Invisibile - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


Vai ai contenuti

Invisibile

Tutte le edizioni > Edizione26
ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XXVI EDIZIONE - Arcade, 13 Giugno 2021
Secondo classificato

Invisibile

di Katia TormenTrichiana Val Belluna (BL)
 



 
         
“Papà, adesso ti metto i calzini puliti, ok?”
Mi guarda, ma non dice nulla. Se ne sta seduto sul bordo del letto, la schiena curva, le mani che affondano nel materasso. Gli sollevo un piede, me lo appoggio sul ginocchio e comincio ad infilargli la calza sanitaria che scivola sulla gamba ossuta, bianca, priva di peli. Faccio lo stesso con l’altra gamba e lo sguardo non può fare a meno di soffermarsi su quel rigonfiamento carnoso a livello della rotula.
Se glielo chiedessi ora, di dirmi come si è procurato quella cicatrice, probabilmente la guarderebbe stupito, come se la vedesse per la prima volta mentre, in realtà, è sua compagna fedele praticamente da sempre.
Ma glielo chiesi già tanti anni fa, ai tempi in cui lui era il mio eroe e io la sua principessa e quel ricordo mi ritorna vivido in mente proprio ora.
“Papà! Papà! Ti ho battuto, sono arrivata in cima prima di te!”
Col fiatone, tenendomi con una mano alla croce di ferro, aspettai che mio padre mi raggiungesse dopo avermi lasciato la soddisfazione della conquista della vetta. Lui era arrivato lassù già decine di volte, ma questo lo seppi solo molto tempo dopo. Quel giorno fece credere alla sua bambina di otto anni di essere più brava di lui.
“Accidenti! Diventerai una grande alpinista un giorno!”
Risi.
“Non voglio fare l’alpinista!”
“Ah no? E cosa vuoi fare?”
“La fioraia.”
“Ma dai! La fioraia? Allora la prossima volta ti porto in un posto dove ci sono un sacco di stelle alpine! Cosa dici, mangiamo ora? Ho preso un pezzo del tuo formaggio preferito…”
Ci sedemmo su un grosso masso bianco che spiccava sull’erba bruciata dal sole e mio padre si tolse dalle spalle lo zaino e lo appoggiò tra noi. Ne estrasse un sacchetto di carta marrone che conteneva il pane e un cartoccio in cui aveva richiuso un generoso pezzo di formaggio stagionato. Lo osservai tagliare a metà le due rosette col coltellino a serramanico che si portava sempre dietro e deporvi le fette di formaggio dopo averle private della scorza che lanciava ai corvi di passaggio.
Portava sempre i pantaloni lunghi, sia sul lavoro sia a casa, ma quel giorno faceva talmente caldo che, cosa più unica che rara, si era messo un paio di calzoncini che gli arrivavano a metà coscia. Durante la salita lo avevo più volte preso bonariamente in giro per il pallore delle sue gambe, ma solo ora che era seduto vicino a me notai quel pezzo di pelle più scura all’altezza del ginocchio destro.
“Che cos’è quello, papà?”
Indicai col dito, temendo che toccandolo avrei potuto fargli male.
Lui guardò verso cosa puntava il mio indice.
“Questo?”
Sfiorò il rigonfiamento col pollice e fece un sorriso strano, quasi una smorfia.
“È una storia lunga, lunga e vecchia.”
“Finisce male?”
Rise, stavolta di cuore.
“No, no, finisce bene! È una storia di quelle a lieto fine che piacciono tanto a voi ragazze… Dai, mangia il tuo panino e poi te la racconto”.
Io il mio panino lo finii in tre bocconi, tanta era la curiosità, ma dovetti attendere che mio padre finisse il suo, che bevesse il caffè dal thermos che si era portato appresso e che mi elencasse, facendomeli ripetere, i nomi di tutte le montagne e i paesi che si vedevano da lassù. Poi si sdraiò sull’erba, la schiena appoggiata al masso su cui prima era seduto, mi chiamò di fianco a sé e cominciò a raccontare. Era un abile affabulatore e io adoravo stare a sentire le sue storie.
«Io non mi ricordavo di lui. Era partito che avevo da poco compiuto i due anni e per me mio padre era una figura mitologica, un volto che avevo visto solo nella foto incorniciata che mia madre si stringeva al petto ogni sera. Nella grande casa colonica in cui abitavo allora erano le donne che mandavano avanti tutto: i maschi rimasti erano troppo vecchi o troppo giovani visto che quelli in età da lavoro erano tutti al fronte. Nessuno di noi cugini aveva un padre presente. Era una vita dura per tua nonna Maria e le sue cognate, di lavoro da fare ce n’era in abbondanza: c’erano gli animali nella stalla, i campi e gli orti, i bambini piccoli da accudire, i vecchi da curare e come se non bastasse riuscire a mettere in tavola due pasti al giorno era davvero difficile. La guerra aveva portato via tutte le forze, in senso stretto e in senso lato e ad un certo punto si era presa pure le speranze: da due anni mia madre non riceveva più una lettera del marito e per sua suocera, mia nonna Eufemia, si trattava del secondo disperso in famiglia, visto che anche mio zio Pietro, il più giovane dei quattro figli, partito per la Russia, da molto tempo non dava più notizie di sé. Non ricordo molto di quel periodo che è coinciso coi miei primi anni di vita, a parte la fame. Ero un bambino, il più piccolo dei cugini; molte cose non le capivo e molte altre non me le spiegavano.
Mia mamma stabilì ad un certo punto che tuo nonno Erminio non sarebbe mai più tornato e cominciò a vestirsi di nero, il colore del lutto, cosa che la faceva sembrare una vecchia nonostante non avesse nemmeno trent’anni. Puoi quindi immaginarti il suo stupore il giorno in cui seppe che invece suo marito era vivo e, cosa ancora più incredibile, stava ritornando a casa.
Fu Roberto, il figlio della Ninetta la sarta che arrivò strillando in mezzo al cortile spaventando anatre, galline e pure Asso, il vecchio cane da caccia mio fedele compagno di avventure.
“Maria! Maria! C’è l’Erminio giù al ponte di barche!”
Lei, che se ne stava da sola fuori della stalla sgranando fagioli, si alzò di scatto dalla panca addossata al muro rovesciando per terra i legumi che si sparpagliarono sull’aia con somma gioia delle anatre.
“Roberto, sei sicuro? Lo hai visto tu? Te lo ha detto qualcuno?”
Mio cugino Mario, sedicenne, era corso da lui e lo aveva preso per le braccia scrollandolo vigorosamente.
“Prega Dio che sia vero perché se stai dando a mia zia e ai miei cugini una falsa speranza, giuro che ti pesto!”
“No, è vero! Giuro!” – e così dicendo si fece il segno della croce. – “L’ho visto coi miei occhi, glielo ho pure chiesto se era davvero lui e poi sono corso qui a dirvelo!”
Mia mamma prese me e mia sorella Clara, di due anni più grande, per mano e a passo svelto attraversò l’aia, oltrepassò l’arco in pietra che apriva un varco nel muraglione che circondava la colonìa e ci trascinò fino in fondo al prato da dove si poteva avere un’ampia visuale sulla strada che saliva.
Il ponte di barche di cui parlava Roberto era andato a sostituire quello fatto saltare dai tedeschi durante la ritirata e metteva in comunicazione il paese in cui abitavamo con quello dove c’era la stazione del treno più vicina. Non si vedeva da lì, nascosto dalle fronde degli alberi, ma si poteva distinguere la strada che entrava in paese e su di essa un gruppetto di persone che camminavano lentamente.
Senza rendersene conto, tua nonna mi strinse la mano talmente forte da farmi scendere le lacrime, ma non ebbi il coraggio di dirle nulla. Non capivo perché non gli andavamo incontro al mio papà, io avrei voluto correre fino in paese, ma non sapevo chi dovevo cercare, quale viso osservare.
Appena mamma mollò la presa mi avvicinai a Clara.
“Ma tu se lo vedi lo riconosci papà?” – le chiesi sussurrandole la domanda in un orecchio. Lei scosse la testa. Vidi che si stava mordendo il labbro e che tremava.
Dietro di noi si era radunato tutto il resto della famiglia, a debita distanza, ma nessuno osava né parlare né muoversi. Non so quanto a lungo restammo tutti così, immobili, in un tempo sospeso, senza sapere chi dovevamo aspettare e se qualcuno sarebbe arrivato. Poi in fondo alla strada comparve una persona.
Veniva avanti lentamente, curva, con una sacca sulle spalle e più si avvicinava più risaltava la sua assoluta magrezza sotto una divisa lacera e sporca.
“È papà? “– domandai trepidante a mia madre che si era portata le mani alla bocca.
Bastò un suo cenno. Cominciai a correre lungo la strada di ghiaia con le mie scarpe troppo grandi e i calzoncini troppo corti. Correvo e gridavo: “Papà! Papà!”
Non so quale sentimento mi spingesse, ma ad ogni passo sentivo che il mondo intorno a me cambiava, che un vuoto si riempiva, che d’ora in avanti tutto sarebbe andato bene e questo bastava a farmi amare quel perfetto sconosciuto che tra poco avrei incontrato.
Avrei voluto volare da lui e ad un certo punto mi trovai a volare sul serio! Inciampai malamente su un sasso più grosso degli altri e percorsi alcuni metri in aria prima di atterrare, mani e ginocchia, sulla ghiaia. Più ancora che per il male, le lacrime mi scesero copiose per la vergogna. Mi rialzai in fretta e furia incurante del sangue e dei sassi conficcati nella pelle e percorsi zoppicante e piangente gli ultimi metri che mi separavano da quell’ uomo che aveva accelerato il passo per venirmi in soccorso.
“Sei Tonio? Sei mio figlio? Oh Signore benedetto…”
Buttò per terra la sacca e mi prese in braccio, fregandosene del sangue che gli sporcava la divisa. Mi strinse fino a togliermi il fiato, poi scoppiò in lacrime e si inginocchiò in mezzo alla strada, sempre tenendomi stretto a sé.
Io non sapevo bene cosa fare perché era sì mio papà, ma era pure una persona che non conoscevo e così piangevo e me ne stavo con le braccia lungo i fianchi, la testa affondata nella sua spalla a respirare il suo odore che era un miscuglio di sudore, polvere e muschio.
Quando lui allentò la presa e mi lasciò andare, mi accorsi che intorno a noi si era radunata una folla. Mio padre si levò in piedi a fatica e allargò le braccia per accogliere a sé mia mamma e mia sorella.
Io mi tirai in disparte, e mi sedetti sul ciglio della strada in compagnia di Asso che non la smetteva di leccarmi la faccia. Solo dopo un bel po’ di tempo zia Marta si voltò nella mia direzione e portando le mani al cielo gridò: “Dio Santo, ma Tonio è pieno di sangue, l’e tut pestà su!”
Ci misero un po’ a togliermi dalla carne tutta la terra e i sassolini che vi si erano piantati, io non volevo farmi vedere debole dal mio papà e tentavo in tutti i modi di non piangere, ma quando mi disinfettarono le ferite con l’alcool credo che mi sentirono urlare fino in piazza.
Il taglio sul ginocchio avrebbe avuto bisogno di qualche punto, ma a quei tempi non si andava tanto per il sottile. Fece infezione, mi salì un febbrone da cavallo ma in qualche modo me la cavai, e a ricordo della vicenda, mi rimase questa cicatrice. Quando ero un giovanotto e andavo a morose, raccontavo alle ragazze che me l’ero procurata in qualche modo eroico perché mi vergognavo a dire la verità. A te però la verità l’ho detta, anche se ti metti a ridere non me la prendo e non ho bisogno di conquistarti perché tu sei già la mia principessa!»
Così dicendo mi aveva presa e sollevata in aria facendomi ridere a crepapelle. Più tardi mentre scendevamo verso casa, gli chiesi se potevo chiedere al nonno di quella storia.
“Prova, lo sai com’ fatto…”
Sapevo che nonno Erminio era stato in guerra, ma era un argomento di cui non parlava volentieri, anzi, se io mio fratello provavamo a fargli qualche domanda, le domande ingenue che fanno i bambini, lui glissava con qualche battuta. Teneva il suo cappello da alpino in fondo all’armadio in camera e non lo usava mai, ma se lo prendevamo per giocare si arrabbiava moltissimo.
Andai da lui non appena fummo a casa e contrariamente ad ogni previsione, il nonno aveva confermato la storia nei minimi dettagli, addirittura arricchendola di particolari che nemmeno mio padre si ricordava. Disse di avere ancora davanti agli occhi quel bimbetto biondo che gli correva incontro e che lui, sulle prime, non aveva riconosciuto e che ad un certo punto era decollato come un aereo.
Mio padre aveva detto di non aver proferito verbo, stretto tra le braccia di quel soldato, invece il nonno mi confidò che una frase l’aveva detta, una sola: “Promettimi che non te ne andrai più via!”
Aggiusto il calzino sul polpaccio.
“Michela!”
Alzo gli occhi.
Lui mi sta sorridendo.
“Michela, te la ricordi la storia di questo segno sul ginocchio? Quando eri piccola mi chiedevi sempre di raccontartela.”
“Si, è vero papà. Ci feci anche un tema a scuola che la maestra lesse a tutta la classe!”
“Come stanno i miei nipotini?”
“Stanno bene, ti salutano tanto.”
“Avrei tanta voglia di rivederli…”
“Sono passati domenica, non ricordi?”
Scuote la testa, vedo che gli si inumidiscono gli occhi.
Mi alzo ad abbracciarlo. Da quanto tempo era che i nostri mondi non si incrociavano?
Alla fine, ho dovuto pure io fare i conti con l’assenza di un padre, anche se il mio ogni tanto, ma per pochissimo tempo, ritorna.
“Papà?”
“Sì, che c’è?”
“Promettimi che non te ne andrai più via.”
Ma quando mi scosto da lui mi accorgo che non c’è già più.
I suoi ritorni durano sempre meno ed ogni volta anche per me a ricordo resta una cicatrice.
Invisibile, sul cuore.
Torna ai contenuti