Gli scarponcini da montagna
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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”XXII EDIZIONE - Treviso, 8 Gennaio 2017
Segnalato
Gli scarponcini da montagna
di Fiorella Borin - Milano
Gli avevano fatto credere che sarebbe andato sul Caucaso. Giuseppe era corso a vedere sulla carta geografica dove diavolo fosse, questo Caucaso; scoprendo che si trattava di un rilievo montuoso, si era rincuorato. Lui ci era nato, in mezzo ai monti: se si trattava di inerpicarsi su sentieri ripidi, era imbattibile.
Quando gli avevano consegnato l’equipaggiamento per il Fronte Orientale, aveva ammirato solo gli scarponcini da montagna. Gli indumenti erano di lana autarchica, buoni per coprire ma non per tenere caldo. Le calzature invece erano di cuoio vero, con le suole robuste e chiodate. Ad averne cura, asciugandole tutte le sere e spalmandole di grasso quando iniziavano a sciuparsi, sarebbero potute durare trent’anni.
Poco prima di partire, Giuseppe aveva mostrato gli scarponcini al figlio, che si teneva attaccato alle gonne della madre e lo fissava tenendosi il pollice in bocca, spaventato dall’aspetto guerresco dell’uomo che aveva sempre visto indossare una camicia bianca e una giacca che ad ogni lavaggio si faceva più sottile.
“Fa’ il bravo, Tonin, che quando torno si va insieme a pescare le trote. E se porti a casa una bella pagella, mi faccio dare dal comandante un paio anche per te.”
Tonino aveva fatto sì con la testa, ma dagli occhi gli rotolavano giù lacrimoni grossi come biglie.
Giuseppe gli aveva arruffato i capelli. Una carezza ruvida, virile, al posto del bacio che avrebbe voluto posargli sulle guance arrossate dal pianto.
Poi era venuto il commiato da lei, Mariella, che lo fissava impietrita. L’incarnato si era fatto grigio, lo sguardo conteneva ansia e spavento.
“Sta’ tranquilla. Mi passo il Natale con i soldati, ma a Pasqua sono di nuovo con voi.” Le aveva parlato con baldanza, vincendo la tentazione di abbracciarla così forte da sentire il suo respiro mescolarsi al proprio.
E lei, per non angosciare il bambino, aveva detto la frase che ogni madre, ogni sposa, ogni figlia rivolgeva all’uomo in partenza per la guerra: “Stai attento.” Significava tante cose: abbi cura di te, non essere imprudente, ricordati di noi che ti aspettiamo e viviamo solo per il tuo ritorno…
Accoccolato sul pavimento della tradotta che li avrebbe portati in territorio sovietico, Giuseppe aveva rivissuto mille volte questi ultimi minuti trascorsi in famiglia: non c’era giorno che non avesse visto sfilare in sequenza ogni gesto e ogni parola, sia quelle dette che quelle non dette (ed erano le più vere, le più importanti). Si guardava gli scarponcini e pensava ai monti su cui si sarebbe arrampicato, con quella bestia di zaino sulla groppa, e con l’aggiunta di qualche pezzo di artiglieria che sarebbe stato la seconda bestia…
Il treno correva sobbalzando e il paesaggio era sempre uguale: così piatto da far venire voglia di guardare da un’altra parte; e persino la paglia e le tavole disposte sul pavimento per proteggersi dal freddo gli sembravano più interessanti. Si cantava, ogni tanto. Si giocava a carte, a morra, a braccio di ferro, e si rompeva col piccone lo strato di escrementi ghiacciati che ingombravano la latrina. Si approfittava di ogni sosta per rubare un po’ di carbone ai tedeschi per alimentare la stufa che aveva il tiraggio difettoso e il più delle volte rimandava indietro il fumo, facendo tossire e bestemmiare i soldati. Si incrociavano treni che rimpatriavano i feriti. E dai finestrini trapelavano teste fasciate, moncherini dalle bende insanguinate.
Giuseppe pensava che loro portavano in Russia il nero della fuliggine, e la Russia restituiva il rosso del sangue e il bianco delle fasce.
Cielo plumbeo, orizzonte basso: assenza di colori. Solo a volte il cielo sembrava impietosirsi e regalava, al tramonto, strisce di rosa, indaco e violetto. Brevi pennellate di colore su una tavolozza che subito si faceva buia, e tutto ingoiava: le carcasse dei camion incendiati, i rottami degli aerei abbattuti, le sagome sventrate dei carri armati che, con amara irriverenza, i soldati italiani avevano soprannominato “scatole di sardine”, tanto la loro lamiera era sottile e le loro dimensioni patetiche.
Giuseppe passava lo straccio sugli scarponcini e pensava che forse non gli sarebbero durati trent’anni. Pensava che non li avrebbe potuti regalare un giorno al suo Tonin, perché se era partito convinto che la guerra fosse già vinta e la loro spedizione sul Caucaso fosse una specie di escursione turistica, adesso cominciava a capire la differenza tra la verità e la propaganda. E la verità era che l’inverno russo era qualcosa di inimmaginabile per ferocia, e che l’equipaggiamento degli italiani era del tutto inadeguato a sopportare temperature di 40 gradi sotto lo zero.
Ogni giorno, a bordo della tradotta, qualcuno si svegliava gridando perché gli si erano congelati i piedi o le mani. E allora bisognava approfittare della prima fermata del treno per far scendere il poveretto e frizionargli mani e piedi con la neve: un metodo brutale, che però favoriva il riattivarsi della circolazione. Ma in certi casi non c’era niente da fare: la cancrena avanzava e bisognava amputare almeno qualche dito. E ancora la loro guerra non era cominciata…
Il paesaggio rimaneva sempre uguale: piatto e grigio, affondato nella neve del dicembre del ’42. Se si può parlare di fortuna, Giuseppe poté considerarsi fortunato, perché la tradotta – che inizialmente avrebbe dovuto puntare a nord – venne fatta deviare a sud, essendo arrivata in tempo la notizia che i russi avevano sferrato la loro offensiva e che Voronez era caduta in mano sovietica.
E così conobbero l’Ucraina. Le donne infagottate in stracci che le rendevano lugubri figure informi, chine sui binari della ferrovia per raccogliere minuscoli frammenti di carbone da cui ricavare almeno un’illusione di tepore; i bambini ucraini, che offrivano cavoli sotto aceto in cambio di qualche sigaretta; le spose che chiedevano di comprare saponette e, prima di pagarle, le infilzavano con lunghi spilloni, perché sul treno precedente alcuni italiani avevano spacciato per saponette pietre pomici rivestite solo da un sottilissimo strato di sapone – e qui Giuseppe era arrossito dalla vergogna. E con i suoi occhi aveva visto un soldato italiano proporre a una ragazzina una matassa di lana… che era in realtà una tavoletta di legno sulla quale erano stati arrotolati solo pochi metri di filato.
Aveva visto i soldati tedeschi sparare addosso a due italiani che avevano rubato dal magazzino un sacco di carote da abbrustolire sulla stufa: le avrebbero divise tra i compagni, affamati come loro, perché quel giorno si era rovesciata nella neve una delle due marmitte con la “sboba” e così non avevano potuto mettere niente nello stomaco. I crucchi avevano sparato ad altezza d’uomo, per uccidere. I due si erano salvati solo perché la mira teutonica era stata scarsa e i garretti italici ben allenati alla fuga.
La tradotta proseguiva verso sud. Erano stati segnalati agguati dei partigiani russi che ogni tanto sparavano dal boschetto che costeggiava il binario: andavano in frantumi i vetri dei finestrini e più di qualcuno rimase ferito dalle schegge.
Giuseppe venne messo di guardia a un finestrino, col moschetto modello ’91 puntato contro un nemico invisibile. L’aria gelida gli tagliava il viso, gli occhi erano talmente sofferenti per il freddo da impedirgli di mettere a fuoco qualsiasi cosa, e le mani si erano rattrappite sul fucile. Gli sarebbe stato impossibile premere il grilletto. Era questa, la guerra a cui lo avevano mandato. Era questo morire di freddo, senza avere sparato nemmeno un colpo. Era cadere non per mano del nemico, ma per la crudeltà dell’inverno russo. “Ciò che per voi è veleno, per noi russi è ambrosia” gli aveva detto con una smorfia ironica un vecchio che barattava patate in una stazione.
Si stava trasformando in una statua di ghiaccio, quando il treno si fermò di schianto. E per il contraccolpo gli scappò di mano il fucile. Si riscosse dal torpore che precedeva l’assideramento, pestò i piedi, scrollò le spalle, mosse le braccia come per volare. Semi-incosciente, per un istante si credette un’aquila, la regina delle vette, la creatura alata che tante volte aveva visto volteggiare nei giorni felici del “prima”, quando portava la camicia bianca, la giacchetta lisa, e faceva l’insegnante di disegno. Gli sembrò di essere un’aquila e di tenere fra gli artigli la consunta cartella di cuoio in cui infilava qualche libro e il registro di classe, i giorni in cui il suo mondo era la scuola, Mariella e Tonino – un piccolo mondo incastonato come una gemma fra le verdi montagne d’Italia.
“Scendi! Corri a riprendere il moschetto” gli urlò nelle orecchie un sergente. “Avviso io il macchinista di aspettarti.”
Giuseppe si guardò interdetto le braccia: non vide le penne brune della regina delle vette, ma le maniche di un pastrano che non teneva caldo.
“Signorsì” rispose e mosse i primi passi, dapprima impacciati, poi più sicuri, e scese dal treno. Doveva a tutti i costi trovare il moschetto e poi tornare di corsa. Tirò il fiato, l’aria gelida gli entrò nei polmoni come una coltellata, cominciò a correre… Gli sembrava di vedere qualcosa di lungo e scuro, una cinquantina di metri più avanti… ma sì! Doveva essere il suo fucile. Ringraziò Dio. Ma la preghiera gli morì sulle labbra quando si accorse che era solo un pezzo di legno. Riprese a correre.
“Dove sei, moschetto della malora?” Gli rispose lo sferragliare del treno che si rimetteva in marcia.
“Ehi! Ehi!” gridò. Si sbracciò mentre rincorreva il treno che aumentava la velocità, rimpiccioliva, si allontanava senza di lui.
“Adesso il sergente tirerà il segnale d’allarme” disse per rincuorarsi. “Il treno si fermerà di nuovo, non possono lasciarmi qui, solo, nella neve!” Ma il treno proseguiva imperterrito, un verme di ferro che tossiva e sghignazzava sempre più flebilmente. Non si vedeva più.
Giuseppe cadde in ginocchio. “Sono un italiano! Un italiano come voi! Perché mi abbandonate? Perché mi uccidete?” Sentì gli occhi riempirsi di lacrime, che subito si trasformarono in grumi di ghiaccio. E ripensò agli occhi azzurri di Tonino, agli occhi verdi di Mariella, così limpidi e lontani, lontanissimi da lui, in quella patria che prendeva i suoi figli e li mandava a morire senza una ragione.
Si rimise in piedi, riprese il cammino. Trovò finalmente il moschetto e, mentre lo sollevava dalla neve, sentì uscirgli dalla gola un verso che forse era una risata, forse un singhiozzo di disperazione, un verso di animale più che di uomo. Che cosa se ne sarebbe fatto, di quel moschetto? Forse lo avrebbe usato contro se stesso, per farla finita prima che il tormento del gelo e della fame si fosse fatto insopportabile. E stava già per puntarselo alla gola, quando vide un filo di fumo levarsi dal boschetto di conifere; e verso l’origine di quel fumo si incamminò.
C’era un’isba: una casupola bianca col tetto di paglia, un microscopico orto, e quattro scalini di legno per raggiungere la porta. Depose a terra il moschetto, salì i gradini, bussò.
Udì la voce spaventata di un vecchio che rispondeva in russo, e sperò che quell’accozzaglia di suoni fosse l’invito a entrare. Spinse la porta, si trovò in un vestibolo, bussò anche alla seconda porta. “Ia italianski, niet deutsch!” gridò in tono supplichevole: sono italiano, non tedesco, e rimase fermo a guardare la porta che restava chiusa.
Gli aprì un uomo dalla barba bianca e il viso incartapecorito dalle rughe. Gli fece cenno di togliersi il cappotto, di entrare, di sedersi vicino alla stufa collocata al centro della stanza. Gli guardò con aria di disapprovazione gli scarponcini, e a gesti lo sollecitò a sfilarseli dai piedi, mimando l’andatura di uno zoppo.
E Giuseppe, frastornato da quel meraviglioso tepore che lo avvolgeva come un miracolo, stordito dal profumo della ciotola colma di zuppa che una donna appena meno decrepita del marito gli porgeva con dolcezza materna, comprese che Dio abitava in quella casa poverissima e lo aveva aspettato là dentro, forse tenendosi in braccio il gatto di nome Kokoschka che ronfava placidamente e che socchiuse solo un occhio per studiarlo e subito lo richiuse, per riacchiappare il sogno interrotto.
I due vecchi gli offrirono una coperta per la notte: lui li ringraziò disegnando sui bordi delle pagine di un giornale le montagne da cui era venuto, e daini, caprioli, marmotte; disegnò il torrente dove pescava le trote e, da ultime, le stelle alpine. A gesti spiegò che quei fiori nascono e crescono fra le rocce più alte, si nutrono d’aria e di cielo, e a toccarle si ha l’impressione di sfiorare una stoffa che in Italia si chiama velluto.
“Veliuto, da, da” ripetevano i vecchi, incantati dai suoi disegni e dalla sua voce così piena di umanità e nostalgia. E mentre la donna intonava sottovoce antiche canzoni della steppa, a Giuseppe parve di sentire l’odore del muschio, delle cortecce, dei rami di pino raccolti prima di Natale per decorare il salotto, il profumo della resina e delle foglie fradice della pioggia che annuncia la fine dell’estate; si sentì di nuovo fra le sue montagne e si addormentò sereno, come mai gli era successo da quando aveva indossato la divisa di soldato.
L’indomani fu il vecchio a svegliarlo porgendogli una tazza di tè bollente, dolcificato col miele. A gesti, gli fece intendere che lo avrebbe accompagnato con il carretto alla vicina stazione ferroviaria, dove avrebbe potuto ricongiungersi ad altri soldati italiani. Giuseppe allungò le mani per calzare gli scarponcini; ma il vecchio scosse con decisione la testa, di nuovo mimando l’andatura di chi diventerà zoppo, e Giuseppe annuì, perché aveva sperimentato anche lui la tortura di quelle suole chiodate che trattenevano il gelo e lo spingevano su, verso la caviglia, e più su, fino alle ginocchia e le anche, causando il congelamento.
Gli donarono un paio di valenki, gli stivali di feltro che usavano loro, e che proteggevano davvero dai rigori del freddo russo E fu con quei valenki ai piedi, che Giuseppe tornò in Italia e poté correre incontro a Tonino e Mariella che lo aspettavano tenendosi per mano sulla soglia di casa, con gli occhi pieni di lacrime finalmente belle.
I suoi scarponcini erano rimasti nell’isba vicina al Donetz. E mentre una donna tagliava la verdura per la minestra e si teneva compagnia cantando sottovoce antiche canzoni della steppa, un vecchio seduto accanto a una stufa li stava spalmando di grasso, per farli durare ancora trent’anni.