Il Cristo assente
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”IX EDIZIONE - Arcade, 4 gennaio 2004
Premio speciale
Medaglia d'oro Presidente della Repubblica
Il Cristo assente
di Rocco Capezzone - Menzoda (Argentina)
Stanco morto... non ce la facevo più.
Mi trovavo a parecchie migliaia di chilometri da Buenos Aires ed altrettanti da Santiago; capitali dell’Argentina e del Cile rispettivamente.
Il sole, nell’orizzonte lontano, scompariva lentamente dietro le dune, tutte uguali, monotone, giallognole, non troppo alte... infinite nella distanza.
Infangati, mimetizzati per la polvere, quasi irriconoscibili, sembravamo due extraterrestri, tanto la mia Nissan 4x4 come io che la conducevo.
Solo il proverbiale ed incessante vento patagonico ululava come un coro di lupi della steppa; mentre la luna, con la sua luce prestata trasformava ogni cespuglio in un fantasma da fiabe.
Nella Patagonia... di notte non si viaggia... si dorme.
Dovevo cercare un posticino al riparo dal vento per passare la notte.
Mentre lo cercavo, a piedi, m’accorsi che la mandria di Guanacos mi osservava con curiosità.
Sono simili ai cammelli, un po’ più piccoli, agili, snelli, bellissimi, veloci, appartenenti alla famiglia dei camelidi, vivono tranquilli sulle Ande, maestose ed altissime montagne, colonna vertebrale del Sudamerica.
In tutta la Patagonia abbondano e convivono con i nandù, piccoli struzzi della pampa Sudamericana.
Quasi senza accorgermi, m’ero avvicinato alla mandria che pascolava tranquilla mentre il maschio più vecchio, in disparte, sulla collina mi osservava preoccupato, chiedendosi chissà:: “E questo coglione che cerca qui...:?”.
Mi guardava, lo guardavo, ci guardavamo a vicenda ed io... che cammino da mezzo secolo, attraverso queste sconfinate pianure senza orizzonti e scalo le Ande da tanti anni di fronte a quella bellissima bestiola andina commisi l’errore di superbia di fissarlo agli occhi.
D’improvviso uno sputacchione pestilente mi colpì il viso e mentre col fazzoletto mi asciugavo e pulivo, il “relicho” (capomandria) s’allontanava contento, superbo e soddisfatto, perché... porcaccia la miseria, l'intruso ero io e non lui.
Trovato il posto giusto, riparato dal vento accampai, mentre la luna su di me illuminava a giorno e la Croce del Sud, bussola eterna di queste terre, scintillava nel firmamento.
Dio mio... quanto amo queste terre latinoamericane, dove arrivai mezzo secolo fa, da emigrante, col valigione di cartone e tanti sogni nelle tasche. Amo il vento patagonico, che mi schiaffeggia e mi accarezza il viso, perché mi fa ricordare la tramontana che scendeva dal Brennero, dietro casa mia, dove nacqui e vissi i miei primi traumatici, pazzi e felici vent’anni, lì sul confine, dove la mia lontana Italia comincia o finisce.
Amo queste terre, queste pampas senza orizzonti, queste Ande altissime, aride, fiabesche ed a volte assassine.
Amo, rispetto e difendo questo povero terzo o quarto mondo mio, terra natia dei miei figli e nipoti, tutti latinoamericani.
Amo queste terre martirizzate dall’egoismo degli uomini maledetti da Dio e dalla madreterra, perché molti di essi che hanno le redini politiche-economiche e sociali, oltre ad essere superbi ed avari, sono ciechi, sordi e muti con le miserie, la fame, e le sofferenze di questi popoli sempre oppressi.
Amo queste terre e questi popoli, perché anche se hanno i piedi nel fango, non perdono di vista le stelle, che sotto questi cieli dei mari del Sud.... brillano più che in qualsiasi parte del mondo.
Volevo dormire e non potevo. Quel silenzio eloquente, meraviglioso, feroce, patagonico m’opprimeva, mi faceva male, m’inorridiva perché chissà i ricordi bussavano alla mia porta d’emigrato altoatesino montanaro ed eterno poeta.
Quanti anni.... quanti chilometri e quanta nostalgia d’emigrato.....!!!
Alla mia destra, lontana, la catena delle Ande, con l’Aconcagua (sentinella di pietre) ai piedi del quale ho casa e famiglia.
Verso il Sud finisce la Patagonia, il regno della solitudine e delle distanza senza orizzonti, poi lì quasi dove finisce il mondo lo Stretto di Magellano, dove i due oceani, il tiepido Atlantico ed il freddo Pacifico s’abbracciano in un bacio mortale di schiume e di ghiacci eterni.
Vorrei dormire e non posso, chissà se non voglio, perché da queste parti si dice che dormire è un po’ morire.
Il fischio acuto e prolungato d’un’aquila patagonica mi sveglia.
La luna è scomparsa, il sole appare lontano, mentre alti nel cielo un paio di condor, i volatili rapaci più grandi del mondo volano in circoli e mi osservano preoccupati o chissà hanno la speranza che io mi converta in carogna, per divorarmi.
Ricomincio il viaggio, perché già che sono da queste parti, ho voglia di conoscerlo, di abbracciarlo, di parlare con lui... boia d’un mondo cane.
Tanto a Buenos Aires, come pure a Valparaiso e a Mendoza m’avevano parlato di lui e tutti l’avevano fatto con rispetto, ammirazione e chissà con un po’ d’invidia, di quella buona, perché secondo loro Don Luigi è un santo.
Volevo conoscerlo e dovevo farlo perché anche lui era italiano, era in Sudamerica da molti anni e per di più, m’avevano detto che era un ex cappellano degli alpini d’origine veneta. Per essere più precisi, m’avevano informato che era in Patagonia a cura d’un piccolo villaggio indiano abitato da parecchie famiglie indigene, veri e propri figli di queste terre, oggi quasi in estinzione.
Il villaggio si chiama Pachamama ossia madre terra. Altro non sapevo.
- Viaggia sempre verso il Sud - m’avevano detto – e quando trovi un fiume torrentoso, serpeggiante e molto pericoloso, continua fin dove trovi un ponte di tronchi e funi molto grosso, attraversa il ponte e dopo un paio d’ore di macchina, troverai il villaggio; non sarà difficile perché da lontano si vede il campanile della piccola chiesetta andina.
La descrizione fattami era esatta. Il ponte era proprio come quello di San Francisco, negli U.S.A. e a dura penda potei attraversarlo, perché dondolava e scricchiolava maledettamente.
Dopo un paio d’ore, lontano tra le dune spuntava un piccolo campanile a punta, simile ai piccoli campanili delle chiesette alpine della mia lontana terra tirolese.
Ero arrivato... porcaccia la miseria... ostrega... ero arrivato.
Una dozzina di casette, rustiche, bassotte, col tetto di paglia e fango, parecchi bambini, tutti dagli occhi nerissimi, capelli irsuti e viso bruciato dal sole e dal vento patagonico, molti cani, tutti bastardi, magrissimi e pieni di parassiti, un paio di struzzi sudamericani fra i cani ed i bambini, molti occhi di adulti mi spiavano dalle porte e dalle finestre. Scesi dalla mia Nissan 4 x 4 e battei le mani con forza, come si usa in Sudamerica per annunziare l’arrivo.
Ero in piazza, davanti alla chiesetta... ero arrivato, poi seppi che il villaggio più vicino era a 700 chilometri di distanza, quasi sulla frontiera argentina-cilena, ai piedi delle Ande.
- E il prete italiano dove sarà - mi chiedevo, mentre bambini, cani, galline e struzzi s’avvicinavano timorosi alla mia macchina che, coperta di fango e polvere, sembrava un carro armato sovietico.
Di botto, esce dalla chiesetta un cane lupo, superbo, grande, ben pasciuto, ringhiando come un disgraziato, col pelo del collo irsuto ed un paio d’occhi da diavolo, voleva sbranarmi e mentre tutti i bambini ridevano allegri e divertiti. io cercavo rifugio sulla mia 4x4.
- Sta’ buono Fido... alla cuccia... fiol d’un can... alla cuccia... vai...!
Era lui, il sacerdote scalabriniano veneto, l’ex cappellano degli alpini, reduce dalla Russia..., emigrato ed italianissimo come me... porca miseria.
Era lì, nel culo del mondo (come si dice da queste parti) per portare ovunque sia un emigrato, il conforto della fede ed il sorriso della terra natia.
Ci presentammo e ci abbracciammo con forza e passione come possono farlo due montanari emigrati, lontani 18.000 chilometri dalla terra natia.
La chiesetta era bellissima, pulcra, accogliente, spaziosa ed accanto aveva una stanzetta più che francescana, perché solamente un letto, un inginocchiatoio ed una sedia completavano tutto il mobilio, mentre sulla parete in testa del letto sotto un enorme crocefisso scolpito un legno, originario della Val Gardena v’era appeso ad un chiodo un cappello degli alpini.
Una lunga e lucidissima penna nera lo adornava superba, sostenuta da una striscia di seta bianca-rossa e verde.
Una cucinetta di ferro e ghisa regnava in un’altra stanzetta con accanto un tavolino rustico e quattro sedie di paglia e legno, appeso al tetto di canne e fango, dondolava allegro un fiasco di Chianti, pieno di polvere e ragnatele, appeso lì da chissà quanti anni e per giunta... senza stappare... pieno.
Ci raccontammo tutto, ridemmo e pure... piangemmo un pochino, perché i ricordi e la nostalgia aumentano con gli anni e le distanze... porcaccia la miseria.
Mentre osservo quella chiesetta andina, quel sacerdote missionario e tutta quella povertà francescana, umile, discreta, lontana e santa... boia d’un mondo cane, pensavo senza poter evitarlo... allo sfarzo, alle luci, alle ricchezze, al potere e pure all’enorme distanza fra quest’umile parrocchia del povero terzo o quarto mondo latinoamericano ed il Vaticano.
– Dio mio....quando avverrà nel nostro povero terzo o quarto mondo, il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci... quando avverrà...??? Dal Mexico in giù, fino alla Patagonia, dal Rio Grande fin dove finisce il mondo, non bastano guerre e rivoluzioni, non bastano la fame, le torture , non bastano i milioni e milioni di dollari prestati male. che scompaiono come la neve al sole, nelle tasche di certi farabutti politici – economici e sociali che avari, ciechi, sordi e muti, pensano solamente a loro, ai loro amici e parenti, mentre milioni di esseri umani oggi, cercano nell’immondizia fuori dalle grandi città di quasi tutta l’America latina, un pezzo di pane per non morire di fame. Non tutti i politici o potenti della politica e dell’economia sono colpevoli delle nostre disgrazie... non tutti, solamente una buona parte di essi.
Torniamo alla chiesetta andina ed al vecchio missionario-cappellano degli alpini, in missione nella lontana Patagonia.
Due giorni con quel vecchio prete scalabriniano-alpino e missionario m’avevano fatto bene, perché porca la miseria... boia d’un mondo cane..., se Iddio non era lì... porco giuda... dov’era allora...? Nelle grandi cattedrali...?, nelle grandi sinagoghe, o nelle enormi meschite.
Stavo per andarmene e prima di dare un forte abbraccio al vècio alpino volli fare una visita alla chiesetta e ringraziare Iddio per un buon viaggio di ritorno.
Sull’unico altare, pieno di fiori patagonici, pendeva una grande croce di ferro battuto, era attaccata ad una forte catena che girava su una cremagliera che permetteva subire o abbassare il presente crocifisso.
La croce era lì, dondolando sull’altare, però mancava il Cristo, era nuda.
Sull’altare v’erano depositati tre chiodi ed una corona di spine ed io pensai fra me... ed il Cristo dov’è..., l’avranno rubato chissà...?
Don Luigi mi lesse il pensiero e sorridendo mi disse: Il Cristo, nostro signore Gesù è con i pastori..., quando questa povera gente va lontano con il gregge lo portano con loro, specialmente quando vanno lontano e per molti giorni.
– Lo portano in processione...? - chiesi stupefatto.
- No... caro amico, lo schiodano, gli tolgono la corona di spine, glia abbassiamo le braccia e poi lo montano a cavallo per portarlo con loro lontano ai pascoli più verdi, molto lontano, sulla frontiere fra l’Argentina ed il Cile. Lo montiamo sul cavallo più bello, più forte e più brioso, perché il viaggio è lungo ed a volte pericoloso.
- Strano – pensavo - strano e meraviglioso, da non credere e da raccontare certamente, perché immaginare un Cristo a cavallo... non è cosa normale... o mi sbaglio?.
- Questa buona gente, amano e rispettano Gesù Cristo e non solamente lo fanno cavalcare con loro... pure lo coprono con un bellissimo poncho di lana bianca e nera,. perché essi non vogliono che soffra il freddo patagonico. Ti dirò di più... gli mettono perfino un paio di pantaloni miei che conservavo gelosamente come ricordo del fronte russo, sono un paio di grigio verde d’alpino ostregheta... sono caldi e magari un po’ rappezzati però ancora buoni.
– Ma senta, Padre Luigi... com’è nata l’idea del Cristo a cavallo, pascolando le pecore della patagonia..., perché lo fanno...? Nel Vaticano lo sanno??
– Lo fanno, da quando molti anni fa io lessi loro l’episodio del Vangelo che parla della pecorella smarrita e del buon pastore... capisci..???.
Sì... capivo, ma certo che capivo! Volevo aspettare il ritorno di pastori della Patagonia col Cristo a cavallo, però Don Luigi non me lo consigliò, perché essi sarebbero tornati fra un mese, perché erano lontani, molto lontani, quasi quasi dove finisce il mondo... sul confine stesso fra la terra ed il cielo.