Il giorno sbagliato
Tutte le edizioni > Edizione21
ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”XXI EDIZIONE - Arcade, 5 Gennaio 2016
Premio speciale
"Rosa d'Argento Alpino Carlo Tognarelli"
Il giorno sbagliato
di Anna Rossetto - Frascada di Preganziol (TV)
La gente di montagna somiglia molto alle proprie case. Arroccate su terreni scoscesi
e impervi, un po' imbronciate, talvolta malridotte ma solide come la roccia su cui posano.
I tetti spioventi, i balconi d'inverno quasi sempre chiusi, per difendersi dal freddo
e dalle intemperie.
Chi vive sui monti è un po' così, scontroso, a volte diffidente e taciturno.
Ma quando arriva l'estate, i davanzali sono fioriti, l'aria è fresca e la gente di montagna apre il suo cuore al calore dell'amicizia, allo splendore della convivialità.
Se arrivano a conoscerti e a capire che non sei solo un curioso turista domenicale, che apprezzi e rispetti il loro mondo e le loro abitudini, allora per te sarà sempre estate, anche a dicembre, sotto una spessa coltre di neve.
Mi sono rifugiata qui, tra le montagne, dopo tanti anni di fama e successo. In un certo periodo della mia vita non ero più Daniela Quirini. Ero molto più semplicemente la soprano. Per eccellenza. La sola. L' unica.
La più amata, la più richiesta, la più adulata e desiderata da produttori, direttori d'orchestra e registi. Dicevano che nessuno come me sapeva esprimere con la voce lo struggersi delle protagoniste delle opere più famose. Che fossi Tosca che si rivolgeva al Signore , o che inneggiassi alla luna chiamandola Casta Diva. Che fossi Violetta della Traviata o anche Madama Butterfly era sempre la stessa emozione.
Quando cantavo a detta di tutti scendevano molte lacrime, quasi erogassi pena e compassione che si diffondevano nell'aria durante i miei potenti assoli e virtuosismi.
L'assoluta riconosciuta bravura ha comunque un suo prezzo. Chiunque mi stesse intorno, soprattutto gli uomini ma anche alcuni miei familiari, mirava esclusivamente ai miei soldi e alla notorietà riflessa. Quando riuscivo a capirlo, ed essendo un'anima abbastanza credulona e ingenua mi ci voleva un po', tagliavo immediatamente i ponti con le sanguisughe.
Per questo motivo negli anni mi sono giocata un paio di storie d'amore che promettevano, bugiarde, di essere serie e per tutta la vita. Con le stesse mi sono giocata, perdendo, anche il jolly cioè la possibilità di essere madre. Ho inseguito la carriera. Una corsa affannata e distratta, con una valigia in mano piena di possibilità.
Alcune le ho sfruttate appieno, altre le ho perse per sempre, fuoriuscite dalla valigia ormai logora, seminate per strada, germogli di sogni mai avverati.
I maligni e gli invidiosi dissero che avevo trovato il sistema di interpretare la mia opera anche in quell'occasione. Al funerale di mia madre fui colpita da un grave quanto inaspettato malore.
Si sbagliavano.
Di grosso.
Il medico mi disse che il mio cuore non era più in grado di sopportare stress e
adrenalina allo stato puro. Pensai fosse finita. Già mi vedevo a fare qualche comparsata nei talent, o nei giochi a premi per beneficenza, la mia voce sarebbe risuonata solo dai cd. Un lungo periodo di riposo, questo mi fu prescritto, oltre che a quattro o cinque pillole che scandivano i vari momenti della giornata.
Fu in quel momento che mi venne l'idea. Per un momento la prospettiva di cambiare vita mi sorrise e la decisione fu rapida, istantanea e risoluta come il malore che mi stravolse l'esistenza.
Percorro la galleria, da sola, in auto. Guidare all'interno di un tunnel mi crea un senso di panico e claustrofobia.
Appena fuori dal tubo di roccia, il mio sguardo si perde a destra. Come ogni volta, quando il tempo e la stagione lo permettono, metto la freccia, svolto e parcheggio.
Come ogni volta che torno da brevi uscite da questo paradiso, scendo, le scarpe basse, i pantaloni, una giacca per ripararmi da un'aria frizzante ma traditrice per la mia gola, scendo lungo sentieri di sassi e roccia appena accennati.
Sto attenta, no ho più vent'anni, il mezzo secolo è ormai andato. Mi accolgono decine di fili con tante banderuole colorate con dei nomi e delle date scritte sopra. Sventolano allegre, tutti i colori dell'arcobaleno, ma non c'è nulla di cui sorridere. Scorro i nomi,
alcuni li ricordo, altri li leggo di nuovo, mentre il mio cammino indugia sui sassi malfermi.
Arrivo ai piedi di una lapide di cemento alta oltre duecentocinquanta metri.
Ci poso sopra una mano, chiudo gli occhi, prego, mi immagino immersa nell'acqua, milioni di metri cubi d'acqua. Il cemento sotto la mia pelle non si muove. Non si mosse nemmeno allora. In quella notte fu qualcos'altro a muoversi.
Non appena fui in grado di capire le espressioni delle persone, ancor prima delle parole, mi chiedevo perché in molti abbassassero lo sguardo dopo avermi guardato sorridenti.
Bastavano due vocaboli pronunciati da mia madre per far assumere alle persone un atteggiamento triste e contrito. Avevo fatto qualcosa di male? Ero così brutta e cattiva da non essere adulata per oltre un minuto?
No.
Ero semplicemente nata in un giorno sbagliato. Si potrebbe pensare che non c'è mai un giorno sbagliato perché inizi una vita. E invece sì. Se in quel giorno ne vengono miseramente e inconcepibilmente sterminate quasi duemila è e resterà un giorno sbagliato.
Sono nata il 9 ottobre 1963 verso le ore 23:00.
E sono nata in Veneto. A due passi dalla tragedia. Ci penso ogni volta che tocco questa lapide, perché non è più una diga, un monumento all'ingegno umano, al progresso, all'avvenirismo. E' una lapide, una fredda pietra tombale, un monito alla vanità umana duro come il cemento di cui è fatta. Un pesante schiaffo alla scelleratezza, alla trascuratezza e alla cecità degli animi che ne permisero la costruzione.
Bastava dar retta al dialetto. Tociàr in veneto significa inzuppare. Marso patoco significa totalmente marcio. Il monte che in parte scivolò dentro al bacino si chiama Toc.
Io nascevo, duemila persone morivano. Sono legata a questa terra, volente o nolente, perché è il tempo, sono le date che scandiscono la nostra vita. Con gli anni il ricordo di questa tragedia si è offuscato, per lo meno in chi non lo ha vissuto in maniera diretta.
Ma per me è diverso. Ha sempre fatto parte della mia vita.
La mia voce, ancora ineducata e rozza benché in grado di raggiungere tonalità altissime, fu notata dal sacerdote della mia chiesa, che aveva riunito un coro per la messa.
Decise quindi, in accordo con i miei genitori alquanto scettici, di iscrivermi ad un corso di canto amatoriale. Quando compilò la scheda d'iscrizione e pronunciai la mia data di nascita, alzò gli occhi dal foglio, mi guardò. Uno sguardo intenso, quasi rivelatore.
“Daniela,forse il Buon Dio vuole che tu canti per loro....”.
Fu così che mi convinsi. Forse fu una stupidaggine, una parola buttata lì da un parroco sognatore e magari anche un po' esagerato. Ma mi convinsi. Mi convinsi che tutto il dolore che si innalzò in quella notte doveva essere finito da qualche parte. Tutti quei talenti e quelle vite spazzate via dall'onda dovevano essersi raccolti in qualche angolo di cielo.
Io ero una vita e mi era stato dato un talento. Non lo avrei sprecato. Anzi
Forse una di quelle centinaia di anime aveva avuto una seconda possibilità. La possibilità di cantare il suo dolore, di esprimerlo attraverso la mia voce. O, forse, tutto quel dolore era migrato in me, nella mia voce che aveva tante volte risuonato nei teatri.
Ora non potevo più farlo.
Per cui, dovendo rinunciare alla carriera per forza maggiore, avevo deciso di prendere casa ad Erto. Le mie finanze, dopo tanti anni di successo, non mi davano pensieri. Non è stato facile immergersi nella quiete del paese. Dopo la prima settimana, durante la quale ci si gode il silenzio rotto solo dai rumori della natura, capisci che è sempre così. Che non è come in città, quando la domenica è tutto tranquillo e solo il lunedì riparte la frenesia. Gli abitanti sono cordiali ma schivi. In tanti, troppi turisti si sono avvicinati alla lapide con macabra curiosità e nessun rispetto.
Con il passare dei mesi, a piccoli passi e con tanta perseveranza sono riuscita a sentirmi parte di questo paese anche se non sarò mai una vera ertana. La gente di qui è un popolo, un sistema di vita, un'essenza di natura. Sono pezzi di montagna staccati e resi umani da un dio mai conosciuto o, forse, fuggito dopo la tragedia, anch'egli travolto dal dolore e dalla disperazione.
Risalgo i sentieri sassosi, abbandonando vicino alla diga il mio turbine di pensieri. Mi avvicino alla chiesa, fra poco c'è una funzione in ricordo del disastro. La cicatrice non sarà mai chiusa totalmente. Riprenderà a sanguinare, ogni ottobre di ogni anno , finché ci sarà memoria. Ed è giusto che sia così. Solo la memoria può impedire altre tragedie. Anche se non è sempre detto che ci riesca.
La messa è alle 15:30. Decido di partecipare, in fondo manca solo mezz'ora.
La chiesa è piccola, mi metto in piedi appoggiata al muro, lascio le sedie a persone più anziane, molte delle quali hanno dei netti ricordi. La funzione è breve, non una messa vera e propria, piuttosto un insieme di preghiere che immagino fluire verso la lapide per poi innalzarsi verso il cielo. Il parroco sta per dare la benedizione finale. Devo farlo.
Ora.
I tacchi bassi delle mie scarpe risuonano sul marmo. Che stai facendo, la soprano? Non vorrai mica fare la tua opera anche qui? Zitti, maligni e invidiosi. Non avete mai capito.
Noi tutti abbiamo un debito con questa gente. Perché la vanità e la sconsideratezza del genere umano continuano ad uccidere. Perché se è vero che Dio vuole che canti per loro e cantare è pregare due volte, ebbene, io glielo devo. Lo devo a Dio, che mi ha regalato questa voce, lo devo alle vittime, perché io ho avuto il dono della vita nell'istante in cui a loro veniva strappata. Perché il loro giorno sbagliato è stato mio giorno d'inizio, il regalo più grande che possa essere fatto ad un'anima.
Chiedo gentilmente il microfono al parroco, che mi guarda come fossi una pazza. Non mi riconosce, non devono riconoscermi. Ero famosa, ma con i capelli biondi e lunghi. Ora li ho corti e scuri. Egli gira l'asta verso di me.
“Mi chiamo Daniela”, dico,” e sono nata la sera del nove ottobre 1963.
Scusate, oltre a pregare con voi, vorrei rendere omaggio a tutte le vite spezzate con un regalo che la vita, forse Dio stesso mi ha fatto e che spero vi possa essere gradito.”
Il parroco riprende a respirare, le persone intervenute si guardano tra loro ma il silenzio resiste.
Intono l'Ave Maria di Schubert.
La mia voce non mi tradisce. Penso che le persone tradite sono altre. La preghiera si innalza, vola nelle note che riesco a modulare con dolcezza infinita. Chiudo gli occhi, penso alle centinaia di bimbi affogati, al mio, che non ho mai avuto, all'amore che avrei voluto riporre in qualcuno e a tutti gli amori sepolti dal fango, vedo le vite spezzate come rami secchi, immagino i loro volti, lo stupore, la paura, l'angoscia, il terrore. Poi, il nulla. Continuo a cantare. Una lacrima scende, lascio che vada dove vuole, come in quella notte l'acqua è andata dove ha voluto, in un boato, quasi un urlo di dolore per essere costretta a portare morte e non vita.
L'ultima nota, l'ultimo vocalizzo, riapro gli occhi.
Abbasso lo sguardo, ringrazio, mi dirigo verso l'uscita, il passo veloce.
Mi allontano dalla chiesa. Il monte Toc è sempre lì, mi sovrasta, sento il suo sguardo indifferente.” Mi avete voluto sfidare. Mi volevate piegare. Soggiogare me, il corso dell'acqua, sbilanciare gli equilibri naturali, sottoporli al vostro volere, alla vostra brama di progresso e vanità.”
Hai ragione, guarda cosa abbiamo combinato.
Le bandierine sventolano nella semi oscurità. Vorrebbero volare libere come le anime di cui portano il nome.
Restate lì, piccoli, innumerevoli, colorati pezzi di stoffa. Saldi e coriacei come la montagna e la sua gente, a ricordare ciò che non dovrà più accadere. La lapide si sta inabissando nel buio.
Mi dirigo verso l'auto.
Domani sarà il nove ottobre.
Buon compleanno, Daniela.