L'ultimo dei Cabur
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”XXII EDIZIONE - Treviso, 8 Gennaio 2017
Segnalato
L'ultimo dei cabùr
di Magagnin Mario - Cison di Valmarino (TV)
I miei ricordi di montagna, i miei ricordi di bambino, iniziano tutti dal Monte Cimone, che sovrasta imponente il paese dove sono nato e dove ho scelto di tornare dopo aver girato un po' di mondo. Dalla sua cima, nelle belle giornate limpide come torrenti, la vista si allarga senza incontrare ostacoli e abbraccia le valli e la pianura fino a raggiungere il riflesso luminoso della laguna di Venezia. Sono cresciuto tenendo dentro agli occhi la vastità di quel panorama che è diventato parte di me fin dalla primissima infanzia (o sono stato io a diventare parte di lui?).
Fin da quando ero un bambino passavo ogni estate a dare una mano ai miei nonni materni nella loro casera (a mio fratello, invece, toccavano i nonni paterni): ero un cabùr, uno dei piccoli aiutanti tuttofare che non appena finiva la scuola, a giugno, lasciavano il paese per salire fino alle casere che spuntavano come funghi sui crinali delle montagne.
Le giornate iniziavano presto, alle prime luci dell'alba. Orologi non ce n'erano, ma il tempo era scandito con ritmata precisione dall'esperienza dei vecchi e dall'infallibile istinto delle bestie. Di primo mattino era il canto del gallo che ci svegliava e il muggire delle vacche era un puntuale promemoria, che ci ricordava (come se davvero ce ne fosse stato bisogno) che gli animali avevano voglia di pascolo, voglia d'estate, fame dell'erba fresca ancora carica di rugiada. Le facevamo uscire dalla stalla e le portavamo al pascolo, dove io le sorvegliavo e le accudivo. In quelle ore di solitudine, accompagnato dal rumore del vento e dei campanacci delle mucche, incidevo rametti di nocciolo, o cercavo di costruire un fischietto col sambuco, o rimanevo semplicemente seduto ad ascoltare il bosco, mentre i miei pensieri di bambino correvano liberi come i cerbiatti che ogni tanto incontravo. Rimanevo sempre stupito della puntualità con cui, a fine giornata, le mucche si giravano e si incamminavano verso il sentiero di casa, per ritirarsi nelle stalle a riposare dopo la grande abbuffata. Le bestie le capiss tutt senza 'ndar a scola, mi diceva il nonno.
A fine mattinata, quando tirava l'aria del mezzodì, i falciatori, stanchi per il lungo lavoro e svuotati dalle lunghe cantate, appendevano il faldìn a un pino e tornavano alla casera, con l'acquolina in bocca. Come se quegli uomini fossero orologi, ogni giorno, al loro varcare la soglia, dal fondovalle
risuonavano i dodici rintocchi del mezzogiorno. La nostra casera era stata costruita dai nonni dei miei nonni con le pietre della stessa montagna in cui affondavano le sue fondamenta e con il legno degli stessi boschi da cui era circondata. Era piena di fessure e feritoie e noi bambini ci divertivamo a sbirciare il mondo di fuori dai piccoli buchi tra una pietra e l'altra. Il pavimento era in terra battuta, e le finestre che davano sul lato nord erano piccolissime, in modo da non far entrare l'aria fredda che spirava dritta dalle montagne in qualunque mese dell'anno. La porta di legno non aveva serrature, che sarebbero state un'inutile precauzione per difendersi da ladri inesistenti. La polenta, cotta lentamente nella cagliera di rame che oscillava sulle fiamme del camino, a mezzogiorno era già pronta e adagiata sul grande tagliere rotondo che veniva posto in centro alla tavola. Ah, la polenta, la polenta!
Quanta ne ho mangiata durante la mia infanzia! Era il nostro cibo quotidiano, preparata da mani sapienti abituate a lavorare. Si desinava con quella e con un pezzettino di formaggio o, più raramente, con un po' di pollo o con qualche lumaca cucinata in un invitante sughetto. È incredibile pensare oggi a questo mangiare spartano ma ricco di gusti decisi, oggi che tutte le cucine sono dotate di forni, forni a microonde, fornelli a infrarossi, oggi che furgoni colorati servono a domicilio cibi già pronti, surgelati di ogni genere, frutta e verdura importata dall'altro capo del mondo, tutte le stagioni in ogni stagione.
Nei miei ricordi genuini di ragazzino, i malgari della valle venivano spesso a trovarci la sera. Dovevano avere tutti una cinquantina d'anni, ma io li ricordo vecchi, stanchi, provati e piegati su se stessi. Per ore si stava attorno al fuoco, si discuteva del bestiame, dell'umidità e del taglio del legname, delle fatiche del lavoro e dei ritmi del bosco. E poi, quasi ogni volta, come una diga che continua a rompersi e non si può riparare, si rovesciava attorno al fuoco la cascata dei racconti delle guerre, della prima, la più lontana, la più terribile in quelle zone, e poi la seconda, finita da pochi anni, che da quelle parti aveva mietuto vittime in particolar modo nella fase finale della liberazione. Si riaprivano le ferite per i cari partiti e mai più ritornati e, nonostante il ricordo delle battaglie al fronte, della fame, della disperazione fosse ancora carico di sofferenza (come guarire da certe fratture?), quegli uomini, quelle donne, i muri stessi delle casere, continuavano a raccontarli, a parlarne, a descriverli.
Quasi come se ripetendoli mille e poi mille altre volte quel dolore sordo potesse lenirsi, potesse guarire.
Ricordo che a volte, durante il giorno, mi capitava di passare davanti alla porta della casera e vedere mia nonna, buon'anima, piegata a girare la polenta, o intenta a cagliare il latte, e girava il mestolo, e pregava, e parlava, e piangeva. Pregava per i morti della prima guerra, suo fratello Giuseppe, caduto sul Grappa, suo cognato Lorenzo, ucciso dopo soli dieci giorni dalla partenza da casa. Poi pregava per mio nonno paterno Andrea, decorato da medaglie mai tanto gradite quanto l'essere ritornato a casa sano e salvo.
Pregava per i morti della seconda guerra, come lo zio Mario, falciato da una scarica di mitragliatrice mentre dalla sorgente trasportava col bigò/ i secchi riempiti d'acqua da portare alle mucche. Pregava per la pace dei morti e per la salute dei vivi. Se si accorgeva che ero lì mi faceva entrare e si asciugava il viso col grembiule, mi faceva sedere accanto a lei e mi metteva in mano la pigna per fare il burro. Ci mettevamo a lavorare fianco a fianco e intanto lei raccontava di tutti i momenti più duri della sua vita, dell'invasione, dei rastrellamenti, della fame, dei pidocchi, delle umiliazioni. E mentre raccontava ricominciava a piangere e a pregare, e parlava, e pregava, e piangeva...
Gli stessi racconti erano ripresi dal nonno quando, a metà mattina, andavo al prato dei falciatori, dove cantavano tutti, mentre il rumore del faldìn che si abbatteva sull'erba dava il ritmo cadenzato. Tutti noi bambini e le donne avevamo il compito di rastrellare e girare il fieno appena tagliato perché si seccasse più velocemente e tutti ci univamo a quel canto, e da ogni prato, da ogni malga, a noi si univano cori di altre persone, cosicché sembrava che a cantare fosse la montagna intera, insieme ai suoi uccelli, alle fronde dei suoi boschi, al ronzio delle api che volavano su fiori di mille colori diversi.
Dal prato si vedeva nettamente la gola del San Boldo con le cinque gallerie di quella che oggi é denominata Strada dei Cento Giorni, che fu costruita in poco più di tre mesi, al finire della Grande Guerra e sotto la supervisione dell'austriaco Colonnello Waldmann, dai soldati ma soprattutto dai prigionieri, dalle donne e dai bambini del posto. Il nonno ed io ci sedevamo uno accanto all'altra e lui iniziava a frugare in tasche e taschini fino a tirar fuori dal gilet un mozzicone di toscano. Quelle brevi pause erano le uniche che si concedeva, se si tralasciano quelle necessarie ad affilare il faldìn che perdeva il filo in fretta, grattando su quella terra aspra, magra e sassosa. Dopo una lunga e goduta tirata del suo sigaro lasciava uscire il fumo in un unico sbuffo che gli nascondeva, per un attimo, tutta la faccia e tornava, con la voce bassa, roca come una frana, ai momenti che più l'avevano segnato, i più indelebili, i più dolorosi, i più vividi. La morte di un amico, il conforto di un cappellano sotto le cannonate, al fronte. Ero ancora un bambino, ma stavo crescendo con dentro agli occhi le immagini terribili delle guerre raccontate dai miei nonni, che si fondevano con la purezza dell'aria che si respirava, e l'onestà di tutti quegli uomini così burberi, e col cuore così grande.
Fino agli anni Settanta, sulla cime del monte, c'era una base militare aericana. Due volte a settimana un elicottero portava le provviste per i soldati, che vivevano lì stabilmente in una decina. Ricordo che, tutte le volte, le mucche al pascolo fuggivano terrorizzate dal rumore assordante del motore
e i miei tentativi di calmarle erano più che vani, anche perché la mia stessa voce veniva coperta da quel frastuono. I militari in divisa uscivano dalla base e ricordo bene la prima volta in cui ho visto una mano nera come l'ebano tesa verso di me, e un uomo altrettanto nero che, sorridendo, mi invitava ad avvicinarmi. Non avevo idea di cosa fare, ma questo signore mi stava tendendo della cioccolata, accostandosi a me lentamente, come si fa con un cucciolo impaurito, o con un gatto randagio. Spezzò un quadrettino dalla stecca che finalmente ebbi il coraggio di prendere dalle sue mani. Dopo averlo mangiato, mentre lui mi guardava con il solito bianchissimo sorriso, gli diedi fiducia e, aggrappato a quelle dita nere, mi lasciai guidare fin dentro alla base. Solo uno dei soldati parlava qualche parola di italiano, gli altri mi avvolgevano nelle loro frasi a me incomprensibili, ma capivo dal tono che avevano che gli ero simpatico. In pochi giorni diventai la loro mascotte, piccolo cabùr da tenersi sulle ginocchia e da riempire di dolcetti, o di carezze sulla testa: good boy.
Ogni pomeriggio, verso sera, quando sentivo lo strombazzare della corriera che arrivava dal fondo valle, raccattavo in fretta e furia la sporta preparata dalla nonna (e anche da lei costruita, nelle lunghe sere d'inverno, con le fojole di granturco), che conteneva le poche cose che producevamo nella casera (uova, burro, ricotta, qualche piccola forma di formaggio), e mi fiondavo giù di corsa per i ripidi sentieri che sapevo a menadito, per andare a venderle, o a barattarle (cori ti, boccia, che tu ha le gambe bone, e sta poco a andar e manco a tornar!). In quei tempi il San Baldo era pieno di veneziani e di trevigiani in villeggiatura, che ormai da anni venivano lì a passare le vacanze, e io avevo i miei clienti affezionati che, quasi quotidianamente, compravano i miei prodotti. Quello che rimaneva invenduto lo portavo in uno dei due generi alimentari che esistevano lassù e li barattavo in cambio di un po' d'olio, di sale, di caglio o fiammiferi, o toscani per il nonno. Ricordo distintamente che una sera il vecchio casolino, Oreste, evidentemente di buon umore, scoppiò in una fragorosa risata e mi disse: Ma voialtri, lassù, mangnè sol che sal e toscani?
Ormai gli anni sono passati (tanti, tanti anni... ) e un po' alla volta i vecchi sono morti, i giovani sono cresciuti, molti se ne sono andati. I prati da sfalcio che per tanto tempo hanno cantato con gli uomini si sono inselvatichiti, il bosco si è ripreso gran parte dei crinali, le malghe sono cadute, lasciate all'incuria, i sentieri si sono persi, le sorgenti sono state inghiottite dai rovi. La montagna ora è popolata da escursionisti, da camminatori, da cercatori di funghi. Al posto delle zòcole hanno scarpe da trekking e al posto del tipico bastone da pastore hanno racchette da nordic-walking. AI posto delle stelle hanno navigatori satellitari, al posto dei rintocchi delle campane hanno orologi sofisticatissimi, che segnano l'ora, l'altitudine, l'umidità nell'aria, e contano i passi e le calorie che vengono bruciate. So bene, ora che i miei capelli sono tutti bianchi, ora che ho preso il posto dei miei nonni nel raccontare le storie del mio passato, di quella vita che appare così distante da ora, di quel mondo che sembra sparire, so bene che finché queste storie rimarranno nella mia voce, e ci sarà qualcuno che avrà voglia di capirle, sarà come non morire mai.
Né io, né i miei nonni, né i prati, o le casere, o quel profumo di burro appena fatto. Nel racconto c'è l'immortalità. Prego che per sempre ci sia qualcuno capace di ascoltare.