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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XXV EDIZIONE - Arcade, 4 Gennaio 2020
Segnalato

Forma e sostanza

di Davide Palmarini - Sesto Calende (VA)



L’Osteria del Tino è poco più di un locale dalla pianta irregolare nel centro del paese. Non è un luogo di aggregazione, è IL luogo.  
Intorno, solamente la cruda bellezza della montagna, e fatica nera tutto l’anno. Niente più di questo.
Il tavolo davanti al camino è il regno indiscusso del Negus. Trascorre qui le lunghe ore del letargo invernale, asciugando le ossa dal freddo e dalla fatica, e pianificando le attività per la primavera successiva.  Di professione contrabbandiere, anche se con modestia ama definirsi un semplice conoscitore delle sue montagne, vive la sua vita in perenne equilibrio tra legale ed illegale, con una netta preferenza per quest’ultimo.   
Pirata senza mari da navigare, ha scelto la quiete della Val Vigezzo per dirigere i traffici che si snodano lungo i valichi delle  Alpi Lepontine.  
Quando non è in prigione a Domodossola, si intende.
Di lui si dice, o forse si sa, che dia lavoro a decine di persone. Interrogato una volta sulla questione dal Brigadiere Capo Gene Bartocchi, fece mettere a verbale: “la gente pensa, la gente mormora, la gente dice, la gente sa. Chieda a loro se è solo pettegolezzo o verità. Anche se ad andar sinceri, Signor Brigadiere, il pettegolezzo è il massimo che si può ottenere, quassù”.
Indubbiamente il Negus ha legami potenti.
C’è chi giura di averlo visto in compagnia del Capitano Guido Bustelli, responsabile dei servizi segreti svizzeri, un pomeriggio del giugno ’44 in una casera della Valle Onsernone a discutere senza troppo garbo nei confronti del grado militare del suo ospite.
Il Bustelli era un convinto sostenitore del fronte antifascista, ed aveva saputo di infiltrazioni in territorio elvetico di agenti della polizia speciale della Repubblica Sociale Italiana. Erano nell’aria azioni illegali di cattura e trasferimento di capi partigiani e politici rifugiati nel Ticino.
Si sapeva di fatti accaduti a Lugano, ad Agno, a Ponte Tresa, a Bellinzona.
Voleva avere certezza di potere contare sul Negus e sui suoi uomini in caso di necessità. Nessuno conosceva i passaggi tra quei monti meglio di loro. Avrebbero potuto tenere corsi di formazione ai caprioli, volendo. Non voleva che si ripetesse quella storia dell’Ubaldo, disgraziato e Giuda, che aveva venduto alle Camicie Nere le famiglie ebree che lo avevano pagato per raggiungere la neutrale Svizzera attraverso i valloni che corrono lungo Ponte Ribellasca.
Il Negus nicchiava.
Di politica non parlava mai, per indole e per necessità, anche se la sua avversione all’ordine costituito non dava adito a dubbi da che parte stesse. Voleva solo alzare la posta; chiedeva in cambio campo libero per tutta l’estate nel contrabbando del riso, l’oro bianco che gli spalloni, gli “sfrositt”, comperavano nelle risaie del vercellese e rivendevano illegalmente in Svizzera. Pretendeva immunità fino a quando la neve non avesse messo tutto a riposo. La sua era una posizione di rendita, sapeva che la guerra un giorno sarebbe finita, comunque andasse, ed i prezzi sarebbero crollati. Nel Giugno del ’43 un franco svizzero era quotato sul mercato nero circa 25 lire italiane, un anno dopo  aveva sfondato le 200 lire e continuava a salire.
Era momento di mettere fieno in cascina, lo sapeva. Chiedeva al Bustelli –o meglio, imponeva -  che le guardie di confine chiudessero un occhio, anzi due; ne parlasse con gli ufficiali delle Guardie Doganali e li convincesse.
La discussione fu animata, al limite della rissa, ma alla fine il Bustelli cedette. Quell’estate le bande del Negus agirono pressoché indisturbate, spingendosi ben oltre i villaggi di confine, osando là dove i prezzi del riso erano più alti.
Non si arricchì.  Di quei traffici si sfamarono molte famiglie, che poterono accedere al mercato nero per acquistare le merci di base necessarie alla sopravvivenza quotidiana.
Il tempo era passato, la guerra si era infine spenta.  Quell’incontro forse non c’era mai stato ed era solo una leggenda che volava di paese in  paese, fino a rotolare giù nel fondovalle ed oltre, ma spesso –si sa- le leggende affondano radici nella realtà.
Il Negus non confermava, e neppure smentiva; semplicemente, a domanda, non rispondeva.
Il conflitto aveva disseminato le montagne di morte e dolore, di baite bruciate e di paesi abbandonati; il silenzio era un atto di rispetto dovuto, a cui si atteneva con rigore assoluto.
Ora stava lì, seduto tra il fumo e il vociare non proprio garbato degli avventori dell’Osteria. Contadini, operai, scalpellini e spaccalegna, gente avvezza ad un uso sconsiderato della voce, dell’alcool e del torpiloquio.
Davanti a lui, il finanziere scelto Antonio Lo Cicero.
Ad unire, due bicchieri ed una caraffa di vino piena a metà. La seconda.
A dividere, due diverse chiavi di lettura della realtà.
Il Negus incalza ormai da un’oretta Lo Cicero in un discorso che vola alto come un’aquila tra le vette. La sua voce è netta, le sue parole chiare come il marmo bianco che si cava a mano nei dintorni del lago di Scaredi, in territorio di Malesco, appena un passo sotto la Val Grande; territorio oggi amato da molti per la sua solitaria bellezza, ma per secoli maledetto da tutti per la sua avarezza.
“Non si tratta di condurre il gioco fuori dalle regole. Si tratta di portarlo oltre le regole. Il contrabbando, come lo chiami tu, non è una scelta. E’ una condizione obbligata, un atto d’amore verso questi luoghi. La bricolla che portiamo in spalla è la radice che ci tiene incollati alla montagna. Se la tagli frana tutto. Prima gli uomini, che sono costretti a scivolare a valle,ad emigrare, perché qui come sai lavoro ghe minga. Poi la montagna, che se non la curi la ven giò. Lasciami dire: quelli che insegui la notte sui sentieri non sono briganti., sono uomini da soma che non sudano certo acqua santa. Ma i delitti sono altra cosa”.
Lo Cicero aveva rispetto per il Negus. Poteva essere suo padre, ne aveva all’incirca la stessa età. Invidiava la sua essenza di spirito libero, la sua profonda conoscenza delle valli, mentre lui la sua Napoli non l’aveva mai neppure vista per intero. Condivideva con quei valligiani la stessa storia di fame atavica, di miseria radicata, radicale, nera come le notti senza luna nè stelle.  
Distaccato in servizio nella primavera del ’49, fresco di caserma, era arrivato subito dopo le eccezionali nevicate di marzo che avevano trasformato l’Italia intera in un Paese ovattato. Colpito dal contrasto tra la bellezza dei luoghi e l’asprezza degli abitanti, ci aveva messo poco a capire che l’intruso non erano il suo accento partenopeo e neppure la sua indole vesuviana, quanto la divisa che portava.   
“Allora Margaroli” –lo chiamava sempre con il suo cognome, cercando di mantenere una parvenza di ufficialità – cerca di capirmi. Non è difficile, dai. Io lavoro per fare rispettare la legge, ma non voglio essere giudice. Le leggi non le ho scritte io, e neppure ho disegnato il confine. Con la carta e con la penna non ho famigliarità. Non voglio dire delle scelte, ma contrabbando quello rimane. Ed è illegale. “
Il Negus amava quando lo chiamavano per cognome. Osservava il suo ospite con occhi furbetti, lisciandosi la barba. Stava per lanciare sul bersaglio un siluro di profondità, sparato a novecento metri di quota.
Bagaj (ragazzo, nel dialetto delle montagne).   Tu hai le tue convinzioni, ed è giusto. Vesti una divisa che ti dà il pane, è una scelta che non mi trova d’accordo ma la rispetto. Ma dimmi un po’, tu hai moglie, giusto?”
“Si, certo, da un anno e mezzo”. Lo Cicero annusava l’onda d’urto che precede l’arrivo del proiettile. Per istinto tese la schiena ed arpionò le mani alle assi del tavolo.
“E la ami, e ti manca, vero?”
“….Si….”  
“Si…..e sai perché ti manca? Lo sai, vero?” Quella domanda grondava un’ironia spessa come la lingua di un bue. Il siluro stava arrivando al bersaglio.
“Te lo ricordo io, bel cicin. Ti manca perché sei qui da un anno e l’hai vista in tutto 23 giorni, e la domanda di ricongiungimento famigliare è stata sospesa, nonostante i verbali e i sequestri e tutta quella roba lì che fa di te un militare esemplare. Ecco perché. Sei giovane, sei pieno di energia,  il tuo impegno andrebbe premiato, secondo me.  Invece il tuo datore di lavoro ti bastona, e per quale motivo?”
Il discorso stava scivolando nell’analisi sociopolitica. Lo Cicero serrava le labbra. La divisa imponeva il silenzio.
“Perché le Alpi, tutte le Alpi, dal confine con la Francia fino al Carso, sono gonfie di soldati messi lì a difendere, …come era quella boiata che ho letto l’altro giorno su La Stampa, aspetta… ah sì, “il sovrano interesse nazionale”. Ora voglio dire, io a scuola ci sono stato lo stretto necessario e non capisco tanto bene fino in fondo, ma lo Stato non può permettersi i ricongiungimenti perché siete troppi.  Siete un costo, tutto qui. Meglio parcheggiarvi nelle caserme, e bon.  Eccolo qui l’interesse nazionale. Poi pazienza se fate bene il vostro lavoro,  anzi meglio lo fate più ci restate, perché siete utili alla causa. Vi pagano, e da quel che so neanche un granché, per vivere in esilio, senza famiglia, in luoghi dai quali chi ci è nato se può scappa, e dove chi rimane, non vi ama. T’è capì, bel fiurell?
Versò del vino nei bicchieri.
“Alla salute di tutti i finanzieri d’Italia” disse alzando il suo, scolandolo alla velocità di un lampo.
Lo Cicero lo guardava con la mascella contratta. Si sentiva in trappola, il ragionamento del Negus non dava spazio ad alcuna replica.  Era stato colpito e affondato.
“Dove vuoi arrivare, Margaroli?” Gli chiese con voce impastata di rabbia e disagio.
“Ad un ragionevole compromesso”, gli rispose. Aveva imparato l’arte della negoziazione con gli svizzeri negli anni della guerra, e provava un certo gusto nel piegare le ragioni di Stato alle sue.
Si concesse una breve pausa, poi proseguì.
“Questa storia dei confini è roba buona per i pesci grandi che mangiano i pesci piccoli. I pesci di terra però, che da quel che so non esistono, perché quelli del fiume che scende giù al Lago Maggiore dei confini se ne fregano. Sguazzano di qua e di là secondo natura, a cui apparteniamo, anche se spesso ce ne dimentichiamo.
Però alla fine se ci pensi il confine è un’occasione di lavoro per tuttii” disse con un gesto circolare dell’indice puntato al cielo, che voleva includere una comunità di emarginati, più che di valligiani.
“Non ti dico di chiudere un occhio perché sarebbe tentata corruzione e certamente poco onorevole per me. Aprili invece bene tutti e due ed osserva. Il Tino questa osteria non l’ha costruita falciando il fieno dei pascoli, non gli sarebbe bastato un campo grande come il Canada” -nel suo immaginario il Canada era l’unità di misura di una terra infinita. Così glielo aveva descritto nelle lettere il cugino, partito dalla Valle Antigorio molti anni prima e mai più ritornato. - “E uguale l’officina dell’Aliprandi in fondo al paese. E se l’Eraldo manda la figlia a scuola giù a Domodossola con la corriera tutti i giorni non è certo merito del serizzo che cava fuori dalla roccia a cottimo con il piccone da quando era uno sgarzolino”.
Lo Cicero lo sapeva bene. C’era molta arte di arrangiarsi tra quelle persone, più pratica e meno sguaiata, ma così simile alla sua gente. Anche per questo, in fondo, li rispettava.
“Avete tutti il sale rosa in casa(1)” disse, “questo lo sanno anche i Santi dipinti in Chiesa, e quindi? Dove vuoi arrivare?”
Il Negus soppesò  con attenzione le parole che andava a pronunciare. Si piegò un poco verso il giovane finanziere.
“Ad Ottobre, dopo la raccolta delle castagne, l’Alfio sposa la Rosina di Druogno. Lo sai, è un disgraziato senza famiglia, per lui questo matrimonio significa parecchio. “
“Non sapevo avessi inaugurato un’agenzia matrimoniale”, schernì il Lo Cicero.
fa no il barlafuss, terunel. E tas. Per metter su casa ha investito quel che aveva in un carico di bionde da portare giù dalla Svizzera. Poca roba, t’assicuro. Il servizio glielo organizzo io, sabato prossimo. Ci tengo che vada tutto bene. Io te lo dico, un po’ perché sono un pirla, un po’ perché se l’Alfio non si sistema adesso non si sistema più, inizia ad avere la sua età. Il rischio che si trovi amante di un barile di vino diverso ogni sera non mi piace affatto”.
L’uomo in divisa si sentiva diviso. Da un lato il militare tutto d’un pezzo, dall’altro l’essere umano con tutti i suoi dubbi.
“Margaroli, lo sai che non…”
Bagaj, guarda che l’Alfio al tuo datore di lavoro ci ha dato tre anni di vita fra Albania e Russia. E’ partito sano ed è tornato con due dita in meno del piede destro causa congelamento.
Ha chiesto il riconoscimento dell’invalidità ma quelle due dita gliele hanno infilate in un occhio. Te capìì?? Diciamo che un piccolo risarcimento ci può anche stare.”
L’aria si era fatta spessa.
Il Tino aveva messo un’altra caraffa sul tavolo, senza che nessuno l’avesse chiesta.
Il simbolo della Repubblica guardava dritto negli occhi di Lo Cicero, che puntava il Negus, che a sua volta era stato rapito dai seni dell’Eleonora che armeggiava dietro il bancone.
Rimasero a lungo in silenzio, come due giocatori di scacchi.
“Va bene, Margaroli”, proruppe infine l’uomo di Stato.  “Va bene. Tu fai la lepre. Ti sequestro la bricolla, ma fai attenzione che dentro ci siano 249 pezzi, non uno di più (2). Gli altri passano da un’altra parte. E niente scherzi, ma soprattutto silenzio. Se qualcuno lo viene a sapere, io ti sparo. Sul serio Margaroli. Tu finisci sparato. E questa non è una minaccia, è una promessa.”
“Niente scherzi – rispose l’altro- , io ci sto. Saremmo arrivati ad un accordo onorevole, te lo avevo detto. Si vede che sei un brav’ omm, mica un invasato. Bravo Antonio, bravo  QUAGLIONE”
Scaraffò il vino, porse il calice, alzo il suo al cielo “All’amore!” disse. “All’amore! E figli maschi!!” ribattè Lo Cicero, in evidente stato alcolico.
Venne Ottobre, con i suoi colori, il fogliame che copre la terra e le vacche che rientrano dagli alpeggi in alta quota verso le stalle del fondovalle.
La seconda domenica del mese, era un giorno terso e luminoso come non se ne vedono poi tanti,  si celebrò il matrimonio tra l’Alfio e la Rosina, in un tripudio di pacche sulle spalle e strette di mano e balli in piazza.
Qualcuno giurò che di avere visto il Negus e il finanziere scambiarsi uno sguardo d’intesa quel giorno, sul sagrato fuori dalla Chiesa.
L’Alfio e la Rosina ebbero un solo figlio, maschio.
Lo chiamarono Antonio.



NOTE a margine del racconto.
Questa è una storia inventata, che ha come protagonisti due personaggi realmente esistiti.
- Bartolomeo Pietro Margaroli, detto “il Negus”, nacque a Mozzio (Valle Antigorio) nel 1888. Si stabilì nella Valle Vigezzo, dalla quale arrivò a dirigere il lavoro di alcune decine di “spalloni” nel traffico del riso (prima) e delle sigarette (poi) di contrabbando. Non si arricchì mai, e per questo venne rispettato e protetto dagli abitanti della valle. Alla fine della sua vita si dedicò ai campi e ai ricordi. Appartiene ad un’epopea in cui il contrabbando era necessità e non crimine in senso stretto.  Il giorno del suo funerale, due Brigadieri della Guardia di Finanza si presentarono per l’ultimo saluto.
- Guido Bustelli (1905 -1992), capitano dell’esercito svizzero, durante la Seconda Guerra Mondiale entrò a far parte dei servizi segreti del suo Paese. Nel ‘45 partecipò alle trattative di resa tra l'esercito americano, i partigiani italiani e i tedeschi in ritirata, ragion per cui il Comitato di Liberazione Nazionale gli conferì la medaglia d'onore.  Nel dopoguerra è stato membro del consiglio comunale di Lugano e deputato al Gran Consiglio.
(1) Dalla fine dell’Ottocento fino alla prima metà del Novecento lungo le Alpi di confine del Piemonte  è il cosiddetto "tempo del sale". Si tratta del sale venduto dall’Italia alla Svizzera, che - come il tabacco - non gravava di accise, quindi diventava più conveniente del sale venduto nei negozi di "Sale e Tabacchi". Per intercettare ed impedire la reintroduzione illegale in Italia il ministero delle finanze colorava di rosa il prodotto destinato all’esportazione. Avere il sale rosa era quindi sinonimo di adesione o connivenza con il contrabbando.
(2) I contrabbandieri radunavano i pacchetti di sigarette in stecche da 25 pezzi al posti dei classici 10, avvolgendoli in carta catramata per proteggere il carico dalla pioggia e dal sudore dello “spallone”, o meglio dello “sfrosit”, com’era chiamato in dialetto. In caso di sequestro, fino a 249 pacchetti vi era una multa salata, oltre scattava l’arresto, che eracommisurato in misura proporzionale al carico sequestrato.
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