Il bosco
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”XXV EDIZIONE - Arcade, 4 Gennaio 2020
Segnalato
Il bosco
di Giovanna Gelmi - Cologno Monzese (MI)
In verità si può dire
che l’sterno di una montagna
è cosa buona per l’interno di un uomo
(George Wherry)
Il Bosco non lo vedevi arrivare, ma sentivi lo strombazzare del suo motorino per avvisare di uscire con cautela dagli usci, che stava passando. Faceva sempre in questo modo da quando suo nipote era stato travolto con la bicicletta, perché era uscito dalla porta di dietro, direttamente sulla stretta. Per fortuna solo un grande spavento e il cerchione conciato da buttare.
Ma l’aveva riparata lui, la bicicletta, e il ragazzino era tornato subito contento.
Lo si vedeva ogni pomeriggio fare la spola anche cinque o sei volte per la stradina, perché andava su in casa da tutte le cognate a portare le uova, il giornale e i polli, a farsi un bicchiere di rosso.
Dopo la fabbrica saliva alla malga dove teneva le oche e le galline: ci impiegava almeno mezz’ora tra arrampicarsi con il motorino fuoristrada sui sassi che schizzavano via da sotto le ruote e chiudere gli animali, la sera, dopo che erano stati liberi tutta la giornata di seguire le tracce dei semi e delle briciole e tuffarsi rumorosamente nell’ansa dove il ruscello si allargava. L’aveva scavato lui, l’invaso, con i suoi fratelli, in modo da fare spazio alle anatrine e poi ci avevano portato lo scarico della fontana dove prendevano l’acqua convogliata lì dalla sorgente, con le canne che sembravano vermi neri dentro il terreno.
Le quattro oche non si facevano nemmeno sentire: forse riconoscevano il rumore del suo motore o forse erano abituate all’orario del suo arrivo, ma se era qualcun altro ad arrancare sudato per l’ultima salita fin lì in cima, sotto al pergolato della stalla, si mettevano a fare un baccano indescrivibile.
Avevano cominciato a chiamarlo Bosco da ragazzo, quando gli altri avevano già la morosa, ma lui andava dietro più alle mucche che alle ragazze o partiva per funghi e more, solitario: simpatico era simpatico, socievole, anche, ma solo all’osteria davanti al mazzo di carte e al bicchiere di vino con una bella fetta di formaggio, oppure se si andava in combriccola a fare arrostire le salamine sul monte.
Allora ci metteva un attimo a scendere fino alla sorgente con le taniche da riempire e tornare su dalla salita di corsa e con i pesi, senza nemmeno riprendere fiato, prima però raccoglieva l’acqua con le mani e ne beveva a lungo, di freschissima, poi si arrampicava sul primo e coglieva frutti piccoli come gocce d'oro, dolcissimi, da mettere in tavola, intanto che le donne arrostivano sul fuoco le croste del formaggio e le costine. Si stava lì ore e ore e si mangiava come a un festeggiamento di nozze: non finiva il pranzo che era già merenda e poi cena e via con un'altra partita e le chiacchiere di paese e sui monti e a ridere per paura di morire.
Lui veramente di paura non ne aveva mai avuta, quando l'aveva vista di fronte la morte, più di una volta, ma gli aveva voltato la faccia. Quella volta che avevano scarpinato per la rampa delle Rade della Valle del Diavolo, lui e il Rocco, si erano portati anche il cane, un San Bernardo enorme, che sbavava come un lumacone bolso e non riusciva a stare saldo sulle zampe: vuoi che lo avessero avvelenato, vuoi che il peso lo avesse tirato giù, come una carrucola impazzita, di fatto era scivolato sull'erba bagnata e se li era tirati dietro per una ventina di metri sui rovi e le selci appuntite e poi era stramazzato, come un otre che non tiene più. Erano precipitati in silenzio, troppo sorpresi per fare una sola smorfia, un'invocazione di aiuto: si erano rialzati inebetiti, scuotendosi come da un torpore, misurando il precipizio. Il cane no: non si muoveva e adesso era ancora là perché non c'era stato modo di sollevarlo dopo molto, troppo pesante, e l'avevano seppellito sul pendio scavando con le pale la sera stessa, non loro che avevano una gamba fasciata e un braccio al collo, ma i cugini, padroni dell'animale.
La seconda volta è meglio non parlarne, per non evocarne il ricordo, ma che si è soli davanti alla morte non è punto vero, concludeva sempre il Bosco, perché gli era comunque capitato di trovarsi almeno in due a lasciarci quasi la pelle e aiutarsi a incassare i colpi.
Solo, era solo: nel lavoro davanti alla macchina, che sfornava i tondelli belli pasciuti e lucidi, che sembravano panini, a sberleffo della sua fame a mezzogiorno, quando non poteva fermarsi per mangiare che i ritmi erano quelli e c'era poco da sperare. Le donne, poi, non lo avevano mai guardato. Però non è esatto dire così. Lo guardavano e lui sorrideva, addirittura, ma il sorriso gli sgangherava lo sguardo di quei suoi occhi tondi come palle da biliardo che non riuscivano a centrare la buca delle orbite; allora quelle voltavano la faccia e qualche volta le aveva sentite ridacchiare. Perciò era sicuramente meglio affidarsi al bosco, per una bella dormita nel grembo del fiume, umido come le cosce di una donna: meglio scapicollare veloce giù per il sentiero con i rami che ti graffiano con dolcezza, come una gatta in calore. Certo a volte si era accontentato degli scarti degli altri uomini: la ragazza più secca del paese, che nessuno voleva, la vecchia Mina che non sapeva stare senza la compagnia di un uomo.
“Il Bosco è andato a bere il caffè dalla Mina- dicevano le donne che passavano per andare alla bottega – ho visto il motorino davanti al suo uscio”.
Quel fuoristrada infangato era peggio delle impronte digitali, lasciava il segno del suo passaggio ovunque, soprattutto se indugiava sulla stretta, ma lui si sentiva come un cowboy a cavallo sicuro di arrivare in tempo dal viottolo al prato, al cancello della ditta, e poi su e poi giù a prendere il pane, a innaffiare l’orto, a fare una ricetta dal dottore, a liberare le bestie. Una volta aveva preso una corda di quelle che si usano per legare il fieno e aveva fatto sganasciare dalle risate i ragazzini in strada, perché la usava come un lazos e aveva e aveva acchiappato per il collo il micio rosso che si era accucciato, con le orecchie che scopavano terra, miagolando. Sgommando era arrivato fino sotto la saracinesca del Luigino, che aveva appena finito di accatastare la legna segata di recente e l'aveva fatta crollare: il gatto si era liberato e si era infilato svelto svelto sotto un tronco a spiare con gli occhi ancora più sgranati di quelli del Bosco, poi se l'era filata su per l'erta dietro la fontana, soffiando come un mantice.
I ragazzini che l'avevano aiutato a rimettere tutti i ceppi impilati, non la smettevano di darsi di gomito e si piegavano in due tanto si divertivano, anche per quel lavorare assieme a un lavoro da adulti, e il gatto era ritornato con cautela, annusando l'erba piegata dal peso della legna, a fiutare il pericolo, perché “Micio, micio, miciiioooo ... pcpcpc... pcpcpc...”, la vicina l'aveva richiamato dalla finestra con le ossa del pollo.
“Ah, Bosco, che cowboy da ghigno, che sei! Acchiappagatti! Rotolalegna!.”
“Certo che ne hai di immaginazione! Ci fai fare un giro anche a noi su quel bel cavallo scalpitante?”
“Quale cavallo? Ronzino, vuoi dire! Che il Bosco ci ha una bestia da soma, neh? Se ci mettiamo sopra tutti insieme, cammina ancora e ci porta. Dai!”.
“Un giro da soli, volete dire? Siete matti- diceva il Bosco, ridendo anche lui - Non se ne parla neanche, ma se venite ad aiutarci su alla malga, me e il Rocco, che dobbiamo anche noi segare la legna, vi ci porto uno alla volta in moto. Vado e torno e prendo su uno poi l'altro, ci vuole niente. Va bene?
“Affare fatto! Ma ci fai tirare di lazo, ci insegni con la corda come si fa?”
“Vi insegno, vi insegno e vi faccio anche vedere come si piallano i tronchi e come si fa uno steccato. Poi andiamo a gamberi. Ma dopo: prima si lavora. Contenti?”
Un maestro nato, era il Bosco, con quelle sue manone e le guance rubizze che sprizzavano entusiasmo, con quella testa che sarebbe stata sprecata per i numeri e per le parole, tanto era bravo ad adoperare il pensiero per un martello, un forcone o una pinza. Però il giornale lo leggeva, giù all'osteria, tutti i titoli della pagina locale e le foto della Gazzetta dello Sport, se no cosa ci stava a fare al bancone, con gli altri che sapevano tutti i goal, minuto per minuto e i cartellini di espulsioni e il calciomercato. Ma della pagina locale bisognava chiedere a lui: lui era informato dei nuovi ripetitori impiantati a valle perché le linee telefoniche non prendevano bene, della prossima visita pastorale di Sua Eminenza ancor prima del don Bruno, degli scavi lungo la scarpata. Un pò barava, perché non aveva trovato tutto sul giornale, più facile che avesse curiosato qualcosa passando col suo motore.
La volta dell’alluvione, quando serviva un caposquadra per passare i sacchi lungo l'argine fu a lui che lo chiesero: chi meglio di lui conosceva ogni piega delle rive, ogni sacca di ristagno o l'abitudine che aveva la piena di sfregarsi contro i sassi dove non si vedevano più le trote in mezzo al fango e dove nessuno voleva scendere per paura di essere ingoiato? Lui si calò a filo dell'acqua sempre a cavallo del suo fe1rnvecchio, poi lo piantò sul prato ad asciugare, con i ragazzini che gli montavano sopra, adesso che era spento e lui non gli diceva niente se montavano in sella.
Una sola volta l'aveva tradito, maledetto arrugginito, quando non aveva fatto in tempo ad andare a chiamare il dottore per suo fratello Rocco che smaniava che sembrava ubriaco e diceva che gli si arrampicavano addosso gli gnomi, invece era un microbo che gli voleva succhiare il cervello e lo cuoceva di febbre prima di papparselo. Avrebbe voluto gettarlo via, allora, il motorino, e l’aveva preso a calci, una volta, due volte, fino a che era crollato dal cavalletto contro il muretto e si era ammaccato, ma poi aveva pensato che non sarebbe potuto andare a lavorare giù in valle senza il mezzo e allora l’aveva ripulito e bene oliato e adesso funzionava che era una bellezza, meglio di prima, solo era un po' sfasciato sui fianchi, come le sue donne, del resto ci era abituato.
“Gallina vecchia fa buon brodo, gente! La mia carcassa qui funziona che è una meraviglia!”
Aveva ripreso a scorrazzare per la stretta, sempre con un fare preciso, mai per perdita di tempo: portare le balle su al fienilino, portare giù le piume per i cuscini, andare a chiamare per la festa del paese, i biglietti della lotteria no, quelli non li avrebbe mai venduti, aveva detto a don Bruno.
“Mi sembra un imbroglio chiedere i soldi. Piuttosto se volete vi faccio un pollaio nuovo per le galline, vi spazzo il sagrato, salgo sul campanile a sciogliere le campane, ma i soldi, non me li fate raccogliere, che non ne voglio tra le mani.”
“Eh, non fare il santo! – gli diceva don Bruno – che i tuoi peccatucci ce li hai, che tra le mani tieni dell’altro. Perché non te la sposi, la Smilza, che sarebbe ora per tutti e due?”
“Sposarmi, io!? Ma chi mi vuole, Padre?”
Volerlo, forse, non lo voleva nessuno, ma si era tanto abituati a vederlo passare, smanopolando sui freni e sulle marche, che il pomeriggio che non si sentì il brusio di quei pistoni prima flebile, poi sempre più petulante, tutti compresero immediatamente che qualcosa doveva essere accaduto.
Pensarono che se lo fosse ingoiato uno dei temporali che scivolavano giù a tradimento dalla gola dietro le case e l’avessero fatto rotolare giù dalla scarpata, che l’avesse sbranato un cane imbestialito dalla rabbia o che un fulmine l’avesse stroncato scambiandolo per un ramo, nero com'era di limatura, quando usciva dalla fabbrica e si arrampicava a raccogliere la frutta prima di lavarsi per la cena.
Pensarono anche che avesse trovato un amore, di quelli clandestini, con una delle straniere che c'erano in giro in città, magari una di quelle prostitute che stavano incantando tutti i maritati della valle.
“Sono i vostri padri, ragazze, che alimentano la prostituzione” – predicava il don Bruno “vigilate sulle vostre famiglie”.
“Sì, certo, Padre! Mio padre! Ma và…”
“Che fantasie!”, rispondevano le ragazze e facevano spallucce.
Figuriamoci il Bosco: mica si faceva accalappiare, lui. Doveva avere pescato la fortuna con uno di quei Gratta e Vinci dell’osteria e se la stava sicuramente spassando, meglio di un cowboy a Las Vegas.
Invece il Bosco era finito all’ospedale e non c’era stata che una cognata impietosita che aveva fatto spola giù dalla montagna, su di nuovo a casa e poi l’indomani e l’indomani ancora, finché non si era spento come il motore quando si ingolfava, per il bulbo di un tumore, più grosso dei suoi occhi, che gli fioriva nell’intestino. La morte lo aveva aspettato da solo in un momento che i suoi fratelli si erano distratti, che i ragazzini erano alla scuola e le oche non si erano accorte di quel passo sconosciuto, troppo leggero per essere avvertito.
La vecchia Mina se n’era già andata da un pezzo con la testa e bisognava stare dietro a lei, la Smilza aveva trovato uno delle Basse che era disposto a maritarsi in cambio di biancheria lavata e stirata, di una casa in ordine, che la Smilza era sveltissima a puliva di fino. Il Bosco era rimasto a vegliarlo sua cognata, la donna di un altro, anche questa volta, però si era sognato tuttala notte la Sirena del fiume con gli occhi dolci, le cosce bagnate, il seno lattiginoso del biancore dei massi e lui su e giù dalla sponda che le portava un bucaneve, che le offriva l'acqua tra le mani e lei cantava, lui accatastava sassi per un nido.
Sulla stretta passa ancora qualche motorino. Hai voglia di voltarti e vedere passare il Bosco, che accenna appena a un saluto, con il manubrio carico di borse, il sedile posteriore curvo per i pesi. Capisci subito che non è lui, perché non fa soste, passa via diritto senza che nessuno dia una voce dagli usci o dai balconi, senza il suo passo deciso su per una scala, giù da un'altra.
E’ un passare senza un fare preciso, di ragazzi che non sanno ancora prendere al lazos la giornata, perché il Bosco non può insegnarglielo, per questa volta.