica arca nell'acqua alcoolica del lago contenuto tutto in quella coppetta di Martini. Sorsetti lievi e la sfiorita Gisele, figlia degli Huntington, c'era stato forse del tenero al tempo tra lei e il suo Robert, là fuori si faceva strada a fatica nel camminamento di neve avanti casa aggallando d'improvviso col giallo intenso del suo montone di Bighorne Sheep proprio nel centro del Martini saporoso.
Bevve, trangugiò d'un fiato un sorso lungo di cocktail, la signora Libby quasi gustò in punta di lingua il riflesso di Gisele che in quel momento spariva trespolando sui mombut al fondo della staccionata.
Da lì, dopo l'ampia curva che montava aggredendo il pianoro del villaggio, passava la Lake Kookanusa, la grande strada che portava alla diga di Dam avvolgendo le Salish Mountains. Poi si faceva ampia d'un asfalto scuro che pareva granito, la grande carrozzabile si spingeva oltre il nord della British Columbia, si congiungeva alle grandi avenues del Montana e in un groviglio di sali scendi precipitava giù fino allontano capoluogo di Billings.
Billings, la città ...
Era stata quella l'ultima meta del suo Robert, comandato laggiù ad unirsi ai mille e mille ragazzi che dovevano partire per la guerra d'Europa inquadrati nella 101esima divisione paracadutisti alpini al comando del generale Maxwell Taylor.
Dal cielo fiorito di fiocchi di neve di Billings tutti quei ragazzi erano saliti in volo ad infiorare di paracadute il cielo spento di Eindhoven nella mattinata del 6 giugno 1944.
Altre mattinate di volo, poi, altri cieli navigati sopra terre di Francia, monti d'Italia dietro la linea Gustav, sopra contrade da liberare dall'oppressione del Tedesco, imprese di intrepidi paracadutisti di cui il suo ragazzo l'aveva tenuta al corrente con lettere stringate fino, e quel silenzio improvviso non le era stato di buon presagio, fino a giorni inquieti in cui del figlio più alcuna notizia le era pervenuta. Più niente, solo l'angosciante silenzio ...
Infine la signora Libby s'era giocoforza rassegnata cullando l'amara illusione che il suo Robert, volato così in alto, ormai erano trascorsi più di 12 anni, forse stesse ancora lassù tra le nubi, da qualche parte, volitando come un soffione di prato cullato dal vento ...
La signora Libby, sfregate le mani in faccia, smise di ricordare. Sospirò profondamente, ricacciò quel dolere del cuore che le bruciava in petto e, lo sguardo annebbiato, si preparò con gesti incerti un'altra generosa dose di cocktail. Svuotò quindi la cassetta di zinco, cacciò nel fondo d'un armadio quei resti di giochi del figlio bambino, riempì quasi con rabbia di prodotti alimentari il contenitore e, incollato sul lamierino l'indirizzo di quella lontana parente italiana, la signora Libby Passaro sigillò alla meglio il coperchio della cassetta che faticava a contenere tutta la merce inserita...

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Ogni notte lo stesso sogno, ogni notte tra le nebbie dell'inconscio si levavano da un cespuglio, da un arbusto di mirtilli, da un masso scheggiato dalle bombe quelle sagome pallide e spettrali di soldati che, a mani giunte, la pregavano d'intercedere per loro. Uno in particolare ricordava di quei ragazzi venuti a visitarla nella notte, un giovane dall'aria sana di montanaro che, porgendole un bocciolo di rosa selvatica, svaniva d'improvviso come risucchiato e velato da un immenso sudario candido a forma di paracadute.
La signora Lucia Apicella s'era destata di buon'ora quando la luce del sole non era ancora sorta e negli occhi, intanto che sorseggiava il caffè, riteneva ancora le immagini di quel sogno ricorrente che le angustiava l'animo.
Sorbiva il liquido bruno e bollente, surrogato di cicoria, e pian piano sorseggiando si destava del tutto la mente e pareva destarsi anche la memoria ovvero quelle immagini dei tempi andati, tempo di guerra, che s'erano impresse come sulla pellicola d'un film in bianco e nero sul fondo del suo animo di giovane donna.
Che poteva avere allora?... Una trentina d'anni, forse? ... Un'età che per lei era stata non l'età degli innamoramenti, ma l'età degli spaventi più cupi, gli anni in cui il silenzio della montagna era rotto dal crepitare di raffiche di mitra o dallo scoppio assordante di bombe.
Ne aveva visti di morti, ne aveva visti giovanotti in divisa straziati dall'esplosione d'una mina o dallo sconvolgimento d'una cannonata!... Quanti morti, quanti "figli ‘e mamma" caduti sulle pietre di monte Castello, sui sentieri di monte san Liberatore, nei macchioni intricati di monte Pertuso o sui monti del Demanio... E laggiù, come sospeso sulle chiome degli alberi che degradavano alle rive di agavi e mortelle, il mare... Un mare azzurrissimo come l'abside turchese della chiesa matrice, un mare che pareva l'immagine della pace ma che invece era fitto di navi grigie che sparavano all'alto certe bordate da fare tremare la terra... Un mare azzurrissimo e altrettanto azzurro un cielo di serafini, cherubini, angeli oranti ma che invece, ricordava, era gremito di paracadute, come in primavera certi campi che il vento marino sconvolgeva turbinandoli dei soffioni candidi delle cicorie selvatiche...
Ecco, quello era il sogno che la turbava ormai da molte notti, il sogno di quel ragazzo in paracadute che, atterrando a pochi metri da dove si trovava lei in quel tempo salita fin lassù in cerca di asparagi, non aveva ancora toccato il suolo che una mina assassina l'aveva smembrato esplodendo in un tuono d'inferno.
Era scappata a gambe levate Lucia Apicella, a rotta di collo giù per i camminamenti che svoltavano tra burroni e stormi di passeri levati d'improvviso in volo strepitando...
Strepitavano pure, e parevano in verità un nugolo di cornacchie luttuose, quei ragazzini che giorni addietro aveva sorpreso nella piazzetta di borgo Scacciaventi calciare sciamannati il povero teschio rotolato fin laggiù di chissà quale morto, chissà quale anima persa, chissà quale povero figlio ‘e mamma dimenticato da tutti.
Lucia Apicella non ci aveva pensato due volte e, menate due sberle a destra e sinistra, s'era messo nel grembiule il misero resto portandolo nella chiesetta di santa Maria della pietà alla compagnia di tanti altri morticini da lei stessa pietosamente composti in quel luogo, ben custoditi in lucenti cassette di zinco apprestate da compare Liuccio stagnaro. Le povere ossa, quindi, lavate, nettate e lucidate nella custodia sicura del lamierino e i documenti, ne trovava talora mamma Lucia tra quei poveri resti, carte d'identità, statini militari, fotografie, lettere, lisciati col palmo delle mani ben imbustati e pronti per essere consegnati alla Caserma dei Carabinieri.
Ma mo' compare Liuccio era morto per il male della pietra e la bottega chiusa e non c'era più altri che sapesse servirsi di arzinca e cesoie e... e... e il paracadutista morto era tornato ancora a chiedere, co’ quella faccia pulita di creatura, i suoi servizi. Poteva dire di no ad un giovanotto tanto bello che l'aveva implorata offrendole una rosa selvatica?...
Lucia Apicella allungò la mano sul tavolo, afferrò lo scatolotto del "Powdered milk" che la vicina di casa Carmela Passaro le aveva gentilmente regalato e, ricordando d'improvviso la cassetta di zinco che l'amica le aveva fatto vedere piena d'ogni ben di Dio venuto dall' America, sorrise e bofonchiò mentre sorseggiava l'ultime gocce di caffè aggiustate con una punta di cucchiaino di latte in polvere:
"Bello figli ‘e mamma, vedrai che pure a te te sistemo, bello mio...”

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La signora Libby Passaro Holten, italoamericana, neanche le dieci del mattino e già stava agitando lo shaker in cui, con quattro cubetti di ghiaccio, aveva versato una dose abbondante del suo liquore preferito. Preparò la coppetta di cristallo, infilò l'olivetta sullo stuzzicadenti, il ricciolo di scorza di limone senza l'amara albedo inanellato sul bordo del calice e infine versò il liquore con mano tremolante. Il trillo del telefono la sorprese che già poggiava le labbra sul bordo del vetro gelato.
- Hello?... Chi parla?... -
alzando la cornetta la signora Libby aveva parlato con tono irritato, il rito del cocktail mattutino disturbato da quella telefonata inattesa.
La voce dall'altra parte della cornetta poteva essere la voce d'un predicatore o d'un impiegato statale, voce bassa, tuttavia parole nette che si stampavano nell'udito della signora Libby con la gravezza di sillabe ben marcate, difficili da fraintendere. Il senso della comunicazione doveva essere ben grave se la donna, proseguendo nell'ascolto, mostrava d'improvviso lacrime agli occhi ed uno scoramento che, quasi debolezza del braccio, le faceva distaccare l'apparecchio dalla tempia fino a lasciarlo cadere con un rumore di bachelite rotta sul ripiano del tavolino.
S'era seduta la signora Libby, più che seduta lasciata cadere sulla poltrona troneggiante lì accanto. E di colpo un pianto dirotto tra le palme delle mani, un pianto che non riusciva a fermare dopo averlo trattenuto per più di dodici anni. Suo figlio Robert era infine tornato, crudamente disceso dall'alto di quel cielo in cui s'era così tanto illusa, la madre, stesse ancora volitando.
La signora Libby pianse fino all'indomani finché, salita in macchina, si recò guidando lentissima a Billings presso il locale Dipartimento di Polizia.
Era attesa e, firmate certe carte di cui non comprese del tutto la funzione, per scale, svolte, androni attraversati sotto lo sguardo serio e compassionevole di numerose persone, si trovò infine a varcare la soglia di quella che pareva una asettica cella mortuaria.
L'uomo in camice bianco le aveva posto una mano sul braccio e l'accompagnava dolcemente verso un ripiano su cui riluceva una cassetta di zinco che la signora Libby riconobbe subito con un tuffo al cuore.
Quella rosa stilizzata incisa sul bordo alto a destra del coperchio...
La voce dell'uomo le giungeva da distanze abissali, l'animo pervaso da un tumulto che le premeva dolorosamente al petto. Diceva il funzionario intanto che svoltolava un raso candido:
- Lo so, è doloroso, signora, ma è prassi... Prima di seppellire questo... questo... questo nostro figlio tornato dall'Italia, bisognerà che lo riconosca… - respirò profondamente, l'uomo aggiunse - Ecco... Sono effetti personali… Forse preferisce vedere prima questi, dei documenti, la piastrina, altro ancora... -
Seppure sporche di sangue rappreso e rovinate dall'incuria degli anni, la signora Libby riconobbe una sua foto ed una foto del figlio abbracciato ad una giovane Gisele sul pianoro d'una montagna, forse il Salish o forse una cima del Purcell. Riconobbe di seguito, e stupiva di non avere più lacrime da versare soprattutto pensando che quelle povere cose erano certamente state a lungo conservate dalla parte del cuore di Robert, un libretto che ben conosceva e che tra le pagine marcite mostrava quello che pareva un bocciolo sbriciolato di rosa selvatica infiorato di sangue scuro.
Chiese una sedia la signora Libby, ascoltò istupidita l'uomo che parlava del ritrovamento dei resti del figlio da qualche parte nel Sud d'Italia, resti che, tolti da quella provvisoria cassetta di zinco, sarebbero stati adeguatamente onorati e inumati non appena la prassi del riconoscimento si fosse perfezionata .
- Vuole... - l'uomo titubava, infine invitava comunque la donna ad un estrema ricognizione - Cara signora, vuole prendere contezza del contenuto della cassetta?... La preavviso, ci sono pochi resti, qualche vertebra... Suo figlio, purtroppo, fu dilaniato da una mina... E poi così tanti anni... Vuole, dunque?...-
­La donna levò lo sguardo, lo fissò negli occhi del funzionario, fece di "no" con la testa e di colpo crollò il mento sul petto in un pianto muto intanto che, e rifissava la cassetta di zinco, le antiche parole di Robert le tornavano in memoria: "Dovessi mancarti troppo ti basterà aprire questa scatola per ritrovarmi. Se non proprio me almeno le cose che mi sono appartenute...".
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